33 – Telegrafia senza zona
Questa è una foto del celebre ma paradossalmente
“sconosciuto” telegrafo Morse. In realtà l’ignoranza, gli errori, i pregiudizi
su Morse e sulla sua telegrafia sono abissali, mentre si sa molto di più della
telegrafia senza fili, cioè della radiotelegrafia di Marconi. Scopo precipuo
dei miei studi e di queste News è appunto colmare queste lacune e correggere questi
errori: chi mi ha onorato della sua attenzione forse ha cominciato ad
accorgersene.
Compulsando gli scritti originali di Morse (che citerò in
lavori più estesi) e diffidando, per così dire, delle infinite “imitazioni”, si
appura che l’urgenza e soprattutto il successo – iniziale, si badi – del Morse
sui moltissimi altri sistemi concorrenti (antecedenti, contemporanei e
successivi) furono dovuti al fatto che il Morse era un telegrafo “scrivente”, che lasciava “traccia” dei messaggi o dispacci
trasmessi (ho virgolettato le parole “scrivente”
e “traccia” perché, nel prosieguo, ne
sottolineerò le differenze rispettivamente con “stampante” e “segnale integrale”), mentre gli altri sistemi
erano fugaci, per così dire orali, o “semaforici”, come Morse li chiamava.
I segni Morse, comunemente e sbrigativamente noti come punto
e linea
dell’omonimo codice, venivano “lasciati” (con lapis, inchiostro, punta
secca, rotella, pennello, tampone, perforazioni, decomposizioni chimiche, ecc.)
su una strisciolina di carta, chiamata in gergo “banda” o “zona”, che si
svolgeva dalla rotella innestata nella stessa macchina Morse (vedi foto) per riavvolgersi in
un’analoga rotella montata sul tavolo. Il ruolo della zona e l’aspetto di “scrittura” del Morse sono stati però
falsamente tanto amplificati da far velo all’aspetto orale, fonetico,
squisitamente e intrinsecamente “linguistico”
del Morse.
In America il Morse si emancipò immediatamente dalle pastoie
della fissatura grafica – che pure, come già detto, era stata la molla
potentissima della sua genesi – e si sviluppò “senza zona”. In Europa invece la zona si mantenne e fu la ragion
d’essere e il motivo formale della sua enorme diffusione, ed anzi si può dire
che fu anche a causa di questa “zavorra”
che si dovette adottare un nuovo alfabeto (Morse internazionale o Gerke, 1852)
più adatto all’uso scritto e, appunto, “formale”.
Studiare “veramente”
il Morse – come da oltre un decennio tenta di fare il sottoscritto – oggi,
nell’epoca di internet, non è dunque né una curiosità storica né, tanto meno,
una necessità di lavoro, come nell’ottocento. È invece entrare dalla porta
principale nei problemi della linguistica generale e penetrare scientificamente
i rapporti tra oralità e scrittura.
Come acutissimamente osservato da Bosellini (Sulla natura filosofica
dei telegrafi) è il telegrafista che fa da tramite o “mandatario” tra il messaggio scritto del
mittente e il messaggio, parimenti scritto, consegnato al destinatario. Più
esattamente: il compito del telegrafista che trasmette è “oralizzare” (manipolazione del tasto) il testo (scritto) che gli
viene presentato; il compito del telegrafista che riceve è “deoralizzare”, cioè scrivere o “copiare” (ascolto del sounder) e
consegnare al destinatario il dispaccio nella forma scritta. Queste inavvertite
inversioni oralità/scrittura sono adombrate nell’effetto Lucidi, accennato in AG 9.
La zona – si badi molto bene – è solo apparentemente scrittura,
in realtà i suoi segni sono “orali”
o, più esattamente, “tracce di oralità”.
Anche la telegrafia automatica congiura o ha congiurato, come si accennava
dianzi, ad offuscare queste verità cristalline.
Come ognun vede il tema è ambizioso, difficile e
immensamente articolato. Interi capitoli dovranno essere dedicati ai segreti
della “telegrafia senza zona”
americana, per noi inconcepibile e burocraticamente inaccettabilissima; al
perché il Morse internazionale non si impose anche in America; al perché si
facevano più errori a leggere le zone che ad ascoltare i sounder; ecc.