37 – L’ossatura delle parole
Una delle prime persone a cui mi rivolsi, quando una decina
di anni fa cominciai a interessarmi del Morse, fu l’amico professor Vincenzo
Siniscalchi, mio ex collega all’Istituto Tecnico Nautico di Roma. Siccome a me
piace sempre affrontare i problemi praticamente, senza tuttavia, sia chiaro,
mai perdere di vista gli aspetti teorici, ricordo che la prima volta, non
avendo un tasto telegrafico, mi presentai con un grosso relè (un notissimo
dispositivo elettrico, grosso modo simile al sounder della News 29, per chi non lo sapesse)
la cui armatura si poteva facilmente “manipolare” esattamente come la leva di
un normale tasto verticale, ed anzi, come mi aveva insegnato Peppino Palumbo (vedi AG 13), era più
idoneo a produrre e far percepire i due famosi colpetti (down-stroke e up-stroke,
vedi News 34) del Morse americano.
Prima di proseguire occorre una breve parentesi per
richiamare ancora una volta e ancora di più l’attenzione dei profani di cose
telegrafiche sulla differenza sostanziale tra telegrafisti e radiotelegrafisti,
cioè tra telegrafia col filo e senza filo, in sintesi tra Morse e Marconi. I
morsisti, una razza in via di estinzione, conoscevano e praticavano il “Morse
dei capistazione” (vedi News 3) e
“leggevano” bene (con le orecchie, si intende!) i ticchettii delle macchine o
dei sounder; i marconisti invece, dopo la fase di transizione dei trasmettitori
a scintilla e simili, si sono abituati ai “toni” (oscillazioni o portanti a
frequenza acustica, in genere 1 kHz), un “lusso” che facilita di molto la
ricezione o “lettura” di cui sopra. La manipolazione di entrambi, marconisti e
morsisti, invece, a prescindere dall’evoluzione dei tasti (vedi il fondamentale
L. Moreau, The story of the key e
anche la News 10) e dalle differenze di
alfabeto (Morse americano e internazionale), è rimasta essenzialmente identica,
tanto è vero che utilizzando simulatori a stato solido di sounder e
convertitori elettronici tono/sounder (vedi, per esempio, il bel sito di J. Farrior) un
marconista potrebbe virtualmente diventare morsista, e viceversa.
Credo che la “radioelettronica”, una delle materie da me
insegnate al Nautico, una volta si chiamasse “radiotelegrafia”. Il programma
però di certo non contemplava codice Morse e simili, né io lo conoscevo o me ne
ero mai occupato. Era invece Siniscalchi, in un laboratorio accanto al mio, a
insegnare ai futuri capitani il codice, o per lo meno qualche rudimento a
titolo “storico”, perché già in quegli anni il Morse era in pensionamento.
Siniscalchi, pur avendo praticato la telegrafia solo per professione, l’amava e
la conosceva come o forse più dei tanti “radioamatori” con cui in questi ultimi
anni, come do conto in queste News, ho avuto contatti. Inoltre lui è così
padrone del Morse che sa telegrafare con e su qualsiasi cosa: tacchi delle
scarpe, nacchere, unghie, denti (e unghie su denti), palpebre, tamburi,
pianoforte e ricordo perfino che le sue mani, pur massicce e muscolose,
manipolavano con stupefacente agilità un pennarello semplicemente incrociato su
un altro pennarello poggiato sulla cattedra! Per cui, quando gli mostrai il mio
tasto di fortuna, cioè il citato relè, il caro Siniscalchi, pur non avendo mai
visto (mi pare) un relè, né ancor meno averne sentito il ticchettio, e pur
essendo abituato solo ai “toni” si adattò immediatamente (vedi
osservazioni di Crapella in Morse News 30)
alle prestazioni di quell’apparato, riuscendo a manipolarlo magnificamente e a
tirargli fuori insospettabilissime “melodie di clic”.
Voleva assolutamente insegnare anche a me a telegrafare, ma
io neanche ci provai perché non lo ritenevo, né lo ritengo, indispensabile per
i miei studi teorici, mentre invece cercavo di tirargli fuori, “con le
tenaglie”, che cosa significava il “legamento” (liaison) tra punti e
linee, di cui avevo letto in svariati testi di telegrafia e che tanto mi
intrigava. Ma la mia impresa, come poi mi confermò l’esperienza anche con altri
eccellenti radioamatori o “ferrotelegrafisti” (un cenno in AG 12), era disperata.
Tutte queste persone, in genere dei veri padreterni coi tasti, non sapevano o
non riuscivano a spiegarmi quello che io volevo sapere, cioè a formalizzare in
qualche modo la procedura – banale, almeno sulla carta e, soprattutto, a loro
dire – che sapevano così bene mettere in pratica. Non solo, ma alcuni, non riuscendo
a capacitarsi della mia diciamo “testardaggine” o refrattarietà, si mostravano
ben presto indispettiti o infastiditi dalle mie insistenze!
Vero è che un conto è conoscere bene qualcosa e un altro
saperla insegnare agli altri - l’esperienza di tutti gli insegnanti lo conferma
-, ma in questo caso la difficoltà era di un altro ordine, direi quasi
insormontabile. Siniscalchi, per spiegarmi questi legamenti – di tipo
“musicale”, insisteva – non trovava di meglio che canticchiarmi “Santantonio, Santantonio…”, un’aria (una
“mnemonica”, come appresi poi – vedi News 21) che
a suo dire rappresentava magnificamente
Adesso, dopo tanti anni, le mnemoniche credo di averle
capite e mi sto sforzando di rendere partecipi altri delle mie conquiste, o
almeno di spronare alla ricerca. Ogni parola, sotto l’aspetto, il vestito, la
carrozzeria fonetica (ma anche grafica, in parte) ha un’ossatura, una struttura
portante fatta per così dire da ossa corte (i punti Morse) e da ossa lunghe (le linee Morse) imperniati tra di loro mediante dei
“legamenti fonetici”. Sull’intima natura di queste ossa e di questi legamenti,
poi, ci sarebbe e ci sarà molto da approfondire, ma la strada, credo, ormai è
tracciata.
Chi vuole può provare da sé a percepire questi equivalenti
fonetici: basta che batta velocemente con una matita tre colpetti di seguito
(cioè la S dell’alfabeto Morse) e
quasi automaticamente “vestirà” questa “struttura prosodica” con la parola “trentatre”,
con la parola “sirena” o con qualsiasi altra che più gli aggraderà, purché di
tre sillabe. Disponendo di un oscillofono Morse si può fare un passo avanti e
produrre oltre ai punti anche le linee: in tal caso, e per esempio, alla
lettera F di prima verrà spontaneo associare parole di 4 sillabe (breve breve lunga breve) come “fumatore” (Manisco), “filibuster”
(Culley), ecc.
Mi piace concludere ricordando che Ernesto Scuri (Il metronomo nell’insegnamento orale dei
sordomuti, 1898) si serviva dei colpi (visivi o tattili) del metronomo di
Maelzel, bypassando l’aspetto fonetico (la carrozzeria) delle parole, per
insegnare ai suoi sfortunati allievi a “parlare”.