2.
Analisi (2000)
1. La comunicazione linguistica
Lo
scopo di questo opuscolo, si è detto, è sgombrare il campo dagli elementi
perturbatori che hanno fatto sottovalutare il Sistema
Gaeta. Questo obiettivo, però, si badi, non potrà mai essere raggiunto al
100%, a causa di un’aporia a monte della comunicazione linguistica. Anche se
queste pagine fossero formalmente ineccepibili, congegnate in modo da funzionare
come una “orologeria di sillabe” (G.
Mounin), il rischio di travisamenti resterebbe lo stesso perché “qualunque intendere presuppone di necessità da parte
dell’ascoltatore o del lettore una vera e propria valutazione, anche se per lo
più inconscia, dei singoli dati semantici…, valutazione che può risultare più o
meno sviata da elementi perturbatori o, comunque, contingenti”[1].
Per impostare la complessa questione della comunicazione linguistica
può essere utile il seguente schema “di servizio”[2]:
L’individuo A ha nella sua mente un’idea, mettiamo quella
classica del cavallo, che a lui magari sembra nettissima, ma che in
realtà è sfocata, disturbata da rumore. Per oggettivare quest’idea, per
comunicarla – anche in “differita” – agli individui B, C, D,
ecc., egli può, per esempio, servirsi dell’efficientissima scrittura alfabetica
e tracciare su un foglio la parola[3] cavallo, che non è
altro che l’astratta idea di partenza filtrata però del “rumore semantico”.
A questo punto abbiamo un concreto dato meccanografico, con una nettezza
tale da permetterne la perfetta condivisibilità tra gli individui di una data
comunità linguistica, e che può essere conservato, inoltrato a un destinatario
o addirittura, in virtù della repetibilità o poligraficità[4] della stampa, replicato.
Il processo inverso, ovviamente, è quello della lettura. Un qualsiasi
individuo B, C, ecc. (ivi compreso A) è in grado, purché
conosca la “lingua”, di risalire dal nudo dato cavallo all’idea di
cavallo o, se si vuole rimanere nel classico, della cavallinità. Il suo
intendere però, come insegna Lucidi, presuppone una valutazione personale
(inconscia) che equivale a rimettere il rumore sottratto o, in
altre parole, “a cogliere ciò che il proprio
atteggiamento psicologico (eventivo, del momento) permette di cogliere”
(M. Lucidi). Per questo motivo le letture, scaglionate nel tempo e nello
spazio, potranno essere solo più o meno simili, ma mai del tutto identiche.
Questa schematizzazione è, per forza di cose, semplicistica e limitata,
al più, al caso particolare della stampa[5]. In effetti il “fenomeno
lingua” è molto più complesso, soprattutto a causa di alcuni pregiudizi
fuorvianti e difficilissimi da estirpare[6], per esempio quello della
dicotomia scritto/orale (infatti tra atto grafico e atto fonico e, in grado
minore, tra traccia grafica e traccia fonica, non vi sono differenze
sostanziali). C’è invece una dicotomia nascosta e molto più produttiva,
scoperta da Lucidi, che si trova (completa) in seno alla sequenza fonica e
(parziale) nella manoscrittura, mentre manca nella pagina stampata o nella
“bella copia”[7].
Il fenomeno lingua si complica poi a dismisura quando si passa dalla
banale, ristretta, preordinata e libresca idea-cavallo dell’esempio
all'infinita latitudine dei pensieri veri e travalica senz’altro, e di
gran lunga, la contingenza attuale. Tuttavia l’impostazione da cui abbiamo
preso le mosse può bastare per il nostro assunto e, in particolare, per
analizzare l’incidente o equivoco Frova (v. § 1.10
e all. 18).
2. Le due letture
I due livelli di lettura (distratta/attenta) già introdotti
usando il solo buon senso non hanno giustificato, né tanto meno corretto
l’“equivoco Frova” (v. all. 20). Provo allora
a darne una formulazione più rigorosa, sia pure ancora solo esemplificativa[8].
Supponiamo di guardare la videocassetta di un film o di una
trasmissione TV che abbiano i titoli di coda, mettiamo, che scorrono
velocemente da destra verso sinistra. Noi li possiamo leggere senza problemi
“in presa diretta” se si tratta di informazioni, diciamo, ridondanti; quando
invece c’è un nome proprio o un numero di telefono (elementi, com’è noto, privi
di aiuti contestuali) lo leggiamo in “fermo immagine”[9]. Bene, chiameremo lettura astratta
(sfocata, nebbiosa, distratta, facile, di livello alto) la lettura in presa
diretta, legata al filo e alla buccoliana “legge” del tempo, nonché alla
saussuriana “linearità del significante”[10]; e chiameremo invece
lettura concreta (nitida, difficile, attenta, di livello basso) l’altra.
In linea generalissima, come ben sanno gli specialisti, la prima di
queste due categorie corrisponde ad un uso informale del linguaggio
(colloqui, chiacchiere, prosa, ecc.), la seconda ad un uso formale (testi
tecnici, matematici, giuridici)[11].
I due livelli di lettura risultano difficilmente distinguibili tra
di loro anche perché sono soggetti a interscambi e oscillazioni più o meno
controllabili. Le interferenze che ne nascono ingenerano quindi errori semantici
o di valutazione che in certi casi possono portare anche a interpretazioni
sbagliate radicalmente[12]. Nella fattispecie del caso
Frova questo è potuto accadere a causa di un’ulteriore interferenza tra altri
due livelli, quelli intrinseci dei testi: il funzionamento spettacolare (livello
alto) e il funzionamento tecnico (livello
basso). La stragrande preponderanza e facilità del primo ha interferito col
secondo, mascherandolo e sottraendolo del tutto alla percezione del più in
buona fede dei lettori a presa diretta, in primis Frova.
Poiché la comprensione presuppone per forza l’introduzione di
rumore, quasi un insopprimibile inconscio “tirare a indovinare”, si può
inferire che il “tiro mancino” che ha condotto alla sottovalutazione del Sistema Gaeta paradossalmente è stato giocato dalla
troppa chiarezza, riconoscibilità e facilità dell’opuscolo Count-down.
[1]
M. Lucidi, Ancora sul disdegno
di Guido. Cultura neolatina, 14, 1954, p. 204.
[2]
Forte dell’esperienza di insegnante consiglierei al lettore interessato, che
vuole realmente appropriarsi di questo schema spoglio, di personalizzarselo
con appunti (e anche con colori) sulla base del testo.
[3]
Nella terminologia di Lucidi tale parola si potrebbe chiamare iposema.
[4]
Acute osservazioni sulla poligraficità si leggono in F. Vignini. Storia della macchina da scrivere. Roma 1959.
Voglio aggiungere che circa dieci anni fa il Vignini, valentissimo stenografo
ultraottantenne e quasi cieco, mi iniziò allo studio di una scienza pressoché
sconosciuta, la meccanica grafica.
[5]
In realtà, il solo fatto di essere scritto, non garantisce affatto la nettezza
di cui si è discorso, perché vi possono essere pagine e pagine, ineccepibili
nella veste grafica, ma piene di ridondanza e di rumori vari.
[6] In particolare quello
segnalato con forza da Lucidi che la parola avrebbe valore
significativo.
[7]
Questa dicotomia è spia fedele del pulsare dell’attenzione (livello
alto/livello basso; astratto/concreto; intensa/estensa; con/senza rumore;
con/senza valutazione; percepito/appercepito, ecc.) ed è regolata dalle
complesse e non ancora investigate leggi della bistabilità della lingua e
dell’effetto Lucidi (v. AG 4).
[8]
Questo opuscolo AG 7 non è, non può e non vuole essere un trattato di
linguistica o fisiologia: è solo una raccolta di allegati, con lo scopo
precipuo di imporre un’invenzione, non di documentare scoperte.
[9] Nella lettura normale i
“fermo immagine” corrispondono ai momenti di fissità dei movimenti balistici o
saccadici degli occhi. Sull’argomento, oltre al fondamentale E. Javal, Physiologie de la lecture
et de l’écriture, Paris 1906, si può leggere il prezioso T. A. Salthouse, The Skill of
Typing, Scientific American 2/1984. Aggiungo che anni fa anch’io ho
studiato questi fenomeni, connessi alla scoperta di Lucidi, ma ho dovuto
purtroppo abbandonarli (ora, come detto altrove, mi occupo di ricerche
storiche).
[10] Solo alcuni particolari
“utenti della lingua” – stenografi, stenotipisti, telegrafisti –
riescono, sia in scrittura che in lettura, a “tenere il filo del tempo”.
All’opposto, credo, lavorano i correttori di bozze.
[11] Si veda specialmente T. De Mauro. Tra Thamus e Theuth. Uso
scritto e parlato dei segni linguistici.
In “Senso e significato”, Bari 1971.
[12] Mi piace ricordare qui i due
equivoci (anch’essi ben noti, ma solo agli specialisti) sviscerati dal Lucidi:
quello di Cavalcanti e quello dell’arbitrarietà del segno.