1.
Sviluppi (1994-1999)
1. La nascita del Telegrafino (1994)
A sei anni dal deposito dell’invenzione della Televisione
Interattiva Equivalente credo di poterne, e doverne, scrivere la storia
con sufficiente distacco. Riferirò però fatti essenziali documentati, limitando
il più possibile le opinioni personali.
L’invenzione non è nata di getto, bell’e fatta o
per illuminazione superiore, ma è derivata, indirettamente, dalle mie ricerche
sulla telegrafia e sulla comunicazione in generale[1].
Mi sono battuto, e continuerò tenacemente a farlo, per riuscire a sfruttare
economicamente il brevetto e finanziare così le ricerche da cui l’invenzione
era nata.
Nel mio curriculum ci sono quattro domande di
brevetto: la prima, del 1987,
non è stata accolta, perché non brevettabile; la seconda
ha avuto l’attestato, ma dopo qualche anno l’ho abbandonata (non ho più pagato
le tasse); la terza
l’ho revocata; la quarta,
quella che considero il mio capolavoro e di cui sto narrando la storia, ha
ottenuto un brevetto che conto di mantenere in ogni
caso e a tutti i costi, convinto che il brevetto vero potrà darlo solo il
consenso di una collettività.
Dopo aver lavorato a tempo pieno, per quattro
mesi, dal novembre ‘93, ero pronto a depositare un sistema affatto
diverso di Televisione Interattiva Equivalente, dal titolo “Sistema di fonocomando per
trasmettere un codice, in parte mimetizzato, da un televisore ad uno o più
fonoricevitori posti nello stesso ambiente, allo scopo di simulare, nell’ambito
di un gioco televisivo a quiz, un collegamento telegrafico bidirezionale
supportato dal normale canale televisivo unidirezionale”. Poi,
il 26.3.94, ebbi l’idea[2],
che a tutt’oggi considero vincente, di far ricorso a codici temporizzati e
mimetizzati (Cap. 3). Ricominciai
praticamente tutto daccapo e dopo un altro mese di intenso lavoro depositai.
Era nato il Telegrafino (vedi
AG 5).
Ma “altro è inventare, altro è far comprendere,
accettare, collocare, sfruttare l’invenzione. Qui entrano in gioco qualità
spesso estranee all’inventare. La posizione sociale, economica, il prestigio,
le qualità espressive, le doti commerciali, la tenacia dell’inventore… hanno
una parte essenziale”[3].
2. Dal Telegrafino al Bitnick (1995)
Ero convinto che la mia invenzione avrebbe
suscitato enorme interesse nei dirigenti televisivi, invece l’unico incontro che
sono riuscito ad ottenere, con l’ing. Costardi della RAI, è stato un
fallimento. Per non ripetere cose già dette rimando, per l’esito di tale
approccio, alla mia lettera a
Costardi del 14.11.94 . In un’altra importante lettera alla RAI facevo
poi un primo amaro bilancio, ad un anno dall’invenzione. Alla luce di quello
che l’esperienza mi ha insegnato, la mia analisi di allora era, come vedremo,
parzialmente distorta.
La prima metà del ‘95 l’ho impiegata
bussando alle porte di tutte le televisioni private e mandando in giro un
foglio illustrativo con la struttura, o Storyboard,
del programma che avevo ideato e con le specifiche tecnico-economiche del
trovato (vedi
AG 5). Parrà strano, ma nessuno mi ha mai risposto. Analogo e
inspiegabile silenzio anche dalle numerose redazioni di riviste e quotidiani a
cui mandavo i miei depliant, con l’unico risultato di incrementare i bilanci
delle Poste Italiane! Uniche eccezioni,
Un
discorso a parte si dovrebbe fare per Michele Guardì, con cui, bene o male,
qualche minuto al telefono son riuscito a parlare; tuttavia, non essendo mio
costume ripetermi, credo che quello che ho scritto al riguardo in AG 5 sia più che sufficiente.
Verso la fine dell’estate del ‘95, stimolato
dai ripetuti insuccessi e forse memore delle osservazioni fattemi l’anno prima
da Costardi – l’unico, come accennato, che fosse entrato un po’ nel merito
dell’invenzione – mi convinsi che il difetto del mio sistema poteva forse
essere un eccesso di finezza (telegrafia = lingua viva, Morse a toni, Morse a sounder, ecc.), imputabile
alla mia deformazione professionale di studioso di fonetica. Così, sulla scorta
di questa lusinga, svecchiai il Telegrafino, che divenne il microsatellite Bitnick, e gli cucii addosso Count-down, un programma
più agile e più adatto alle masse. Con questa modifica il sistema, come per
magia, raggiunse quello che ho definito il non plus ultra della semplicità.
Dopo un paio di mesi di riflessioni e di lavoro
la nuova idea “semplificatrice” era un fatto compiuto, per lo meno sulla carta.
A fine ottobre fu infatti pronto l’opuscolo Count-down, talk show
interattivo (vedi AG 6), che
mi affrettai di nuovo a mandare in giro, sicuro, anche stavolta, che i
destinatari l’avrebbero visto come lo vedevo io.
Il silenzio seguito a questo secondo “giro di
consultazioni” fu invece, se possibile, ancora più glaciale e ancora più
inspiegabile. Confesso che la tentazione di pensare a congiure del silenzio, a
complotti per carpire le idee e i brevetti, a ostilità del mondo intero nei
miei confronti si è affacciata più volte alla mia mente, ma assolutamente mai
come convinzione radicata, piuttosto invece come sconforto in passeggeri
momenti di depressione.
3. Mediaset (1996)
C’era poi un altro problema. L’innovazione
riguardava solo l’aspetto spettacolare dell’invenzione, in pratica il programma
televisivo. Il funzionamento tecnico invece rimaneva si invariato, però la
descrizione depositata faceva riferimento a telegrafini e non a microsatelliti.
Allora, dato che il funzionamento tecnico del sistema, sempre ai miei occhi, si
badi, era estremamente semplice, troppo semplice, ne condensai la
descrizione in poche righe, che allegavo alle decine di lettere di offerta del
brevetto (vedi, per esempio, all. 1). Che
questo escamotage servisse ad attirare e focalizzare l’attenzione sul vero
nocciolo dell’invenzione doveva ben presto rivelarsi un’altra pia illusione.
Riferirò, come caso emblematico, quello
di
Loro avrebbero voluto tutto sul piatto
d’argento: numeri zero, prototipi finiti e collaudati, verifiche, ricerche di
mercato; io invece avevo da offrire solo una specie di telefonino ticchettante
(vedi copertina di AG 5) e un
“microsatellite” doppiamente finto[5],
il resto dovevano immaginarselo. La cosa sfumò, anche perché ero piuttosto
restio ad illustrare a voce il sistema. Meglio, molto meglio – allora ne
ero già del tutto convinto – un progetto organico, scritto. Mandai
qualcosa, ma evidentemente non bastò (vedi all. 3).
Ho sentito Pellegrinato al telefono pochi mesi
fa, dopo avergli segnalato il sito Internet a mio avviso “chiarificatore”. Mi
ha risposto di non avervi trovato niente di nuovo e che a Mediaset anche
allora avevano capito. Ed ha gentilmente aggiunto una cosa che poi (vedi Cap. 2) si
rivelerà illuminante: “Non c’è alcun motivo razionale per cui non sono
stati e non sono interessati al Bitnick: non interessa e basta”.
Successivamente da Mediaset ho avuto due
risposte ufficiali, entrambe dal Coordinamento Nuove Proposte (a cui la mia offerta
era stata girata dalla segreteria di Maurizio Costanzo), entrambe per
raccomandata (10.7.98 e 10.12.98), con testo identico: “Dopo scrupoloso
esame … non ci è possibile riscontrare nel Suo progetto gli
indispensabili elementi di originalità. Mancano inoltre le
specificazioni per … poter riconoscere al programma dignità di format”.
4. I Cervelloni (1996)
Un
giorno del febbraio ‘96, alla Biblioteca Nazionale, dove vado
spessissimo per le mie ricerche storiche, incontrai Luciano De Crescenzo ed ebbi
così l’opportunità di parlargli qualche minuto, a quattr’occhi. Non ricordava
nessun opuscolo (“gli mandano mille cose…”). Cercai allora di spiegargli che la
mia invenzione aveva qualche analogia con il suo antico programma Mille luci,
ma l’ingegnere, per nulla incuriosito, mi bloccò cortesemente dicendo che era
perfettamente inutile che ne parlassi a lui, e di cercare semmai di arrivare
a Porcelli, il regista de “I Cervelloni”, il famoso programma televisivo
con gli inventori.
Scrissi
allora a tale programma, ma senza avere alcuna risposta. Così, verso i primi di
maggio mi presentai alla redazione dei Cervelloni e riuscii a parlare, una
buona mezz’ora, con Filippo Romualdi, uno dei responsabili, seppi poi, del
casting. Data la natura particolare dell’invenzione (non era il classico
pelapatate elettrico!) e dato che non si potevano usare prototipi proposi di
fare una simulazione della simulazione, cioè di dare agli
spettatori nello studio dei Cervelloni una semplice pallina da ping-pong invece
dei Bitnick. Romualdi disse di aver afferrato l’idea, certamente interessante,
che ne avrebbe parlato con gli autori e che mi avrebbe fatto sapere. Invece
l’unica cosa che Romualdi, dietro mia insistenza, seppe poi dirmi fu che era
più che naturale che su migliaia di proposte che ricevevano la maggior parte
venivano scartate! Provai allora a scrivere direttamente a Ugo Porcelli, il
regista del programma, ma anche stavolta senza alcun esito (vedi all. 2).
L’avventura
dei Cervelloni, chiamiamola così, però non era finita. In autunno, alla ripresa
del programma, mandai un’altra richiesta di partecipazione, così, tanto per:
lo staff poteva essere cambiato e la fortuna avrebbe potuto arridermi.
Ed
infatti, il pomeriggio del 27 novembre, mi telefonò una certa Missori
che, incuriosita della mia invenzione - e non sapendo niente di palline di
ping-pong o altri antefatti! -, mi convocava il giorno dopo per un provino.
Sfortuna
volle che, arrivato alla Dear al Nomentano, la persona a cui chiesi dove si
facevano i provini dei Cervelloni fosse proprio il Romualdi, che non avevo
riconosciuto! Questi invece, individuatomi quasi subito, s’arrabbiò
(ritenendomi forse colpevole di lesa maestà) dicendo che quel mio insistere era
inutile, che la mia proposta era stata approfonditamente valutata da lui
stesso, e quindi non serviva alcun provino!
Ormai
comunque ero lì e il provino dovettero farmelo. Ne uscì fuori una cosa pietosa,
sia per l’ostilità del Romualdi, sia perché anche la Missori sarà rimasta
alquanto delusa: presentavo infatti un’invenzione di carta (l’opuscolo AG 6), un ticchettante Telegrafino
sgangherato che doveva immaginarsi come un microsatellite e disponevo solo di
un paio di minuti per spiegare il tutto![6]
5. Prototipi e demo (1997)
Mi
convincevo sempre più che comunicare
idee nuove è difficilissimo. Perché? Perché l'interesse era altrove? Perché non si voleva capire? E se
invece il motivo fosse stato che nessuno può immaginarsi qualcosa se non vede
niente di concreto, di definito, di sensibile (nihil in intellectu
quod non ante fuerit in sensu)? Fatto sta che a poco a poco nella mia mente
cominciò a prendere forma l’aut aut implicitamente datomi dalla Missori: o
mi porta qualcosa da far vedere o i Cervelloni se li scorda!
All’epoca
io avevo già 55 anni, un’età alla quale non si può sprecare tempo con la
leggerezza o la beata incoscienza dei giovani, specie quando si hanno in
cantiere cose più importanti. La decisione di dedicare energie alla costruzione
di qualcosa di dimostrativo, di tangibile fu perciò molto sofferta e mi costò
anche i comprensibili borbottii di mia moglie, soprattutto a causa
dell’ulteriore dispendio di denaro.
I
soldi però, in questo caso, sono stati un problema secondario perché, essendo
abituato ad arrangiarmi con l’elettronica, mi è bastato del materiale di
recupero e poco altro per costruire i tre prototipi dimostrativi: un Bitnick periferico, il Bitnick centrale e il tabellone elettronico. Quest’ultimo, in
particolare, faceva le veci di una certo più elegante e funzionale - ma
dispendiosa - computergrafica, una tecnologia che tra l’altro, e purtroppo,
esulava (ed esula) dalle mie competenze.
Essendomi
intestardito a realizzare i Bitnick in scala naturale dovetti lottare non solo
col fattore tempo, ma anche col fattore spazio[7]!
Alla fine uno dei due Bitnick ho dovuto montarlo in una sfera più grande,
fortunosamente rimediata (altrimenti, per esempio, la circuiteria del
sintetizzatore dello squillo di telefono non c’entrava). Si potrebbe quasi dire
che è stato lavoro più da orologiaio che da elettronico - forse non a
caso, dato che la grandezza controllata dall’apparecchio era proprio il tempo.
Gli
esperimenti sul campo sono serviti a correggere e focalizzare aspetti non di
poco conto. Avevo previsto attese (tolleranze) di 2 sec, che invece si
dimostrarono eccessivamente lunghe, un mortorio che penalizzava la
briosa vivacità del gioco[8]; i segnali acustici non dovevano essere
contemporanei a quelli visivi (di acquisizione dati), ma dovevano precederli,
come avvertimento per i “soggetti”[9],
ecc.
Finalmente,
a metà gennaio, nel salotto trasformato in “studio televisivo” e con la
collaborazione di alcuni amici, registrammo una videocassetta di circa
6. Il caso Siciliano (1997)
Mandai
una ventina di questi video dimostrativi a vip dello spettacolo e dirigenti televisivi,
accompagnati da lettere “circolari” e altri appunti (vedi all. 4, all. 5, all. 6), ma la musica non cambiava: nessuna
risposta, il silenzio più totale, l’inerzia assoluta.
Naturalmente
rimanevo amareggiato e cercavo di capire i motivi dell’insuccesso. Alle
precedenti invenzioni, bene o male, qualche risposta l’avevo avuta, qualche
difetto o qualche scusa era stata accampata (vedi AG 5), ma stavolta niente, nessun
feedback. Cercando di essere il più obbiettivo possibile, non scartavo nemmeno
la possibilità che avessi preso qualche granchio madornale, che mi fosse
sfuggito qualcosa che azzerava tutta la costruzione, che, in una parola, la mia
invenzione fosse stata una cazzata. Neanche lontanamente mi passava per il
cervello quello che, a poco a poco, cominciai a scoprire verso la fine del ‘99,
e cioè che la gente, pur vedendo e financo leggendo, in realtà non capiva, non
poteva capire (vedi Cap. 2).
La tenacia non mi è mai mancata e così, il 26.6.97,
scrissi poche righe al neo Presidente della Rai Enzo Siciliano, persona di nota
e indiscussa cultura:
“Sono un piccolo,
piccolissimo Marconi che ha inventato un dispositivo per aumentare in modo
straordinariamente semplice, economico ed efficace le prestazioni della
televisione… Il sistema costituisce l’evoluzione tecnologica, spettacolare e
soprattutto sociologica del vecchio telequiz…”
Stavolta la risposta ci fu. Una breve nota della
Segreteria della Presidenza, datata 12.7.97, a firma Pietro Vecchione,
mi informava che il progetto era stato segnalato, per le valutazioni di
competenza, al Dott. Giancarlo Leone, Direttore dei Palinsesti.
Dopo l’estate, ingenuamente fiducioso, mi
risolsi a telefonare e il Dott. Massimo Mallardo, segretario del Leone,
cortesemente mi informò che l’ufficio aveva evaso la pratica e probabilmente
non mi era arrivato nulla per un disguido. Ad ogni modo la sostanza era che la
cosa non era di loro competenza e che dovevo rivolgermi ai Direttori di Rete o,
meglio ancora, ai Cervelloni! In pratica, era il classico gioco di sponda, il
palleggiamento di competenze, lo scaricabarile, l’insabbiamento.
Non demordendo per tanto poco e cercando di
attaccarmi al, sia pur tenuissimo, filo della risposta di Siciliano, il 27.10.97
gli scrissi una seconda volta: la lettera, come c’era da aspettarsi, non ha
avuto risposta. Ritengo utile pubblicarla (all. 7),
anzi prego il lettore di prestarvi la massima attenzione, sia perché avrà un
ruolo nel caso Vannucchi di cui diremo appresso,
sia perché in essa viene per la prima volta adombrata una differenza
essenziale, quella tra brevetto e progetto (vedi all. 9).
La videocassetta la mandai anche al Merano
festival, un concorso per programmi televisivi, pregando di valutare il
carattere innovativo e la funzionalità spettacolare senza tener conto della
qualità tecnica e “artistica”. Fui escluso perché accettavano solo video in
formato Betacam. Due anni dopo feci riversare il nastro nel formato
richiesto (molto costoso) e mandai di nuovo il tutto. L’esclusione, stavolta,
avvenne per livello artistico insufficiente!
7. La nascita del Sistema
Gaeta (1998)
Il 20 gennaio del ‘98,
all’Università, riuscii a parlare pochi minuti col sociologo
A questa conferenza imparai molto circa la
televisione generalista e tematica; apprezzai gli interventi di Vannucchi e
Contu sul “terremoto tecnologico” in atto nei sistemi multimediali; venni a sapere di alcuni studi sulla televisione
tridimensionale presentati dall’ing.
Al termine della conferenza consegnai una copia
di AG 6 nelle mani di Contu e una
in quelle di Vannucchi dicendo che il contenuto, perfettamente in linea con
l’argomento dell’importante e riuscita conferenza, li avrebbe certo
interessati.
Dopo qualche giorno mandai poche righe a Contu e
ad Abruzzese dicendo che una recensione su Telèma avrebbe potuto essere
un ottimo trampolino di lancio per il… microsatellite Bitnick. La risposta di
Contu, stranamente, arrivò subito, via fax: un cortese rifiuto, perchè Telèma
“non segnalava mai sperimentazioni prototipali”; la risposta di Abruzzese, ugualmente negativa
ma meno cortese, sono invece dovuto andare a prendermela di persona all’ufficio
del professore, a Sociologia.
L’approccio successivo lo tentai con l’ing.
Renato Petrioli, responsabile delle Tecnologie multimediali della Fondazione
Ugo Bordoni. Questi mi rispose di non aver capito niente del
funzionamento di quello che allora chiamavo Sistema T.I.E. (Televisione
Interattiva Equivalente) e ciò mi portò a capire, non senza sconcerto e
perplessità, che la mia invenzione era supersemplice e ovvia solo ai miei
occhi.
Mi risolsi così a rimettere mano anche alla
descrizione tecnica, nella quale, come già ricordato, l’interfaccia col nuovo programma Count-down continuava
ad essere l’obsoleta ministazione telegrafica
e non il microsatellite Bitnick. Il
risultato fu un totale rinnovamento formale - a cominciare dal titolo divenuto Sistema Gaeta - di cui fui molto soddisfatto.
L’ing. Petrioli stavolta disse di aver capito,
ma che comunque nei compiti istituzionali della Fondazione Bordoni non erano
contemplati i “giochi” e quindi non era interessata né al brevetto, né alla
sperimentazione del sistema o alla valutazione tecnica che io chiedevo.
Ricapitolando: né la descrizione spettacolare,
né i prototipi, né la videocassetta, né la nuova descrizione tecnica erano
serviti a suscitare interesse all’invenzione.
Il Sistema Gaeta lo inviai, tra gli altri, agli
ingg. Cruciatti (Mediaset), Chiari (Bordoni) e Vannucchi (Rai).
Del primo non ho saputo nulla e non so neanche se Pellegrinato prima (§ 1.3) parlasse anche a suo nome, degli altri due
dirò appresso.
Negli ultimi due anni ho avuto occasione, al
Ministero delle Comunicazioni, dove ogni tanto vado per ricerche nella
fornitissima biblioteca, di parlare della mia invenzione con il menzionato
Chiari (§ 1.7). All’inizio sia lui che un
tecnico suo collaboratore (al progetto 3DTV), pur avendo letto, capito e
apprezzato le mie carte – così asserivano – non riuscivano a capacitarsi di
come funzionasse “il ritorno” del segnale. Ci sono volute alcune animate
discussioni[11]
per convincerci – entrambi, si badi, perché è fuori discussione che l’ing.
Chiari fosse in buona fede – che in realtà avevano solo creduto di
aver letto e, soprattutto, capito. Un fenomeno analogo, anzi più
macroscopico, si verificherà nel caso Frova (§ 1.10).
La risposta dell’ing. Vannucchi è arrivata con
una telefonata, il 16.2.98, dell’ing.
Il colloquio, molto deludente, ebbe luogo in Rai
il 24.2.98. Io volevo entrare nei dettagli tecnici, parlare di
prototipi, video dimostrativi, prove sperimentali, ecc., tutte cose che invece
Di Stefano non recepiva, ritenendole, quanto meno, premature. Loro si, avevano
lavorato a qualche sistema interattivo simile al mio, col ritorno via telefono,
ma in generale le loro competenze erano “ben altre”. Lui la sua relazione
interna (precisa: non tecnica) l’aveva fatta e non poteva certo rispondere
dell’inerzia delle Reti, né, all’opposto, della disponibilità altrui (alludendo
a Vannucchi).
Come Petrioli, Chiari, Frova e, con ogni
probabilità, Vannucchi anche l’ing. Di Stefano era rimasto vittima di un
abbaglio: aveva visto, o intravisto, un progetto più o meno
interessante, ma aveva “svisto”, se mi si passa il termine, il brevetto che
ne stava alla base[12].
La lettera del 26.2.98 la scrissi per avvertire di questo errore.
Nei due mesi successivi, esasperato dal silenzio
generale, non potei fare altro che sollecitare con insistenza il Di Stefano,
come si evince dalla lettera del 16.4.98 (e dalle note appostevi oggi), per ottenere
dalla Rai una risposta scritta.
Quando la risposta (all.
11) finalmente arrivò replicai con altre 3 lettere (all. 12, all. 13 e all. 14), ma inutilmente. Il caso era chiuso, anche
perché Vannucchi, da lì a poco, andò definitivamente[13]
in pensione.
9. Pubblicazione su Internet (1999)
Alla Rai però, a causa della pertinacia - o
incoscienza - che mi ritrovo, rimanevo aggrappato ad un altro, esilissimo filo:
l’ing. Lorenzo Mucci, a cui ero stato dirottato dalla segreteria di Gamaleri,
il Consigliere Rai a cui avevo scritto (§ 1.11).
Con Mucci avevo parlato al telefono un paio di
volte, con l’impressione di avere a che fare con una persona competente,
efficiente e disponibile all’approfondimento dei problemi. Malgrado le promesse
non riuscivo ad incontrarlo e così il 5.10.98 gli scrissi una
lettera. Interpellato per
Da quando, all’inizio degli anni ‘80, sono
comparsi i personal computer, li ho sempre usati, e ho anche cercato di
seguirne l’evoluzione. Lo sviluppo tecnologico però ha un ritmo tale che è
difficile stargli dietro per chi non è più giovane, specie se, come nel mio
caso, è distratto da altri e più importanti interessi culturali. Per questi
motivi il mio computer, fino a poco tempo fa, era veramente e solo personal:
in pratica una mia banca dati con i circa 4000 articoli (in particolare
sulla storia delle comunicazioni elettriche) raccolti in 20 anni di
ricerche bibliografiche.
Nell’autunno del ’98, vincendo le
resistenze che fino allora mi avevano frenato, decisi di imbarcarmi nella
svolta – soprattutto psicologica, si badi – di Internet. Con un modem, l’aiuto
di un giovane amico, il Dr.
Nell’autunno ’99, vincendo altre
resistenze e, soprattutto, impegnandomi per oltre un mese a tempo pieno, compii
un’altra svolta: l’attivazione di un mio spazio web, una cosa semplice e quasi
naturale per i giovani, ma che per me ha comportato un dispendio notevole di
energie: testi sulla creazione di siti, abbonamento Premium Tin, link
ipertestuali, frame, perdite di tempo per pasticci hardware e software, ecc.
Il rischio di fare qualcosa di libresco (chi
leggerebbe?) credo di averlo scampato, tuttavia il sito Count-down
non ha certo una grafica accattivante e risulta disperso - sia pure non
completamente perché raggiungibile (da tutto il mondo!) all’indirizzo www.bitnick.it o http://space.tin.it/televisione/andgaeta
- nel mare, e tra il rumore, di Internet[15].
A questo punto è necessaria una parentesi per spiegare
come ho conosciuto
Potrei dire che è stata una conoscenza “di
riflesso”, principalmente perché ne incontrai il nome facendo una ricerca sulla
prontezza di riflessi[16]
in un CD Rom di Tuttoscienze. Gli telefonai e Frova cortesemente mi
diede i chiarimenti richiesti; dopo qualche tempo gli scrissi una lettera[17]
per altre informazioni, allegando, a titolo di referenza, come esplicitamente
dichiarato, l’opuscolo AG 6. Anche
in questo caso il professore mi fornì utili indicazioni, senza che nessuno di
noi due accennasse, nel corso della conversazione telefonica, alla mia
invenzione.
Quando, due anni dopo, pubblicai il sito cercai ovviamente
di pubblicizzarlo il più possibile (tramite email, telefonate e posta
tradizionale) con la speranza, sempre più fievole, di interessare qualcuno al
brevetto. Tra i destinatari della segnalazione c’era ovviamente Frova, il
quale, a tutt’oggi, è stato praticamente l’unico a darmi un parere scritto sul
Bitnick (v. all. 17). In tale giudizio però
c’è una svista madornale.
Ho cercato – e con questo breve paragrafo sto
tentando di farlo ancora di più – di dare una particolare risonanza
all’equivoco di Frova, non certo per sollevare un casus belli, che
sarebbe sterile e irriguardoso verso l’illustre docente, per il quale non posso
che nutrire stima e gratitudine, ma per utilizzare questo “incidente” come
esempio eclatante – e soprattutto didattico – di fenomeni di illusione
percettiva.
Per inoltrarci nei labirinti della psiche
occorre però rimuovere, e se possibile estirpare alle radici, i pregiudizi
che vi si annidano e che fuorviano dalla obbiettiva valutazione dei fatti. A
tal uopo credo sia sufficiente leggere, ma con un’attenzione particolare, la
lettera di risposta (all.18) che ho ritenuto
di inviare al Frova, proprio per sgomberare il campo dai malintesi, e
avvertirlo altresì delle mie intenzioni.
Frova, in risposta, e troncando la discussione,
confessava di capire sempre meno (“eccetto la mia ombrosità”) e non mi ha
quindi dato la possibilità né di ribattere che i “misteri linguistici”
accennati nella mia lettera non riguardavano affatto un banale “non saper
leggere”, né di aggiungere, come ulteriore pezza d’appoggio alle mie tesi, che
prima di lui almeno 6 fior di ingegneri (il suo collega, Petrioli, Vannucchi,
Chiari, Di Stefano e Costardi) erano incappati in “errori di lettura” simili al
suo!
La “psicologia dell’illusione” a base del
funzionamento del Sistema Gaeta ha funzionato anche dove non era previsto che
funzionasse, andando addirittura oltre le intenzioni dell’autore! Ma il tema è
complesso: cercheremo di aggiungere qualche altra riflessione, sul “fenomeno
lingua” in generale, nelle pagine successive.
Il Sistema Gaeta l’ho mandato ad almeno
tre dirigenze Rai. L’ultima offerta del brevetto l’ho fatta al consiglio di
amministrazione attuale, investito nel febbraio ’98, e del quale fa
parte Gianpiero Gamaleri, illustre docente di Comunicazioni di massa.
Questa nomina mi sembrò di buon augurio sia
perché conoscevo e apprezzavo i lavori di Gamaleri su McLuhan, sia soprattutto
perché avevo avuto con lui, nell’89, un colloquio, breve ma sufficiente
a evidenziarmene il valore e la competenza[18].
Così, fiducioso, gli mandai (7.2.98) le mie carte, accompagnate da poche
righe:
Professor Gamaleri,
ripresento a Lei - e a tutto il nuovo CdA della
RAI -
I seguenti allegati, solo che si leggano
(tutti), dovrebbero valere più di qualsiasi raccomandazione: Attestato di
brevetto; Opuscolo Count-down; Funzionamento Tecnico; Appunti vari[19].
A quell’epoca la mia “scoperta” dei due
livelli della lettura (v. § 2.2) era ancora
lontana e il mio atteggiamento non poteva essere che quello dell’uomo della
strada, cioè quello di dare la colpa ai giochi di potere e al fatto di essere
fuori “dal giro”.
Gamaleri non mi ha risposto. Ma com’era
possibile che nessuno rispondeva? Nessuno leggeva? Nessuno
capiva? Erano tutti cretini, tutti mafiosi, tutti corrotti? Gradatamente la mia
mentalità scientifica mi portò a vedere in tutto questo niente altro che un
“fenomeno”, cioè qualcosa retto da leggi precise, finchè il “caso Frova”, e naturalmente
tutta l’esperienza fatta, non mi fecero imboccare la strada giusta. La lettera
a De Mauro - ma dichiaratamente indirizzata, si badi, proprio a Gamaleri - che
qui pubblico (v. all. 20) è sintomatica di
questo cambiamento di rotta.
Ma “colpire nel segno”, come mi augurava Frova,
è molto difficile: credo di averlo sperimentato come pochi e sulla mia pelle.
Quando si tratta di comunicazioni familiari bene o male tutti gli
alfabetizzati riescono a scrivere e a farsi capire, ma per comunicazioni inusuali
occorre aggiustare di più il tiro e questo significa che per raggiungere
l’obbiettivo, cioè la comunicazione efficiente, il consensus, la vera
“trasmissione del pensiero” a gente che non si conosce, occorre scegliere
ancora meglio e pesare ancora di più le parole da usare. Per riuscire
cioè veramente a scrivere, occorre carpire quel “segreto” delle “due
scritture” che fa da premessa e da contraltare al suo omologo delle due
letture, di cui diremo al capitolo seguente.
[1] Questi studi li
avevo iniziati nel ‘93, per il contributo decisivo che il morse fonetico
portava a questioni linguistiche di importanza capitale.
[2] La genesi di
quest’idea è dovuta forse alla frequentazione de “La legge del tempo” di Gabriele Buccola.
[3] F. Banissoni, Le invenzioni come
problema psicologico. Archivio di psicologia, neurologia, psichiatria e
psicoterapia, 1939/40.
[4] Tra l’altro senza alcun rimborso spese.
[5] Si trattava di quello fotografato nella copertina di AG
6: una sfera di plastica trasparente
(presa al bar con 500 lire da una macchinetta distributrice di sorprese
e chewing gum) con dentro un po’ di elettronica di recupero, unicamente per far
scena. Infatti avrei potuto costruire un Bitnick, un hardware funzionante, ma
non certo la sua controparte software, cioè non potevo “inventarmi” o mettere
su di sana pianta e da solo un programma televisivo in piena regola come Count-down!
[6] Questo provino (che mi piacerebbe poter vedere) sarà
in qualche archivio Rai.
[8] È stato mio figlio, per primo, a notare questo
particolare.
[9] Infatti Count-down e Bitnick possono pensarsi come una sorta di test di tempi di reazione di buccoliana memoria. Aggiungo anche un’osservazione importante: tutti, nel rispondere, non muovevano il solo dito, ma l’intero braccio, come se, per così dire, sparassero la risposta verso il teleschermo.
[10] Il tema era Televisione: crisi o rinascita? Si teneva il giorno successivo allo Stenditoio San Michele a Ripa ed era organizzata dalla rivista (allora per me ignota) Telèma, diretta da Ignazio Contu.
[11] Ne ricordo una in particolare, la sera del 18.2.98, in macchina dall’Eur a S. Giovanni: per me fu una rivelazione sugli scherzi della psiche umana!
[12] A riprova che Di Stefano non era mai entrato nel merito dell’invenzione posso aggiungere che quando lo avvertii del sito web, ebbe a ricordarsi del Bitnick come qualcosa per fare sondaggi o contare fagioli!
[13] Il Vannucchi dopo il pensionamento, contemporaneo, credo,
a quello dell’ing. Costardi, era rientrato in Rai per un breve periodo
[14] Anche dalla Missori, quella che voleva i prototipi
(v. § 1.4), non ho saputo più nulla.
[15] Il sito è in rete dal 16.10.1999, ma nessuno lo ha
visto per caso o se ne è incuriosito tanto da scrivermi.
[16] Questi miei interessi culturali, che hanno preso avvio dai lavori di estesiometria tattile di Buccola, non sono estranei all’invenzione di cui trattiamo. Un brevissimo cenno si trova nella pagina web “Il Bitnick è ergonomico”.
[17] La lettera è
importante a prescindere dal “caso Frova”. Il libro da tradurre era Die Shall-und Tonstärken und das
Schalleitungsvermöven di K. Vierordt,
il maestro di Gabriele Buccola.
[18] A Gamaleri, a cui ero stato raccomandato dal prof. Renzo Titone, avevo mostrato il Sound Trainer, un’altra mia invenzione, sugli audiogiochi e sulla “radio interattiva”. La mia impressione era stata positiva anche per un fatto marginale, e cioè che al professore non era ignoto il nome di Mario Lucidi. Ovviamente la faccenda del Sound Trainer non ebbe alcun seguito.
[19] Questi appunti, continuamente rimaneggiati, sono ora confluiti in queste mie pagine web.