AG 14 –
Telegrafia e Lingua
Dal pendolo di Morse all’effetto Lucidi
Il “pendello” (pendolo
+ martello) di Morse (vedi
cap. 8)
Disponibile
anche in formato PDF
Telegrafia
7.
Morse primario e secondario
Lingua
14.
L’effetto Lucidi
Non voglio, né pretendo scrivere sulla storia dei telegrafi e/o dei semafori,
anche perché sull’argomento esiste abbondantissima ed eccellente bibliografia[1].
Il mio obiettivo è invece puntualizzare le differenze tra i due sistemi, spesso
mal conosciuti e confusi tra di loro, allo scopo non tanto di gettar luce sulla telegrafia o la sua storia, ma di
trarre da telegrafi e semafori degli
aiuti per affrontar meglio i problemi di carattere linguistico sollevati in
questo saggio, specie nella seconda parte.
Oggi i telegrammi, credo, non si mandano
neanche più dagli uffici postali (si
dettano al telefono o si usano fax, email, ecc.) e il telegrafo elettrico è
un oggetto da museo. A mala pena ricordiamo che è stato inventato da Morse e che poi Marconi, con la radiotelegrafia, lo ha affrancato da fili, pali e
cavi sottomarini.
Ugualmente lacunosa, se non distorta, è
la nostra conoscenza dei semafori. Tutti pensiamo a quelli luminosi, diciamo
“statici”, agli incroci delle strade, dimenticando per esempio i loro
corrispettivi, e di più antica data, nelle ferrovie[2],
nei porti e lungo le coste[3].
Ma anche gli indicatori di direzione lampeggianti delle auto[4],
le braccia dei vigili urbani che dirigono il traffico[5],
le palette del capostazione o della polizia, ecc. sono semafori a tutti gli
effetti, in quanto rappresentano o “portano segnali”[6]
inequivocabili, sia pur limitati e in numero ristretto e preordinato[7].
Nell’800 invece queste stesse parole – telegrafi e semafori –
avevano significati diversi, e più vaghi, di quelli attuali. Di telegrafia,
nello stretto senso etimologico di scrittura
a distanza[8],
si cominciò anzi a parlare solo dal 1832 (Rapporto,
cit.).
“Eccettuata
La linea o catena di semafori[9]
più importante era quella che dall’Ammiragliato a Londra portava (ordini o
notizie) alle navi alla fonda a Portsmouth. Le varie stazioni o “poste” avevano
nomi come Semaphore House o Telegraph Hill, ma, anche poiché
esistevano parecchi tracciati alternativi o sperimentali – per aggirare i
frequentissimi problemi di scarsa visibilità per le avverse condizioni
meteorologiche[10]
–, di queste non solo è rimasta confusa la memoria locale, ma molti autori
ammucchiano insieme linee telegrafiche e linee semaforiche, e le stesse carte
geografiche ufficiali e le enciclopedie le registrano con madornali
strafalcioni[11].
Di Holmes
sono pure molto interessanti alcune considerazioni sul verbo to telegraph: “È possibile che tale verbo possa essere
usato in congiunzione con un sistema semaforico allo stesso modo di come si usa
per descrivere il lavoro di un tic tac man alle corse dei cavalli. Potrebbero essere descritti altri casi, come
quando si dice che un pugile “gliel’ha telegrafato”, quando il suo avversario ha avuto il tempo di vedere ed evitare il
colpo in arrivo – o quando un calciatore “lo ha telegrafato”, quando il suo passo è intercettato dalla
squadra avversaria (dal lato opposto). In Marina segnali a bandiera potrebbero
“essere telegrafati” mediante la prima alzata di bandiera che significa “sto
telegrafando”….”.
Ci basti ricordare che la trasmissione “di intelligenza”, come si
diceva, poteva farsi in due modi: con lo spelling puro e semplice dei
messaggi o per mezzo di cifre o codici[12]. Nella famosa
notizia della vittoria di Nelson a Trafalgar, “telegrafata” in cifre, il numero
253, per esempio, significava “Inghilterra”.
Il
telegrafo, nel senso generico in cui è usualmente ma erroneamente applicato a
tutti i modi di comunicazione a distanza, è un’invenzione molto antica e quindi
in questo senso lato non può essere rivendicato da nessun inventore moderno. Ma
nel senso stretto della parola, come “mezzo per scrivere a distanza”, il telegrafo è un’invenzione recente, non
anteriore al 1832. È stato allora proposto di usare il termine telegrafo nel suo stretto senso etimologico,
distinguendolo così da tutti gli altri modi di comunicare a distanza coi quali
finora è stato confuso…
Inizia così il Rapporto[13]
fatto da Morse sulla sezione Telegrafia dell’Esposizione Universale
di Parigi del 1867. Questo lavoro è prezioso perché ci dà un quadro esauriente
- anche se non obiettivo perché, come intuibile, l’autore e il suo telegrafo
sono parti in causa - dello sviluppo e del consolidamento del telegrafo e del
codice Morse dopo circa trenta anni di telegrafia[14].
I telegrafi e i semafori, spesso, come già detto, confusi tra di loro, per
chiarezza vi sono trattati in due distinti capitoli.
Morse comincia col
sottolineare che il semaforo non è un
“telegrafo”, per il semplice fatto
che non scrive né imprime segnali a distanza. Tra essi c’è la stessa differenza
che appropriatamente Wheatstone
fa tra cronografo e cronoscopio[15]:
il primo lascia una traccia grafica (sinusoidale) permanente e quindi è uno strumento registratore, il secondo
invece indica solo il tempo trascorso e quindi è uno strumento indicatore.
Fino al 1832 tutti gli strumenti di
comunicazione anche se venivano genericamente detti telegrafi erano, senza
eccezione, dei semafori perchè veicolavano segnali fugaci o evanescenti.
Alcuni erano a luci colorate e lampeggianti (tipo bengala), ma c’erano anche quelli elettrici di Henry, Schweigger,
Ronalds, ecc. descritti in tutti i libri di
storia della telegrafia. Quelli più diffusi erano comunque i cosiddetti telegrafi ad ago (Higthon, Wheatstone, ecc.) che, grazie alla
manovra di alcuni manubri o maniglie, davano un’indicazione visiva mediante
l’oscillazione, velocissima, di uno o
più aghi che venivano letti con gli occhi, in tempo reale.
Poiché questi “semafori ottici” richiedevano addetti molto specializzati[16]
ben presto furono trasformati in “semafori
acustici” semplicemente sostituendo i due finecorsa (stop) che
limitavano l’escursione dell’ago con due campanelle di tono differente[17].
Fig.
1 Fig. 2
Anche questi semafori acustici, antesignani dell’apparato tipico della
telegrafia che si imporrà in America solo molti anni dopo, verso il 1850 – il sounder (v. cap. 7) –, da Morse
erano disprezzati per la loro fugacità
o semaforicità.
La sua idea “fissa”, infatti, era di trasformare tali semafori in veri telegrafi che lasciassero una
traccia scritta ossia una registrazione dei segni ricevuti e/o
trasmessi. Addirittura nelle infinite vertenze brevettuali che lo videro
agguerrito protagonista e vincitore, Morse
rivendicò sempre di aver creato “una nuova arte” che permetteva di avere a
distanza segni, scrittura o stampa (marking, writing or printing).
Molti di questi semafori acustici, usati specialmente in Inghilterra, utilizzarono
lo stesso alfabeto Morse con la convenzione che l’oscillazione e il tocco a
destra era un punto, mentre
l’oscillazione e il tocco a sinistra era una linea. Essi avevano il pregio (reale?)
di permettere la lettura ad udito – quindi
i dispacci potevano essere trascritti da un solo impiegato i cui occhi non
erano più impegnati a seguire le oscillazioni dell’indice – e quello (presunto) di essere più veloci del
Morse, perché la linea aveva la
stessa durata del punto[18].
Inoltre avevano il sicuro difetto di non potersi usare nei grandi uffici,
perché l’interferenza dei toni dei vari apparati posti nello stesso ambiente
creava confusione e risultava pregiudizievole alla lettura dei dispacci.
Ovviamente Morse, nel Rapporto,
si sofferma molto sugli sviluppi del suo telegrafo, a cominciare dal celebre
viaggio del 1832 dall’Europa in America sulla nave Sully, però maggiori e più utili
particolari, che utilizzeremo in questo capitolo, si trovano in un suo Pamphlet,
scritto sempre a Parigi nel 1867 e inserito (in estratto) in calce alla sua più celebre biografia[19].
L’idea-guida di usare l’elettricità per
lasciare dei segni – o anche disegni,
visto che era un pittore – su una strisciolina di carta scorrevole Morse riuscì a realizzarla solo nel
1835, quando costruì il “trasmettitore” e il “ricevitore” del suo primo
telegrafo[20]:
Fig. 3
Fig. 3 bis
Morse pensava ad una tele-grafia, o meglio ad una “tele-tipografia” automatica, non manuale:
il dispaccio, una volta composto con tipi
o caratteri del tutto simili a quelli
tipografici, si inviava girando semplicemente una manovella – a velocità costante
e relativamente elevata – o usando un qualsiasi motore ad orologeria, come
quello che faceva avanzare la banda di carta o “zona” nel ricevitore (vedi
Fig. 3 e Fig. 3 bis).
Dal punto di vista elettrico il
dispaccio, in questa idea iniziale di Morse,
si badi molto bene, non era costituito dai punti e linee Morse (segnali corti e lunghi), ma soltanto da
“punti”,
cioè semplici impulsi di corrente, contigui
e tutti uguali, della durata[21] strettamente necessaria ad azionare il
ricevitore.
Il cuore di questo apparato era
costituito: dall’elettromagnete[22],
fissato nella traversa centrale del
telaio (v. figure); dall’armatura, fissata, si badi ancora di
più, non sulla classica leva che poi
equipaggerà tutti i telegrafi Morse, ma alla traversina centrale di una specie
di pendolo
triangolare
a forma di A (A-shaped pendulum); e infine
dalla forza di richiamo costituita
dalla gravità. Tale pendolo, lungo circa
Nella Fig. 4, tratta dal Pamphlet
citato, questa traccia è data dalla spezzata rs,
il cui tratto r corrisponde alla posizione di riposo e il tratto s
all’elettromagnete attratto[24].
Fig.
4
Durante il funzionamento questa spezzata
assumeva un andamento che nei trattati, e nei lavori di Morse, è dato da perfette onde
triangolari o a dente di sega
(più o meno rettificate, cioè più o
meno simmetriche rispetto alla mezzeria data dalla verticale del pendolo),
mentre il Karrass
(Geschichte der telegraphie, circa 1900) le riporta, un po’ diverse (Fig. 5), più cuspidate e con leggera
curvatura a pinna di pescecane[25]:
Fig.
5
Il Morse è un codice o un alfabeto? Come
gli storici sanno bene quello che è noto come “codice Morse” è opera del
geniale suo collaboratore Alfred Vail
e dovrebbe a rigore chiamarsi “alfabeto[26]
Vail”. Il vero “codice Morse”, invece, è semplicemente il dizionario numerico usato, fino al 1835 o 1837, nei primi “telegrammi Morse”:
Fig. 6
Fig. 7
Su questi suoi primitivi e grezzi
esperimenti di telegrafia fatti col telegrafo a pendolo descritto nel capitolo
precedente e usando i dizionari tradizionali, tipo Chappe per intenderci[27]
e per semplificare[28],
Morse ha sempre abilmente glissato,
per difendere i suoi brevetti dalle rivendicazioni, a volte legittime, degli
altri inventori[29].
Negli scritti citati, per esempio, non c’è il fac-simile originale delle Fig.
6 e Fig. 7 (tratte
rispettivamente da Shaffner e Karrass), col risultato che restano ambiguità, non tanto
sulle date[30],
quanto soprattutto sull’uso degli spazi,
sull’inversione del numero zero (punta del triangolo invertita da
\/ a /\), sulle cuspidità e sull’introduzione della linea.
È certo però che l’idea di Morse era trasmettere numeri, non
caratteri alfabetici. All’inizio egli pensava di trasmettere un impulso o punto (dot) per ogni
unità:
. ..
… …. …..
…… ……. ……..
……… ……….
1
2 3 4
5 6 7 8 9 10
“Dopo
pochi minuti di riflessione” (sic)
si rese però conto che sequenze superiori a
5 punti non erano maneggiabili[31]
e pensò di introdurre un’altra variabile, lo spazio, per discriminare
le prime cinque cifre dalle altre cinque. Costruì allora, anzi fuse, i seguenti
10
+1 tipi delle cifre numeriche, seguendo criteri rigorosamente
matematici:
numero |
tipo o carattere |
numero denti |
spazi tra i denti |
spazio dopo i denti |
parti totali |
1 (o finale) |
|
1 |
0 |
3 |
4 |
2 |
|
2 |
1 |
3 |
6 |
3 |
|
3 |
2 |
3 |
8 |
4 |
|
4 |
3 |
3 |
10 |
5 |
|
5 |
4 |
3 |
12 |
6 |
|
1 |
0 |
5 |
6 |
7 |
|
2 |
1 |
5 |
8 |
8 |
|
3 |
2 |
5 |
10 |
9 |
|
4 |
3 |
5 |
12 |
0 |
|
5 |
4 |
5 |
14 |
spazio |
|
0 |
0 |
6 |
6 |
Fig.
8
Si noti che ci sono solo
punti e spazi (no linee), e
per l’esattezza questi tipi di spazi:
1.
spazi propri o naturali, tra i punti o denti (cogs);
2.
spazi di 3
unità, dopo i numeri 4, 5, 3, 2;
3.
spazi di 5
unità, dopo i numeri 6, 0;
4.
spazi separatori,
di 6 unità, aggiunti a quelli del 6 e dello 0.
Nel Pamphlet
citato Morse fornisce anche un altro
esempio che mostra come viene assemblato sul regolo-compositoio il dispaccio
dato dalla stringa numerica 77-8-92
e, soprattutto, la funzione dell’ultimo tipo,
a prima vista sbagliato o superfluo:
Fig.
9
Ricordando la tabella precedente la
decodifica è abbastanza immediata: i primi denti sono 2 e poiché lo spazio successivo è 5 parti si tratta di un 7;
gli altri 2 denti sono seguiti da
uno spazio di 11 parti (5 + 6), quindi
c’è una separazione, la cifra è 7 e il numero 77; con gli stessi criteri si “leggono” il secondo numero (8) e l’ultimo (92).
L’ultima cifra però è ambigua:
trattandosi di 2 denti potrebbe
essere un 2 o un 7, ma la presenza del “tipo
finale” dopo uno spazio di 3
parti fa optare per il 2. Il tipo finale, ricapitolando, non va
conteggiato e serve solo come punto di repere per la misura (“metrica”, letteralmente!) dell’ultima cifra[32].
Per far sedimentare i concetti fin qui
acquisiti e prima di introdurre la linea
Morse è didatticamente utile
accennare alle spaced letters del
Morse americano[33].
Tali lettere “spaziate” sono sei – C, O,
R, Y, Z, & – ed hanno la particolarità di essere costituite solo da punti
e da spazi (senza
linee), cioè dai due parametri Morse incontrati finora.
Quando il codice numerico presentato nel
capitolo precedente si evolse nel “codice” alfabetico (di Vail) venne spontaneo, per
semplicità ed economia di spazio e tempo, sfruttare il parametro spazio non solo dopo i denti, ma anche intramezzato
tra essi. Furono allora “coniati” i seguenti tipi per così dire …sdentati:
lettera spaziata |
tipo o carattere |
numero denti |
spazi tra i denti |
spazio dopo i denti |
parti totali |
O |
|
2 |
3 |
3 |
8 |
R |
|
3 |
4 |
3 |
10 |
C |
|
3 |
4 |
3 |
10 |
& |
|
4 |
5 |
3 |
12 |
Z |
|
4 |
5 |
3 |
12 |
Y |
|
4 |
5 |
3 |
12 |
Morse si pentì presto e quasi rinnegò le spaced letters,
perché creavano ambiguità, ma dopo l’introduzione dell’alfabeto nell’uso
pratico gli fu impossibile cambiarle[34].
L’istituzione della linea, l’elemento
veramente originale che ha fatto la differenza e la fortuna del sistema Morse,
è avvolta nel mistero[35].
Morse, intenzionalmente o no, in entrambi
i lavori citati glissa sulla sua origine e la introduce, sic et simpliciter, solo quando dal “codice numerico” dei suoi dizionari passa al cosiddetto “codice
Morse”. Questo, d’ora in avanti, per chiarezza, lo chiameremo “alfabeto
Vail” (vedi
nota 26), con l’ulteriore riserva che, includendo anche numeri e segni di punteggiatura[36],
esso è in realtà un completo sistema
alfanumerico.
Anche la scelta degli “ingredienti”[37]
dell’alfabeto Vail è avvolta nel mistero.
Certo, nella “rivoluzione copernicana” – come è stata giustamente definita –
del passaggio dal primitivo codice Morse all’alfabeto Vail,
un criterio guida sarà stato la frequenza delle lettere nella lingua americana[38],
ma probabilmente avranno avuto il loro peso anche fattori fonetici, prosodici o
semplicemente eufonici – se non altro, per la scelta dei numeri[39]
e dei segni di punteggiatura. Ma per
il momento su questi problemi, eminentemente linguistici, non possiamo che
attirare l’attenzione degli specialisti.
I “segni”
finora incontrati, e descritti da Morse
con molta chiarezza, sono solo due, il punto
e lo spazio, manca il terzo, la linea[40].
Se però esaminiamo con attenzione le Fig.
5, 6, 7 noteremo un altro segno, piuttosto strano, usato per indicare la
cifra 0, al posto dei 5 punti, o dot, che ci saremmo aspettati in base
alla tabella di p. 11 e che
puntualmente ritroviamo nel diagramma della Fig.
8. Si tratta del “punto invertito”,
un segno chiave per la genesi della linea[41].
Secondo Shaffner (op.
cit., p. 409-410) il punto invertito,
invece di indicare lo zero, serviva a
discriminare i numeri veri dai numeri-dizionario; secondo altri erano
due punti invertiti consecutivi che
delimitavano il segmento “vuoto” e cioè lo zero…
L’unica strada per non perderci nelle ipotesi è esaminare, fisicamente, il modo
in cui quel sistema primitivo a pendolo poteva generare, o meglio “ricevere”,
un punto invertito. È facile vedere che, sistemando nel
regolo-compositoio del “trasmettitore” un tipo,
per così dire, “femmina”[42],
sagomato così:
Fig. 10,
la punta del pendolo del “ricevitore”,
dopo esser passata “dall’altro lato” della banda, cioè nella posizione di lavoro o “attratta” (Fig. 4), tracciava un “triangoletto” ( /\ ) orientato in senso inverso rispetto al punto normale ( \/ )[43],
indi di nuovo un piccolo segmento di lavoro
e infine tornava alla posizione di riposo
(base di riferimento).
È ancora più facile però convenire che
questo esperimento porta – e sicuramente ha portato Morse, Vail
o chi per loro – ad almeno tre considerazioni:
1) se si cerca solo un terzo elemento
combinatorio, dopo il punto e lo spazio, questo andirivieni del punto invertito è ridondante, essendo
invece sufficiente a quello scopo un piccolo segmento della linea di lavoro (che poi si chiamerà linea tout court);
2) si può introdurre anche la lunghezza
di tale linea per aumentare il numero
delle variabili, ed infatti nel Morse americano esistono tre linee: dash
(T), long
dash (L) ed extra long dash
(zero)[44];
3) il punto invertito si può usare come legamento (liaison) tra due o tre linee. In tal caso il tipo della Fig. 10 fornisce due linee
(lettera M), mentre quello della Fig. 11 fornisce tre linee (lettera O del
Morse europeo o numero 5 del Morse
americano)[45].
Fig.
11
7 – Morse primario e secondario
La linea
Morse, la cui genesi è stata dunque casuale ed empirica, ha rappresentato
la vera e sostanziale innovazione che, prendendo in contropiede lo stesso Morse[46],
ha decretato il successo mondiale del telegrafo – Morse per antonomasia – e la
sua “oralizzazione”,
cioè il passaggio[47]
dalla fruizione visiva (segnali fissati
e letti poi sulla zona) a quella
uditiva (segnali auralizzati e letti in tempo reale sul sounder[48]).
Con lo sviluppo del Morse si è attuato
un altro drastico, ma inavvertito, cambiamento
e cioè il passaggio dal “Morse
primario” (del
Le poche ricerche[49]
– tecniche, psicologiche e linguistiche – esistenti sulla telegrafia sono state
fatte sul Morse secondario e, per di
più, sul Morse internazionale, che è un derivato, un’edulcorazione del Morse
americano. Uniche eccezioni sono i due studi, appunto e veramente
“eccezionali”, dello psicologo Bryan
e del telegrafista Harter[50].
Fig.
14
Fig. 15
Nel laboratorio di psicologia
dell’Università dell’Indiana fu ricostruito, per così dire, l’antico
armamentario di Morse: un tamburo
ruotante a velocità uniforme e sulla cui carta affumicata veniva registrata
l’escursione up/down della leva di un
sounder[51].
Poiché la lingua telegrafica può essere
tradotta meglio di qualsiasi altra in simboli esattamente misurabili i
risultati di Bryan e Harter,
ricchissimi di tabelle, diagrammi e preziosi dati statistici devono essere
ripresi e approfonditi con apparecchiature più moderne e più sensibili, che
mettano in evidenza, in particolare, i microscopici rimbalzi ad ogni urto della leva contro i finecorsa up/down (Fig. 15) o l’oscuro fenomeno percettivo intravisto dagli autori per
cui a volte, per una sorta di inversione
dell’attenzione, i colpi di
ritorno o contraccolpi (up stroke) sono uditi
come colpi, diciamo, “di andata” (down stroke)
e viceversa. Cambierebbe soprattutto la finalità della ricerca: non il padroneggiamento della telegrafia, ma la linguistica
generale.
Nel 1844, dopo circa dieci anni dalla
sua ideazione, il telegrafo di Morse
non è più “a pendolo”, ma “a leva”. Il trasmettitore non è più
quello diciamo “automatico” con i dispacci precomposti,
ma è letteralmente “manuale”: il classico tasto (key, chiave) cosiddetto verticale
affidato alla mano e all’abilità (skill) dell’operatore. Il ricevitore invece è l’altrettanto
classica (in Europa) scrivente (con
rotella che inchiostra la zona con i
segni del “Morse secondario”) o il sounder
americano, senza zona. In tutti e tre
questi apparati l’elemento fondamentale è una leva, la cosiddetta “leva
Morse”[52].
Negli anni vari inventori hanno
contestato a Morse le molte e
sostanziali differenze tra il telegrafo della pratica e quello delle sue
antiche rivendicazioni, ma nei tribunali, com’è noto, egli ha sempre saputo
cavarsela con abilità. Nei lavori citati (Rapporto
e Pamphlet,
entrambi del 1867), riepilogando con
lucidità quelle antiche polemiche, Morse
continua a portare acqua al suo mulino. Le critiche sulla leva/pendolo, in particolare, le rintuzza – arrampicandosi, a
volte, sugli specchi – con l’aiuto di un disegno (Fig. 16 e di copertina, da Pamphlet)
e con queste argomentazioni[53]:
Fig. 16 (vedi copertina) Fig. 17
“A
qualcuno può sembrare strano che l’idea del movimento diretto up-down della leva (Fig. 17) per
segnare sulla carta (il progetto ideato a bordo della nave, e che ora è il più
diffuso) non sia stata la prima ad essere messa in pratica… Avendo scelto, per
motivi economici, il telaio da pittore che avevo a portata di mano, dovetti
adattare le parti a questa scelta, anche se faceva raggiungere i miei obiettivi
in una maniera più indiretta. È ovvio che l’azione diretta della leva, oggi universalmente usata nella
scrivente, avrebbe permesso il
miglior risultato… Un requisito della leva doveva essere la leggerezza e parve
che fosse più facilmente ottenuta sospendendola al suo fulcro f, però, specialmente perchè come primo strumento per segnare era stata scelta
una matita, si ritenne necessario evitare in qualche modo il connesso colpo (blow) diretto della
matita sulla carta, che ne metteva a rischio la punta, e quindi fu adottato lo
scorrevole (sliding) movimento a zig-zag” (Pamphlet
p. 768).
La strategia di Morse si dispiega su almeno tre fronti. Primo, il suo pendolo in buona sostanza è una leva, perché basta
pensare la punta incidente m (Fig. 17) sistemata sul prolungamento del pendolo oltre il suo punto
di sospensione, che così diventa un fulcro
(f,
vedi Fig. 16), mentre la “potenza” rimane l’elettromagnete h.
Secondo, ha preferito sistemare la zona mantenendone la complanarità col movimento della
leva/pendolo, che così risultava scorrevole, dando oscillogrammi completi; se
invece avesse scelto la perpendicolarità
tra il movimento della zona e quello
della leva i violenti colpi di questa
avrebbero potuto spezzare la punta della matita[54].
Terzo, lo stilo di acciaio m
(del “contropendolo”,
diciamo così) che incide (to emboss) nella zona
superiore (Fig. 16) è un voluto miglioramento rispetto alla rotella inchiostrata.
L’escamotage “pendello”
(pendolo + martello)[55]
avrà convinto i giudici, ma per la nostra indagine è addirittura prezioso
perché mostra con la massima chiarezza la relazione tra il Morse primario (oscillogramma
o zig-zag sulla zona inferiore),
dinamico e integrale, e il Morse
secondario (punti e linee sulla zona superiore), traccia statica o
punta dell’iceberg del primo (Fig. 16).
In un luogo in cui questa corrispondenza
è ancora più evidente (Pamphlet,
p. 763), Morse – purtroppo e indirettamente – sconfessa il suo primo
telegrafo dicendo che il zig-zag può
essere tralasciato perché bastano o contano solo i punti e le linee:
Morse primario
Fig. 18
Morse secondario
In questo studio credo di aver
dimostrato che invece non è così, perché i soli punti e le sole linee
mascherano e fanno dimenticare la dinamica che li sottende.
Nei testi sacri di telegrafia il punto e la linea vengono (o venivano, perché il Morse ormai è in disarmo)
addirittura definiti semplicemente in
base alle classiche[56]
tabelle di timing: punto 1 unità, linea 3 unità, spazio intercaratteri 3 unità… Tale prassi era legittimata non
tanto dalla precisione matematica del primo Morse (vedi cap. 4), quanto dall’esistenza della telegrafia automatica (ad esempio Wheatstone) in cui, per motivi tecnico-costruttivi, il timing di cui sopra è rispettato al millisecondo[57].
Punto e linea differiscono si per la durata, ma
si tratta di una differenza conseguente, secondaria. La loro diversità vera, in
base a quanto abbiamo ricostruito e dimostrato, è invece di natura sostanziale:
il punto nasce da pendolarità,
la linea da pressività[58].
Il telegrafo
ad ago, che come abbiamo accennato c’era già prima del Morse, aveva una
sensibilità squisitissima, tanto che l’oscillazione dell’indice non dipendeva
dalla forza ma solo dal verso della corrente[59].
Il movimento dell’indice (ago), in
altri termini, era senza attriti e sensibilmente pendolare. Ebbene, credo di poter affermare che anche il primo telegrafo di Morse, quello col “pendolo” a forma di A e in cui non era stata ancora introdotta la linea (vedi
cap. 3), era essenzialmente un sensibile telegrafo-galvanometro con
regolarissime oscillazioni pendolari, “impulsate” come quelle dei pendoli
elettromagnetici degli orologi[60].
Ne deriva che la caratteristica saliente
e caratterizzante del punto nel Morse
primario era (è) la pendolarità.
Le onde triangolari o a zig-zag (Morse),
cuspidate (Karrass)
o trapezoidali (Bryan e Harter) che
abbiamo incontrato dovranno perciò ritenersi o approssimarsi, nel caso del punto, a sinusoidi[61].
Un’accurata prova strumentale potrà confermarlo,
mentre le onde quadre dei trattati di telegrafia (Fig. 19) manterranno il loro valore per il solo Morse secondario.
Fig.
19
Il polso del telegrafista, specialmente
quello americano che doveva fare sequenze interminabili di punti, per non stancarsi e per rendere la trasmissione “leggibile”
nel sounder
del destinatario[62],
doveva oscillare pendolarmente[63].
Questo significa che il “tocco” (up/down)
negli arresti del sounder e della scrivente Morse[64]
doveva essere preciso[65],
delicato (sliding),
in decelerazione e senza i troppi rimbalzi della Fig. 15.
Diverso, anzi opposto, è il caso della linea. Qui c’è dispendio energetico, la
forza in gioco è “diversa” da quella
del punto (Perera), il “tocco”, soprattutto
sull’incudine inferiore[66]
del sounder (down
stroke[67]),
va pensato quasi come un colpo di
martello. Il miglior paragone per descrivere la linea e la sua pressività è quello di un indice fuori scala. Qualsiasi
tecnico (specie elettrotecnico) qualche volta, per sbaglio, avrà fatto una
misura con uno strumento analogico con portata insufficiente. L’ago allora
sbatte violentemente sul fondo scala[68]
con un rumore secco, provvidenziale peraltro per limitare i danni. Infatti, se
il distratto e maldestro tecnico si accorge prontamente dell’anomalia e aumenta
la portata o interrompe il circuito lo strumento si “salva”; se invece il “sovraccarico” permane per
qualche tempo lo strumento “defunge”, perchè la
bobina, per il troppo calore (effetto
Joule), si brucia.
Naturalmente questo rischio con le
bobine dei sounder
o delle scriventi Morse non c’è,
perché sono dimensionate per sopportare anche correnti sempre permanenti[69],
però il concetto rimane, si voglia chiamarlo sovraccarico, pressività o saturazione.
Si è sempre discusso se il Morse sia una
lingua o no. Nei paragrafi successivi diremo qualcosa in proposito, mentre nel
prosieguo invertiremo il problema sostenendo che ogni lingua è, in certo senso,
“Morse”, perchè poggia su dicotomie inavvertite e
analoghe a quelle telegrafiche: pendolarità (punto) / pressività (linea).
La lingua è patrimonio comune di un
popolo. Il Morse è una lingua
ridotta, limitata alla comunità dei telegrafisti, o meglio a determinati
gruppi di “utenti” di certe zone e di certi tempi ben delimitati: reporter
dell’Associated
Press, dispatcher
delle ferrovie, ufficiali postali, genieri radiotelegrafisti, marconisti di
bordo, radioamatori, ecc. Ognuna di queste comunità ha la sua “lingua” Morse,
il suo gergo, i suoi simboli, i suoi codici (convenuti, segreti, crittografati, ecc.), le abbreviazioni, le
stenografie.
Un equivoco sottile, e ricorrente, è
quello di dire che due radiotelegrafisti, mettiamo, tedeschi – cioè
appartenenti allo stesso dominio
linguistico – usano il Morse per raccontarsi i fatti loro: essi non parlano
“in Morse”, parlano “in tedesco”, usando un alfabeto di punti e linee ad entrambi
noto. Il supporto tecnico (filo, radio,
ecc.) serve loro per vincere le distanze, il supporto linguistico (alfabeto Vail)
per risparmiare sulla larghezza di banda o, semplicemente, per non farsi
intendere dagli estranei[70].
Se invece i nostri due amici si scambiano notizie diciamo di lavoro o “di
servizio” (dati meteo, quotazioni di
mercato, segnaletica navale, controllo del volo, ecc.) e usano codici (Phillips, Q, ABC, ecc.), sigle, gerghi,
segnali precostituiti, allora il loro Morse è si lingua, ma ben povera, perché
non consta di veri segni linguistici[71].
Le considerazioni linguistiche[72]
fatte finora su oralità e scrittura, qui e altrove, sono
certamente giuste, ma accademiche, o fuorvianti, perché “il Morse non è una lingua, ma una forma dell’alfabeto, simile a quella
scritta, che serve a comunicare in ogni lingua, usando le parole, la grammatica
e la sintassi di quella lingua”[73].
Mettiamo da parte dunque le
disquisizioni oziose sulla “linguisticità” della telegrafia e vediamo invece di far
tesoro delle sicure nozioni tecniche acquisite. Il Morse infatti può essere un
prezioso strumento – quasi un microscopio,
o meglio un cronoscopio – per
studiare i più nascosti segreti della lingua, inaccessibili ai nostri[74]
sensi “nudi”, cioè disarmati, privi di protesi o amplificatori sensoriali.
Inizieremo la nostra indagine con la
scorta[75]
o viatico di alcune citazioni-chiave,
che, pur nella loro ermeticità, esprimono un concetto saputo, almeno dai
linguisti, e cioè che la lingua presenta due livelli o aspetti: sema
e iposema.
Vedremo che questi due livelli saranno caratterizzati, rispettivamente, da pressività e pendolarità.
“Le
semplici parole isolate non sono un segno linguistico, purché ciascuna non
costituisca una frase: l’isolamento le priva di ogni dinamicità, le riduce a
simboli, generici e in molti casi ambigui, di una porzione del mondo
concettuale (per tacere delle
sintagmi (o
combinazioni di parole),
parole (o
combinazioni di fonemi)
fonemi (o
combinazioni di coefficienti acustico-articolatori)…
… Il patrimonio di iposemi comune e superindividuale è ciò che una comunità
intende per lingua, ed è in fondo un sentimento frutto di osservazioni
elementari sui propri e sugli altrui atti linguistici”
[76].
Questi iposemi (sottosegni) sono “entità con
particolari caratteri, e cioè reali come entità funzionanti solo quando e in
quanto funzionano in un ambito superiore e d’altra natura, trascendenti in
questo particolare modo di essere la singola realizzazione e repetenti, all’atto del funzionare, l’elemento individuativo dal far parte integrante di un complesso di
unità dello stesso genere”[77].
11
– Il “turno” di Lucidi[78]
Il capitolo “Il disdegno di Guido” dedicato a Mario Lucidi e inserito nel mio Atomo Etica e Fonetica (AG 13)
non è passato del tutto sotto silenzio. Il prof. Belardi, per esempio, nel
mandarmi il suo ultimo scritto[79],
prezioso per delineare ancora meglio la figura di Lucidi “studioso atipico, non gregario, scomodo…”, mi
onora di qualche apprezzamento. Sono riconoscente anche al prof. Gambarara per
l’attenzione con cui mi segue[80],
per qualche indiscrezione[81],
ugualmente utile allo stesso fine, e soprattutto per gli insegnamenti e i
consigli di cui mi è prodigo[82].
Sono infine grato al prof. Bertinetto che garbatamente mi ricorda che Lucidi non è dimenticato[83].
Si, in qualche repertorio, anche
prestigioso come il Lexicon Grammaticorum,
il nome del Nostro si può trovare, solo che Lucidi
non è autore da bibliografia, Lucidi
è un genio. È questo l’equivoco di fondo, in cui anche Belardi continua a cadere, come
dimostra il lapsus in una email
privata dove si reputa “l’unico linguista
che ha ricordato il valore positivo della scoperta di Lucidi”. Egli parla di “scoperta”, ma in realtà intende dire
semplicemente “teoria” (quella della tensività),
a cui infatti si era riferito poco prima nell’email. Lo stesso dicasi degli
altri, rarissimi, estimatori.
Ma anche lasciando da parte le scoperte,
non si creda che sul pensiero di Lucidi
le idee siano chiare! Si pensi solo all’iposema,
che Belardi
ha sempre ed esplicitamente rigettato, anche se “in tutto il suo discorso scientifico non ha mai mancato di citare
Lucidi quando il tema lo imponeva, accettando il suo pensiero, se lo riteneva
giusto, criticandolo, se lo riteneva ingiusto”, continuando “è assurdo presentare Pagliaro come allievo
oltre che maestro di Lucidi. Tra i contenuti scientifici delle rispettive
personalità la differenza era enorme. L’idea della priorità della frase-sema (che io non condivido, perché la questione
è assai più complessa) è in entrambi, ma non credo che Pagliaro l’abbia
derivata da Lucidi” (Comunicazione personale).
Se Belardi, nel lavoro citato, è
l’unico a utilizzare, con cognizione di causa, o a ricordare, meritoriamente,
le idee di Lucidi (le linguistiche,
più che le prosodiche), gli altri linguisti, nessuno escluso, si sono
limitati a inserire in qualche bibliografia il nome del Nostro (per bella
figura, per far numero o forse per lavacro di coscienza). Le beghe accademiche,
comunque, hanno intralciato il percorso scientifico anche del Belardi (vedi cap. 12). Ora
però è il “turno di Lucidi”, non
per dare a Cesare quel che è di Cesare (primogeniture),
ma per capire realmente il “turno”
di Lucidi.
Per presentare la sua scoperta – scoperta, si badi, non semplice teoria – Lucidi, per prima cosa, invitò a fare un esperimento: “Si parli ad alta voce con se stessi domandandosi
e rispondendosi rispettivamente:
Che turno fai? Di notte. Che turno hai? Di notte.
La
parola notte presenterà, nei due casi, identici tutti
gli altri prosodemi, meno la tensività.
Nel primo caso si avrà, in notte, o estensa.
Nel secondo caso, o intensa. L’esperimento rimane anche più efficace se si esegue bisbigliando la
frase con la minima energia possibile”[84].
Purtroppo l’esperimento non riesce.
Anche se tutti avvertiamo qualcosa di diverso nella vocale o di “notte”, si tratta di sensazioni troppo vaghe, non
formalizzabili e che paiono dipendere principalmente dalle variabilissime
condizioni di realizzazione, piuttosto che dalle presunte “costanti articolatorie” scoperte e segnalate da Lucidi[85].
L’unica ripresa di questo ormai “storico”
e sfortunato esperimento si deve a Belardi che, da buon linguista – o forse con i paraocchi del
buon linguista – nella locuzione “di
notte” vedrebbe, se ho bene inteso, un complemento di specificazione in
risposta a “che turno fai?” e un
complemento di tempo in risposta a “che
turno hai?”[86].
Gambarara, che accetterebbe questa
interpretazione, mi ha chiarito, da linguista forse ancor più fino, che nel
primo caso il “di notte” si riferisce
o aggancia a “turno”, nel secondo
caso è invece un’espressione più autonoma (avverbiale,
olofrastica).
Probabilmente la strada è questa, ma
resta da spiegare l’enigma principale, cioè l’invertibilità arbitraria, al
massimo dipendente dal contesto, delle due attribuzioni o funzioni, quella specificativa e quella temporale[87].
Scrive Belardi: “Se Lucidi avesse potuto completare i suoi rigorosi e precisi studi …
oggi disporremmo di buone basi per riesaminare dalle fondamenta il principio
della 'rilevanza' linguistica”[88];
“Lucidi tenne conto dell’intonazione, ma
concluse che nel parlato il ruolo decisivo spettasse all’energia articolatoria”[89]. Peccato che tra queste due
proposizioni intercorrano parecchi decenni, altrimenti lo stesso Belardi si
sarebbe accorto che la rilevanza linguistica non andava
cercata in ambito fonetico, ma articolatorio (energetico), e che anzi il primo mascherava il secondo[90].
L’articolazione fonetica – l’insegnava
anche Belardi
nelle sue lezioni di glottologia – ha si un fine extrafisiologico,
quello semantico, del significare, ma tuttavia rimane un processo
neuromuscolare, basato su relazioni energetiche, come ha
scoperto Lucidi: “… I
concetti di cui dispone presentemente l'acustica non permetteranno di far luce completa
sulle varie questioni, perché nei rispetti delle due manifestazioni
fondamentali del fenomeno acustico, musica e lingua, non si è finora seguita
l'unica via per la quale sarebbe stato legittimo indagare su di esse,
considerandole, cioè, per quel che esse sono effettivamente, vale a dire
manifestazioni energetiche in sé conchiuse. Ci si è limitati ad esaminare
singoli elementi staticamente considerati (una parola, un fonema, una nota, un
intervallo ecc.). Di conseguenza l'acustica è rimasta ancorata allo stadio
iniziale di acustica statica il che è presumibile porterà, quando si
studieranno i fenomeni sonori nel loro effettivo realizzarsi conchiuso, agli
stessi inconvenienti a cui andremmo incontro studiando fatti elettrodinamici
con criteri elettrostatici. È quindi evidente che si impone l'instaurazione di
un'acustica dinamica nella quale, penso, ciò che abbiamo chiamata 'tenuta
di timbro' sarà
paragonabile a quello che si chiama altrove 'livello' o 'potenziale'. Non va
dimenticato, infatti, che il tono ha senza meno qualcosa di comune con ciò che
noi potremmo intendere con 'livello',
ma il fatto stesso che nelle relazioni tonali ciò che conta è il rapporto ci
dice come solo dinamicamente si potrà chiarire l'argomento. … È da presumere che le relazioni
energetiche siano costanti, costituendo il meccanismo stesso del linguaggio, ma
è certo indubbio che il loro realizzarsi è storicamente individuato nel tempo e
nello spazio” (Lucidi, Prosodemi,
cit.).
Se mezzo secolo fa l’acustica, “statica”
e senza concetti adeguati, non poteva far piena luce sulla scoperta di Lucidi, ora le nozioni di telegrafia
acquisite possono in buona misura sopperire a quella carenza.
Finora gli svariatissimi rilievi di
elettroacustica (livelli, decibel, phon,
Hertz, ecc.) sono stati fatti sugli oscillogrammi del “segnale” raccolto
dai microfoni, cioè in ambiente fonetico, ma oggi, dopo Lucidi, sappiamo che questo ambiente è solo di intralcio. Bisogna
lavorare invece in ambito articolatorio
e considerare non quello che si vede o viene raccolto dai microfoni, ma quello
che “si sente”. Per far questo la
strada è misurare non l’energia acustica, ma il substrato articolatorio
nascosto[91].
Dalla telegrafia abbiamo assodato che
l’energia articolatoria della manipolazione Morse può essere minima, nel caso
del punto (pendolarità), o massima,
nel caso della linea (pressività o saturazione), e che
questa differenza energetico-articolatoria non era percepita perché mascherata
da fenomeni secondari, ma più immediatamente rilevabili: la durata e l’aspetto
acustico del punto e della linea[92].
Le nuove o le buone basi auspicate dal Belardi “per
riesaminare dalle fondamenta il principio della rilevanza linguistica” (o
semantica) sono dunque quelle della “rilevanza energetica”.
Lucidi percepiva – non
tanto per il finissimo orecchio[93]
quanto probabilmente dopo i convincimenti teorici cui era con fatica giunto –
la rilevanza energetico-semantica
delle parole. Quelle più rilevanti o importanti (energeticamente e semanticamente) e su cui il parlante inconsciamente
appunta l’attenzione o interesse le chiamò intense; le altre, che per
l’alternanza attentiva devono essere meno
impegnative, estense.
Un criterio collaterale per discriminare
estense e intense è il grado di astrazione. Tutte le parole
scritte sono iposemi astratti, ripetibili
all’infinito e diventano semi
concreti solo dopo essere entrati nella
sfera psichica individuale – del parlante, del lettore o dell’ascoltatore.
Quando invece si parla le parole
possono essere proferite in accezione concreta (intense) o in accezione astratta (estense)[94].
La lingua o dominio linguistico è in
realtà un patrimonio di iposemi
“in condominio”. All’occorrenza i parlanti-condomini si appropriano di un iposema,
lo concretizzano e per così dire se
lo “semantizzano”, con dispendio
energetico. Ma per la citata legge neuronale dell’alternanza tale dispendio non
può essere continuativo e così a un sema
(concreto, intenso, saturo) segue a
ruota un iposema (astratto, estenso, pendolare). Nell’intensa c’è la propria impronta, il
sigillo della partecipazione; nell’estensa
no.
Per quello che ne so gli unici studi
esistenti su conte e filastrocche sono quelli colti e
divertiti di Eco & C. sulle tre civette[95].
Contrariamente all’apparenza tale lavoro del più grande semiologo italiano
potrebbe essere serissimo qualora
l’autore lo ritenesse – come mi auguro – non semplicemente una pagliacciata o
un divertissement dai severi o
veramente “seri” suoi studi semiologici[96],
ma un messaggio, ex cathedra, per professare
che sulla semantica tutte le analisi
e le “critiche” sono impossibili[97].
L’analisi è invece fattibile, anzi è
doveroso farla, a livello più modesto, se il linguista ha l’umiltà di diventare
“tecnico” della lingua e occuparsi non di semi
ma di iposemi.
Non si tratta soltanto di questioni terminologiche, ma di un salto qualitativo
che solo chi conosce Lucidi – non
solo di nome o per citazioni di riporto – può comprendere.
La “conta” delle civette che, per
esempio, si fa tra un gruppo di bambini che si contendono una caramella, è di
tipo sillabico e soprattutto
“approssimativa”, giocosa. Con un po’ di abilità si può anche barare “intrufugliando” le sillabe verso l’inizio (ambarambàciccìcocò…)
per “pilotare” quelle finali, e risolutive (…ci-ciì-co-coò!),
su chi si vuole.
Una conta meno fraudolenta e più seria,
da bambini più grandicelli (mettiamo, per battere la palla), è quella notissima
fatta non di sillabe ma con i nomi dei numeri. Dopo aver stabilito da chi
“tocca” iniziare la conta i giocatori “gettano” tutti insieme con la mano un
numero, come alla morra. Fatta la somma delle dita gettate si inizia a contare indicando ciclicamente (in senso orario,
di norma) tutti i giocatori. Poiché questa conta ha uno scopo pratico
(sorteggiare qualcuno) la chiameremo concreta.
Subito dopo si invita lo stesso
giocatore che ha fatto la conta a rifarne una fittizia, e cioè semplicemente a
contare mettiamo fino a 15, con lo stesso tono di voce e lo stesso ritmo, però
“a vuoto”, cioè senza abbinare ogni numero ad un ragazzo. Questa seconda conta,
puramente virtuale, a memoria, la chiamiamo astratta[98].
Ora possiamo fare un esperimento “lucidiano”, più
probante di quello del “turno”[99]:
se ci mettiamo in condizione di udire la voce “contante”, senza però vedere la scena,
riusciremo senza meno a discriminare la conta vera o concreta da
quella finta[100].
Questo esperimento, mi auguro, farà
prestare maggiore attenzione alle due conte più scientifiche presentate da Lucidi: la numerazione della serie
cardinale fatta partendo da zero e
quella della serie ordinale fatta partendo da zeresimo[101].
Entrambe sono caratterizzate da un ritmo prosodico binario – e inavvertito
– di estense e intense:
serie |
intenso |
estenso |
intenso |
estenso |
intenso |
ecc. |
cardinale |
zero |
uno |
due |
tre |
quattro |
… |
ordinale |
|
zeresimo |
primo |
secondo |
terzo |
… |
Sappiamo che l’attenzione del parlante,
qui semplicemente “contante”, deve pulsare tra una fase di lavoro (intensa) e una di
riposo (estensa). Nell’enumerare la serie dei numeri cardinali non si può
non dar peso al primo termine della serie e quindi si ha zero = intenso e
conseguentemente tutti i dispari estensi
e tutti i pari intensi. Invece
nell’enumerare la serie degli ordinali lo spirito istintivamente reputa
estraneo e strano il primo termine zeresimo,
perché “non significa niente” o quanto meno è desueto[102]. Si ha allora zeresimo = estenso,
perché il cervello, avendo la possibilità e l’arbitrio di optare con quale
“piede” metrico iniziare[103]
(destro o sinistro, per così dire), decide che zeresimo, piazzato lì in astratto[104]
e senza alcuna funzionalità, “non conta”[105]
e sceglie la pronuncia “tirata via”,
energeticamente meno impegnativa, cioè l’estensa.
Automaticamente nella serie ordinale i
pari saranno estensi, i dispari
intensi[106].
Sicuramente l’alternanza dell’attenzione
è legata a quella del respiro e
potrebbe essere pertinente l’esempio del cassiere di banca che velocissimo
conta mucchietti di soldi quasi bisbigliando o addirittura con voce afona (linguaggio endofasico)[107].
Nel capitolo seguente cercheremo di
spiegarci non solo perché di questi fenomeni di conta non si ha …contezza, ma
soprattutto perché possono apparire parascientifici.
14
– L’effetto Lucidi
“Nel
formulare le due serie (cardinale e ordinale) – dice Lucidi – bisogna evitare di
pronunciarle come se si ripetessero a memoria, perché altrimenti si ha un
risultato opposto a quello prospettato qui, e ciò in virtù della norma
seguente, che vale per qualunque grado di lingua: quando si riferisce il pensiero
altrui, si notifica ciò invertendo la
tensività di tutti gli iposemi”. Questo fenomeno
è l’effetto
Lucidi.
Di norma parliamo spontaneamente, senza
“responsabilità linguistica”[108],
riferendo il pensiero comune (cioè altrui)
attinto, condiviso o preso in prestito, per così dire, dal patrimonio o
“condominio” linguistico già accennato (cap. 12). Ciò non significa che siamo pappagalli o
automi che non capiscono quello che dicono, significa invece che siamo autenticamente genuini pur non usando
uno stile letterario. Come esempio limite si pensi ai telegrafisti che, per
professione, corrispondevano per conto terzi[109],
non entrando affatto nel merito dei dispacci e senza farli propri, anche se
“capivano” quello che dicevano (ovviamente mi riferisco a quelli in chiaro, non
ai cifrati).
È rarissimo, viceversa, che l’idea
espressa sia veramente sentita, privata, nostra. Solo chi “recita
(versi classici) nel vero senso della
parola (non necessariamente da un palcoscenico), cioè non riferendo semplicemente a memoria, ma dicendo con la
convinzione sentita di aver capito fino in fondo”[110]
parla “di propria mano”, per così
dire autofonicamente[111], e appone la propria firma a quanto proferisce.
Il contare a
voce alta (concreto, autentico) oggetti messi in fila equivale a “leggerli”,
alternando per legge fisiologica una fase di fissità ad una balistica.
Ci si “appropria” allora (appropriazione
debita!) solo di quelli su cui cade o fissiamo lo sguardo, o che indichiamo
col dito (il gestire), e che così assorbono la nostra attenzione, mentre
gli altri rimanendo esterni al nostro campo visivo e a quello attentivo, non li facciamo nostri e li cogliamo o “leggiamo”
solo en passant, al volo, “estensamente”.
Ora può capitare, magari incuriositi da
queste considerazioni, che si voglia rileggere,
ossia ri-guardare o ri-contare, quella serie di oggetti prestando attenzione anche a quelli, mettiamo i pari, che
prima avevamo inconsciamente trascurato (come
saputi, comuni, pubblici, non nostri). Questo però è impossibile perché il
surplus volontario di attenzione (supervigilanza), se porta alla ribalta della coscienza gli
enti di ordine pari, contemporaneamente “oscura”, mette in secondo piano quelli
di ordine dispari.
Quest’inversione tensiva, o
dell’attenzione, è l’effetto Lucidi, che si comprende forse meglio
formulandolo al contrario: Se si
riferisce il pensiero proprio, si
notifica ciò invertendo la tensività di tutti gli iposemi.
Poiché l’attenzione ha natura discreta
– non è graduabile, o c’è (intensa) o non c’è (estensa) – lo spirito può
aumentare la significatività o semanticità dell’iposema, ma non quella del sema,
perché questo, essendo semanticamente saturo, collassa nell’iposema.
Tornando all’esperimento del turno (cap. 11), è il verbo che condiziona l’andamento prosodico degli iposemi. Se
voglio “appropriarmi” di “hai”[112],
di regola estenso (è
“inappropriato”, non è mio, non conta), me ne approprio: “hai” diventa intenso, ma contemporaneamente si invertono gli altri due iposemi (che-turno e di-notte). Lo stesso succede partendo da “fai”, di norma intenso (“appropriato”): l’appropriazione diventa
per così dire indebita (perché c’è
saturazione energetica e semantica) e “fai”
commuta in estenso (viene …“espropriato”) e fa invertire anche gli
altri due iposemi.
Indagando su Telegrafia e Lingua abbiamo dunque trovato le seguenti dicotomie[113]:
˘ |
ˉ |
punto |
linea |
breve |
lunga |
pendolare
(vuota) |
pressiva (satura) |
estensa |
intensa |
astratto |
concreto |
iposema |
sema |
ripetibile |
irripetibile |
formale |
sostanziale |
risparmio
energetico |
dispendio
energetico |
[1] Ma poca in italiano. Qui mi limito a segnalare i
lavori utilizzati in questo capitolo: G. Wilson, The Old Telegraphs,
London 1976; G.
Rossi, Dalla telegrafia a segnali
alla TSF, Milano 1930; T. W. Holmes, The semaphore,
Ilfracombe 1983. Holmes, negli anni ’20, era semaforista (signalman) della Royal Navy.
[2] I semafori e la
segnalazione in genere sono stati definiti la parte più pittoresca delle
ferrovie.
[3] “I telegrafi Chappe, nel
Napolitano, all’inizio non avevano altro scopo che la custodia delle coste. Ciò
è tanto vero che allora non si avevano altri segni convenzionali che quelli
significanti le cose del mare” G. Masi. Semafori costieri. Bullettino
Ufficiale dell’Amministrazione postale, 1866.
[4] Che si continuano a chiamare “frecce” perché nelle prime automobili erano dei piccoli “bracci” che si aprivano, a destra o a
sinistra, per indicare “gestualmente”
il cambio di direzione di marcia del veicolo.
[5] Anche il gesticolare dei sordomuti che comunicano
nella loro lingua dei segni è
squisitamente semaforico e, per meglio dire, “semantico”.
[6] Etimologicamente semaforo
significa infatti “portatore di segni”.
[7] “Un segnale non può dire molto, ma quello che dice lo dice
con certezza, senza ingenerare dubbio sul suo significato: è basato su mezzi di
pronta percezione, che tutti possono vedere o udire, in modo che la sua stessa
pubblicità impegna la responsabilità e quindi l’attenzione degli agenti”. Rossi, cit., p. 83.
[8] Lo specifico della telegrafia, come già ricordato in
altri miei lavori [AG 12], è però
soprattutto, si badi bene, l’istantaneità
della scrittura a distanza (tachigrafia).
[9] A shutters (otturatori o persiane), vedi Holzmann
e Pehrson, Early History of Data Network (in
rete). A volte potevano usarsi a
guisa di semafori anche le pale dei mulini a vento, variamente posizionate.
[10] In caso di nebbia si doveva per forza ricorrere ai
messaggeri a cavallo.
[11] Holmes, cit. Ecco, per esempio,
alcune “perle” trovate da Holmes: il
semaforo è una forma di telegrafo; fari e lanterne sono telegrafi; Semaforo = apparato di segnalazione mediante braccia
oscillanti o bandiere (esatto); Semaforo = apparato di segnalazione mediante
lanterne (inesatto); Telegrafo = apparato per trasmettere messaggi a distanza o
tavola sui cui sono visualizzati i
nomi dei cavalli in una corsa o punteggi di cricket; Dopo questo c’è da
meravigliarsi se la gente confonde le due espressioni?
[12] Oppure con sistemi misti, cercando di conciliare
velocità di trasmissione e quantità di informazione. Per
rendere i semafori Chappe macchine a tutto dire furono provati anche enormi dizionari
convenzionali.
[13] S. F. B. Morse – Examination of the Telegraphic Apparatus and the Process in Telegraphy. Edited by W. P. Blake. Washington 1870. Quest’opera, che si trova integralmente in rete (Rapporto), contiene una ricca bibliografia (p. 162) alla quale caldamente rimando i lettori che vogliono approfondire il mio studio storico e insieme tecnico. Anche alcuni di tali lavori (Shaffner
, Smith, Pope, Jones) sono in rete.[14] Il primo telegrafo utilizzato praticamente è stato
quello ad aghi di Cooke
(1836).
[15] Sul cronoscopio vedi A. Gaeta. Il cronoscopio di Hipp.
Un problema telegrafico. Roma 2002 (AG
12).
[16] Venivano usati anche bambini, sordomuti e, in qualche
caso, persino minorati psichici.
[17] Questa importantissima aggiunta fu fatta per la prima
volta da Steinheil,
cui, com’è noto, si deve anche l’uso della terra come filo di ritorno e il
primo apparato scrivente, ossia “telegrafico”, europeo (circa contemporaneo a
quello americano di Morse).
[19] S. I. Prime – The life of S. F. B. Morse.
New York 1875. Anche questo libro
si trova in rete (Pamphlet).
[20] Nel prosieguo si esamineranno solo le cose salienti
di tali apparati, i cui particolari costruttivi (cavalletto da pittore, orologio-motore, regolo-compositoio, ecc.)
si danno per scontati perchè noti abbastanza e,
comunque, reperibili nelle opere citate e in tutti i libri di storia della
telegrafia. Può risultare utile anche la lettura della breve notizia “La tipografia di Morse” (Morse News 58).
[21] La durata,
e conseguentemente anche la forza (vedi Le forze del Morse, Morse News 19), dipendeva
dallo spessore dei “denti” (cogs) dei caratteri e dalla velocità di avanzamento del
regolo-compositoio.
[22] Fatto con una sbarra a ferro di cavallo che Morse aveva avuto da un maniscalco e su
cui aveva avvolto un filo isolato (manualmente) in cotone.
[23] Non è escluso che il pittore Morse abbia fatto prove anche con qualcuno dei suoi flessibili
pennellini.
[24] Basta pensare l’elettromagnete posto nella parte
inferiore di questo disegno della banda di carta.
[25] Se il pendolo avesse oscillazione libera la traccia
sarebbe perfettamente sinusoidale o “pendolare”.
[26] Alfabeto e
non codice, perché punti e linee sono semplicemente i coefficienti
acustico-articolatori (tratti distintivi, o per così dire il DNA) dei 26 fonemi Morse (v. “Il codice fantasma”, Morse News 34).
[27] Un numero = una parola o una frase convenuta. Negli
esempi: 58 = telegrafo, 36 = esperimento, ecc.
[28] Il discorso sarebbe lungo: Claude Chappe non aveva ideato un
telegrafo a dizionari, ma un tachigrafo.
[29] Sul Morse, per decenni, nelle gazzette e nelle
cancellerie dei tribunali di mezzo mondo, sono stati versati fiumi di
inchiostro e le polemiche hanno spesso fatto velo a verità scientifiche. Non
potendo, e soprattutto non volendo entrare nel merito di questi infiniti
contenziosi storici – e cercando invece di rimanere nel dominio dei fatti
tecnici – mi limito a dire che a Morse,
anche se non ha inventato “niente” come sostengono molti storici, rimangono
meriti ben maggiori: lungimiranza, perseveranza e imprenditorialità.
[30] Shaffner riporta la data del 1835, Karrass quella
del 1837. Confrontando attentamente i due documenti riportati, relativi
chiaramente allo stesso evento, si notano anche delle ulteriori, strane,
incongruenze.
[31] Stranamente però negli esempi di Fig. 7 e Fig. 8 il numero
8, per esempio, è trasmesso con 8 impulsi.
[32] Questa spinta “matematicità”
del Morse primordiale, numerico, solo scritto, retaggio delle idee del Sully, ha fatto
sempre velo all’essenza del vero Morse, quello fonetico e “primario” (vedi
cap. 7).
[33] Per il Morse americano v. A. Gaeta. Etica e
Fonetica. Roma 2003 e, soprattutto, Morse News (passim).
[34] Solo nel Morse europeo (o
internazionale) si poté, per così dire, “rimediare” al presunto inconveniente.
[35] Mistero che tuttavia, a quanto almeno risulta dalle
non poche opere compulsate, sembra non sia stato molto avvertito. Il concetto
di linea, forse per la sua evidenza,
si è sempre dato per acquisito e scontato.
[36] In totale sono 45 elementi. Vedi l’eccellente J. L.
Smith, Manual of Telegraphy, circa 1865 (in
rete).
[37] Ossia i “tratti
distintivi” (o coefficienti acustico-articolatori) punto, spazio e linea.
[38] Mi riferisco alla famosa storia delle casse dei
caratteri delle tipografie.
[39] Compresi entro 6
unità, del tutto diversi dalla primitiva codifica e, a giudizio dei
telegrafisti americani, particolarmente azzeccati per “leggibilità” (o “copiabilità”) e distinguibilità dalle lettere alfabetiche.
[40] Il Morse americano è fatto di punto, spazio e linee (di varie lunghezze). Quello
europeo di punto e linea.
[41] Su tale genesi, come già detto, Morse sorvola. Anche la letteratura non è chiara, perché spesso le fonti non sono articoli tecnici ma solo verbali o sentenze di tribunali, in cui interessi economici o rivalità offuscano i dati scientifici. Secondo alcune vaghe testimonianze Morse avrebbe codificato tutti i numeri con solo 5 punti più lo “zero”. Per altri avrebbe utilizzato una “linea” in luogo di 5 punti (Pierpont
).