AG 12 -
Il cronoscopio di Hipp
Un problema telegrafico
Elettromeccanica del
cronoscopio di Hipp
(da W.
Wundt, Grundzuge
der Physiologischen Psychologie, ediz. 1902).
Disponibile
anche in formato PDF
Questo Atomo (Abstract)
3.
L’elettromagnete ricevitore
10. Il cronoscopio di Doniselli
12. Il cronoscopio di Saffiotti
1. Orologi
e telegrafi
Nella prima metà dell’ottocento l’arte dell’orologeria
meccanica, in particolare in Europa, si trovava in uno stadio di piena
maturità. Invece, in seguito alle invenzioni della pila, dell’elettrocalamita,
delle “bussole” per misurare la “forza” della corrente elettrica, ecc. l’arte
dell’elettricità, o “elettrotecnica”, cominciava a svilupparsi. Contrariamente
a quello che un profano potrebbe credere le prime applicazioni non riguardarono
la “luce” elettrica – che verrà molto tempo dopo, nella seconda metà del secolo
– ma l’elettrificazione degli orologi[1] e dei telegrafi.
Queste due linee di sviluppo – orologeria e telegrafia elettriche – non furono del tutto indipendenti perché da tempo si cercava di risolvere il problema della marcia simultanea di orologi, per esempio quelli pubblici delle città e, soprattutto, quelli di osservatori astronomici dislocati in varie località. Con la telegrafia, prodigiosamente, si riuscì a trasmettere il movimento delle lancette di un quadrante a quelle di un altro quadrante del tutto identico, posto anche a centinaia di chilometri. L’orologio principale (master clock), detto anche “elettro-telegrafico” o “regolatore”, era un pezzo di orologeria ordinaria munito di bilanciere; l’orologio o gli orologi secondari (slave clock) erano invece semplici contatori elettromagnetici che ripetevano l’ora comunicata dai regolatori.
Tralasciando la forza motrice elettrica – che all’epoca era fornita dalle pile a liquido[2], di un numero di elementi proporzionale a quello dei pendoli che dovevano alimentare – e schematizzando al massimo, il tutto si riduceva ad un interruttore o tasto (master clock) e ad una elettrocalamita (slave clock) uniti elettricamente[3]:
Tasto -----------------------------------
Fig. 1
Elettricamente, in altri termini, l’orologio primario era solo un tasto (key) che aveva l’unico compito di chiudere-aprire (make-break) il circuito, mentre la parte elettrica di quello secondario (vedi Fig. 1 e Fig. 5) si riduceva a tre elementi cardini: molla antagonista, elettromagnete e ancora (detta anche armatura).
A questo punto, si badi molto bene, balza evidente la strettissima analogia che ci farà da guida nel corso di questo lavoro sul cronoscopio: l’orologio regolatore si può paragonare alla posta trasmittente di un sistema telegrafico, l’orologio contatore alla posta ricevente. Il bilanciere di un orologio, così, rimpiazza la mano del telegrafista!
A quei tempi chi si intendeva o si occupava di cose elettriche, soprattutto in ambito accademico, veniva insignito del titolo (oggi dequalificato!) di “elettricista” o di quello - pressoché equivalente, per quanto detto - di telegrafista. Ma gli orologiai spesso erano gelosi della loro arte e disprezzavano i nuovi incompetenti elettricisti che ne insidiavano il lavoro. In genere si trattava di umili ma competenti artigiani che tramandavano la loro arte di padre in figlio o da maestro ad apprendista, ma con un difetto capitale: non scrivevano, non pubblicavano le loro scoperte empiriche.
Tra gli elettricisti-orologiai possiamo annoverare l’americano Joseph Henry, il vero padre del telegrafo elettromagnetico, il tedesco Karl August Steinheil, il francese Jean Peltier, l’urbinate Achille Scateni, assistente del Serpieri, lo svizzero Kreusi, assistente di Edison, il tedesco Halske, assistente di Siemens, forse lo stesso Charles Wheatstone – che considerava il suo orologio ripetitore e il suo cronoscopio come una derivazione del suo telegrafo – e sicuramente infiniti altri. La più feconda simbiosi tra orologeria e telegrafia, però, la troviamo incarnata senza dubbio nel francese Louis Breguet e nello svizzero Matthias Hipp, che entrambi incontreremo presto.
I rapporti tra orologi e telegrafi, d’altronde, non si
contano: le prime suonerie di chiamata telegrafica erano ad orologeria, perché
la corrente non aveva la forza di azionare energici campanelli (quelli a trembleur),
campane o sirene; il telegrafo
stampante Hughes aveva un treno di rotismi che funzionava con
un motore a peso (di ben
Ma il rapporto più importante, e forse più insospettato, tra il tic-tac del pendolo e il di-dah del Morse[4], lo troviamo nei primi trattati di telegrafia: le istruzioni per imparare la corretta manipolazione del tasto – provenienti, certo non a caso, dai telegrafisti svizzeri – prescrivevano di seguire le battute di un orologio usato come una specie di metronomo e tenuto accanto al tasto o vicino all’orecchio[5].
Ai tempi in cui nelle nostre ferrovie si usava il telegrafo – intensivamente, si badi: per gestire tutto il “movimento” dei treni e per ogni altra comunicazione di servizio – esistevano delle squadre di addetti alla manutenzione delle macchine e delle linee telegrafiche, e tali operai, in gergo, venivano chiamati “orologiai”. Alcuni di questi veterani mi hanno raccontato particolari ben difficilmente rintracciabili nei, pur numerosi, libri da me compulsati. Per esempio, oltre che degli orologi di stazione e di quelli per fare accendere le luci, della manutenzione ordinaria delle linee telegrafiche (c’erano le dirette, le semidirette e le omnibus), degli accumulatori e delle macchine stampanti Morse (lubrificazione dei rotismi, inchiostratura, sostituzione dei pennini usurati, ecc.), si occupavano anche di molti “regolaggi” (adjusting), per lo meno di quelli “grossi”[6], perché quelli “fini” potevano e dovevano farseli, anche secondo le preferenze personali, i soli titolari e responsabili dei telegrafi, e cioè i capistazione.
Ma gli orologi di cui ci occuperemo da vicino erano i cronoscopi, strumenti di alta precisione usati per misurare la velocità dei proiettili o, quel che più ci interessa, per studi di “cronometria mentale”. Se si sfoglia qualcuna delle sei edizioni dei Grundzuge der Physiologischen Psychologie[7] del fisiologo tedesco Wilhelm Wundt o, meglio ancora, dei Philosophischen Studien[8] non solo si resta affascinati dai tanti dispositivi raffigurati, che lo fanno sembrare un testo di elettricità o telegrafia[9], ma si ha la prova tangibile della continua cura dedicata da Wundt, e dai suoi molti discepoli, al perfezionamento continuo degli apparecchi e alla soluzione di piccoli e grandi problemi tecnici[10]. Per saperne di più sul fermento scientifico quell’epoca e di quell’ambiente rimando a un recente simposio alla Montclair State University, i cui atti sono disponibile in rete[11] e, specialmente, a un pregevole lavoro[12], ugualmente in rete, di Tom Perera, un docente di psicologia che ha al suo attivo, caso forse unico, anche un’approfondita e diretta conoscenza di cose telegrafiche.
2. Il trasmettitore Breguet
L’ultima linea telegrafica italiana, dismessa verso il 1985, è stata quella della tratta ferroviaria Roma-Fiuggi. Il sistema telegrafico adottato era quello più noto e diffuso, cioè il Morse, su cui in questa sede non possiamo soffermarci[13]. Sarà utile invece, per introdurre la nostra indagine sul cronoscopio, spendere qualche parola sul sistema telegrafico adottato nella prima linea telegrafica dell’Italia non ancora unita, la Pisa-Pontedera, sorta nel 1847 per impulso di Carlo Matteucci, benemerito direttore dei Telegrafi Elettrici della Toscana[14].
Si tratta del telegrafo a quadrante di Breguet,[15] apparato che, anche nel nome, risente molto della matrice di orologiaio del costruttore. Su internet[16] si possono facilmente trovare molte descrizioni del funzionamento e molte immagini – sia del trasmettitore o “manipolatore” che del ricevitore – di questo telegrafo entrato in servizio sin dal 1844 sulla linea Parigi-Versailles. Per i nostri fini è sufficiente partire dal seguente chiaro spaccato del manipolatore Breguet (Fig. 4), tratto dal bel sito del Museo Arti e Mestieri di Parigi.
L’interruttore, che come abbiamo detto costituisce il cuore di ogni trasmettitore, è costituito dai contatti che si vedono in basso, simili alle “puntine” platinate degli spinterogeni delle automobili. La cosa più interessante, però, ai fini della nostra analisi dell’interazione fisiofisica uomo-macchina, è il modo in cui questo ruttore (lato “fisico” dell’interazione) veniva “manovrato” dalla mano (lato “fisiologico” dell’interazione) dell’impiegato postale o del capostazione.
Occorre allora risalire ai tempi eroici del telegrafo
ottico o aereo dello svedese Edelcrantz,
dell’italiano Gonella o del più famoso francese Chappe.
Agli addetti alla trasmissione si richiedevano dei buoni muscoli per azionare
dei manubri che, tramite corde e pulegge, muovevano braccia o ali[17] sui tetti delle stazioni o “poste”. Né minor
sforzo (attentivo),
trattandosi di un sistema a segnali convenzionali, in pratica segreti e
inintelligibili, era richiesto alle vedette che dovevano “leggerli” e annotarli
nelle poste corrispondenti[18].
A Louis Breguet i telegrafi Chappe erano familiarissimi essendo stati costruiti, cinquant’anni prima, alla fine del ‘700, da suo nonno Abraham Breguet. Perciò, quando in Francia si decise l’elettrificazione dei telegrafi, il primo modello uscito dalle officine Breguet fu il cosiddetto “Chappe in miniatura”, che permetteva, con minimo riaddestramento, il riutilizzo, o la riconversione, come si direbbe oggi, del vecchio personale dei telegrafi aerei. Non potendo soffermarci a descriverlo (ma vedi internet) accenniamo solo che il trasmettitore era costituito da due manovelle da girare velocemente con le due mani e sempre nello stesso verso[19] mentre il ricevitore da due minuscoli indici (le vecchie grandi ali!) che riproducevano esattamente e sincronicamente la posizione delle due manovelle. Ben presto però il piccolo Chappe a segnali convenzionali e a due manovelle fu soppiantato dal telegrafo alfabetico Breguet a quadrante e ad una sola manovella[20], probabilmente perché richiedeva troppo sforzo da parte degli occhi e delle braccia degli impiegati.
Dopo questo breve excursus possiamo tornare al disegno del manipolatore. Sul quadrante alfanumerico fisso, che ricorda la “mostra” di un orologio, la mano del telegrafista faceva ruotare, tassativamente nel senso orario, una manovella-lancetta fermandola un istante sulla lettera o sul numero che voleva trasmettere. Questo provocava, grazie ad un adatto profilo a camme (gorge sinueuse) e una leva, la continua apertura e chiusura del contatto. Per inviare, ad esempio, la lettera F o il numero 6, il sistema compiva 3 chiusure e 3 aperture del circuito, cioè 3 invii e 3 interruzioni di corrente. Colla terminologia, appropriatissima, dell’orologiaio Breguet, ogni semioscillazione della leva del ruttore veniva chiamata movimento, quindi per la lettera A occorreva un movimento, per la B due movimenti, per la F sei movimenti, ecc[21]. Questo manipolatore poteva azionarsi ad una velocità massima di circa 2 giri/sec a causa dei tempi fisiologici dell’operatore e di quelli fisici dei vari rotismi (inerzia meccanica, elettromagnetica, elastica, ecc.), tutti più o meno dello stesso ordine di grandezza[22].
Per manipolare bene bisognava condurre la manovella molto regolarmente, arrestarsi un tempo ben marcato sui segnali da inviare[23] e non levare la manovella prima di aver portato in anticipo gli occhi sul segnale che doveva seguire. Spesso invece si cercava la lettera mentre la manovella era in movimento[24] e questo vizio comportava un’esitazione, in pratica dei micromovimenti di va e vieni che portavano a falsi contatti, facendo avanzare l’ago del ricevitore e provocando errori o facendo addirittura, come vedremo, perdere l’accordo tra posta trasmittente e posta ricevente.
I principianti non dovevano forzare sulla velocità e abituarsi invece a manipolare a una velocità bassa ma rigorosamente uniforme che evitava gli errori di lettura, le conseguenti richieste di ripetizioni e le inutili perdite di tempo[25]. Non erano ammessi ripensamenti: se si sorpassava la lettera sulla quale ci si doveva arrestare bisognava continuare il movimento della manovella per un intero giro, perché, se si tornava indietro, la lancetta del ricevitore non poteva che avanzare, e sarebbe avanzata di tante lettere di quante se ne sarebbero percorse all’indietro[26]. Per conferire nettezza in ricezione e mantenere il sincronismo ogni parola trasmessa veniva delimitata dalla ┼, un segnale particolare chiamato croce (stop, final).
Comunque era più facile manipolare veloce che leggere.
Basta pensare che nell’invio si poteva, pur trasmettendo una lettera, cercare il luogo di quella che doveva
seguire, mentre in ricezione per afferrare ogni lettera non si aveva che il
tempo molto breve durante il quale l’ago si fermava di fronte ad essa.
3. L’elettromagnete ricevitore
Il ricevitore Breguet non era altro che un orologio, uno di quei vecchi grandi orologi da tavolo, per intenderci, con ricarica a chiavetta (della molla motrice) direttamente dal quadrante. Rimandando a internet, o alle opere citate, per i dettagli e le immagini, ci limiteremo a descrivere solo ciò che ci sarà utile per il prosieguo.
Il quadrante, identico a quello del manipolatore Breguet già illustrato, al posto delle ore aveva le lettere dell’alfabeto, i numeri e soprattutto quel segno di croce ┼ necessario per la sincronizzazione o accordo dei due strumenti. Al posto dell’indice a manovella c’era invece un indice o una lancetta, appunto, da orologio. La vera differenza rispetto all’orologio normale era che qui la ruota di scappamento non era arrestata da un pendolo o da un bilanciere ma dall’ancora elettromagnetica schematizzata in Fig. 1 e Fig. 5. Si trattava cioè di un dispositivo simile ad un orologio pilotato (slave clock) con l’indice che, come in tutti gli orologi, poteva marciare ovviamente solo in senso orario[27]. L’operatore, per “ricevere” ossia leggere le lettere trasmesse, doveva seguirlo con gli occhi afferrandone i tempuscoli di arresto appunto su tali lettere. La durata dell’arresto dipendeva dalla precisione dei movimenti di colui che inviava il dispaccio e il colpo d’occhio più o meno pronto di quello che lo riceveva. L’ago, per così dire, mostrava, sceglieva o, se si vuole, pronunciava in qualche modo quelle lettere esclusivamente sulle quali l’operatore doveva portare la sua attenzione[28].
Per il buon andamento della comunicazione occorrevano due cose (da non confondere l’una con l’altra, anche se interconnesse): l’accordo tra trasmettitore e ricevitore e il regolaggio, come si diceva, del ricevitore. Teoricamente, con un ricevitore ben aggiustato, non avrebbero dovuto esserci problemi. Se si fosse perso il sincronismo, ad esempio per un movimento irregolare della manovella o per altri motivi, l’accordo poteva essere immediatamente ristabilito grazie al segnale croce ┼ e al pulsante di avanzamento manuale dell’ago del ricevitore (il moderno reset). Ma in pratica occorreva un regolaggio quasi permanente sulla molla antagonista, il primo dei tre elementi chiave, già definiti, del ricevitore[29] (Fig. 5, in alto a destra).
L’intensità di corrente che circolava nel ricevitore dipendeva da un’infinità di fattori, anche indipendenti dagli apparecchi (distanza del corrispondente, stato della pila, stato dell’isolamento, dispersioni per pioggia o umidità, perdita nel filo della linea per comunicazione col suolo, su un palo o nel muro di un tunnel, difettoso collegamento con la terra, specie nel caso di terreno o tempo secco, ossidazione delle giunture, dei commutatori, ecc.) e di conseguenza la forza di magnetizzazione dell’elettromagnete – il secondo elemento cardine (Fig. 5, le due bobine in basso) – non era costante ma variabile. Spesso era quindi necessario regolare la molla[30] all’inizio di una corrispondenza (specialmente se era con una stazione diversa dalla precedente) e qualche volta anche nel corso della comunicazione[31].
Tutte le volte che durante una trasmissione il ricevitore non marciava bene, che si notava esitazione nei movimenti della lancetta voleva dire che era stata violata la norma generale secondo la quale la molla doveva essere sempre armata con una forza leggermente più debole della forza magnetica. Solo così infatti l’ancora o armatura di ferro dolce – terzo elemento chiave del ricevitore (Fig. 5, al centro) – poteva percorrere tutta la sua corsa e lo scappamento poteva farsi regolarmente a ogni stabilimento o interruzione di corrente. Se la forza antagonista era più forte dell’attrazione magnetica il passaggio di corrente non provocava nessun movimento dell’armatura; al contrario, se la molla era molto più debole dell’elettromagnete non c’era tempo, nell’intervallo tra due passaggi di corrente, per riportare l’armatura alla posizione di riposo, perché l’elettromagnete non perdeva la sua forza magnetica istantaneamente alla rottura del circuito, ma conservava una certa magnetizzazione residua, che aveva un’intensità notevole nei primi istanti[32].
Quando dunque la ricezione non era fluida si doveva procedere al seguente laborioso e fastidioso regolaggio. L’impiegato interrompeva il suo corrispondente inviandogli le lettere T Z, cioè iniziale e finale della parola TOURNEZ (Girate!), invitandolo così a girare in continuazione e con uniformità la manovella, allo scopo di dargli il modo e il tempo di registrare la molla antagonista del suo ricevitore[33]. Si percepiva allora facilmente che il movimento dell’indice invece di essere fluido era saccadè, cioè l’indice sostava leggermente più sui numeri dispari che non sui pari o viceversa[34]. Nel primo caso l’attrazione magnetica sopravanzava molto la forza della molla che dunque doveva essere armata di più (girando dolcemente da sinistra a destra la chiave di regolaggio). Nel secondo caso, vale a dire se si vedeva l’ago fermarsi a preferenza su dei numeri pari, la molla era troppo armata e bisognava girare la chiavetta in senso contrario. Se l’ago restava alla croce ┼ senza muoversi, dopo essersi assicurati alla bussola che la corrente passava, si doveva ugualmente allentare la molla, perché il caso rientrava in quello di arresto su un numero pari. Quando si riteneva il proprio ricevitore sufficientemente regolato[35] si interrompeva il corrispondente inviandogli un segnale convenuto e si iniziava a corrispondere[36].
Breguet aggiunge che, con una certa pratica, si poteva ritoccare il regolaggio anche mentre si riceveva, senza interrompere la trasmissione. Poiché inoltre non era raro che l’impiegato riconoscesse i segnali al solo rumore della palette (armatura)[37] se ne può dedurre che il regolaggio dinamico – non statico, si badi! – che siamo andati esponendo si facesse non solo con controllo ottico, ma anche acustico[38]
4. Il relè Hipp
I fenomeni elettromagnetici implicati nel telegrafo Breguet non sono diversi da quelli del telegrafo Morse[39].
Infatti i contatti leggermente più lunghi sulle lettere da trasmettere
corrispondono alla linea (dash)
del Morse, tutti gli altri contatti diciamo “normali”, necessari per
l’avanzamento o scappamento dell’orologio, corrispondono al punto
(dot) del Morse[40].
Ora, quando la leva del ruttore del manipolatore Breguet
si muove con regolarità, come ad esempio durante il regolaggio[41],
è da presumere che altrettanto regolarmente e armonicamente si muoverà
l’armatura di ferro dolce, perché i ben noti fenomeni di isteresi magnetica[42],
saturazione, adesione (sticking),
autoinduzione e simili non hanno tempo di manifestarsi in modo sensibile.
Viceversa quando il contatto al ruttore è più lungo[43] il movimento dell’armatura non potrà
rispecchiare fedelmente il movimento della leva del ruttore perché i predetti
fenomeni di disturbo saranno diventati più sensibili e, soprattutto, si badi,
più incontrollabili[44].
L’appena enunciata “regola generale” sulla molla antagonista è allora più teorica che pratica, o quanto meno difficilmente applicabile senza stare a impazzire appresso a insicuri, fastidiosi e perpetui regolaggi. Di questo stato di cose gli elettricisti erano più o meno ben consapevoli, e qualcuno colse molto più chiaramente il problema del particolarissimo equilibrio con la molla di richiamo: “la molla antagonista ha un difetto radicale: non può oscillare bene se non esiste un rapporto determinato tra la forza dell’elettrocalamita e la forza della molla”[45].
Forse tra gli elettricisti moderni, che ben conoscono il relè[46], ci sarà qualcuno che si stupirà del fatto che esso fu inventato per evitare la scocciatura della regolazione continua del ricevitore telegrafico. In realtà il relè nacque per separare, in qualche modo, il circuito della linea telegrafica dal circuito locale della macchina a segnali, in particolare della Morse, allo scopo di ottenere si una maggiore forza motrice per la goffratura della “zona” di carta, ma soprattutto una maggior sicurezza e regolarità nella trasmissione dei dispacci. Col relè, che in Italia veniva chiamato interruttore mobile o soccorritore e in Austria regolatore, risultarono “assolutamente costanti la conducibilità e l’isolamento del circuito della macchina e, per poco che si curasse la conservazione della pila inserita in questo circuito (locale), si poté tenere per costante la forza della corrente”[47].
Contestualmente a questa applicazione primaria il relè ne trovò un’altra, forse più importante e certamente più nota: l’uso come ripetitore, o traslatore, in uno o più punti delle linee telegrafiche troppo lunghe per il collegamento diretto[48]. Furono i francesi, per similitudine con le stazioni di posta dove si cambiavano i cavalli (dei messaggeri e delle diligenze postali), a chiamare relais questi ripetitori automatici[49].
Il problema capitale della molla, però, chiaramente, era risolto solo parzialmente, perché se quella della macchina veniva regolata una volta per tutte, rimaneva sempre da tarare la molla del relè! Così furono escogitati infiniti tipi di relè, sperimentando sulla disposizione, sul numero di spire e sull’isolamento degli avvolgimenti, sui vari tipi di ferro per i nuclei, le culatte e le ancore, sulle leghe per le molle, ecc., sempre colla prospettiva di una regolazione automatica, o di sostituire la molla con la forza di gravità, o addirittura di eliminarla del tutto[50]. Ci limiteremo a pochi cenni su due dei più noti di questi dispositivi, il relè Hipp e il relè Siemens.
Relè Hipp (Fig. 6) – “È formato
da un elettromagnete simile al Morse e di
uguale resistenza. L’armatura piccola e leggera passa in un telaietto
rettangolare che obbedisce all’azione di due spirali chiuse in una colonnetta
situata presso il magnete. La tensione della spirale superiore si varia con la
vite che chiude la colonnetta e sulla spirale inferiore si opera per mezzo di
una manovella collegata ad un eccentrico. Rallentando la spirale inferiore e
aumentando la tensione di quella superiore si rende più sensibile l’apparecchio
e viceversa. Un braccio dell’armatura sporge dalla colonnina e oscilla tra due
viti d’arresto munite di punte di platino isolate. La portata del relè Hipp è piccola ma sempre maggiore di quella della macchina
Morse che è anche assai meno sensibile” [51].
Relè Siemens (Fig. 12) – “È un
relè polarizzato, ossia con l’armatura influenzata da una calamita permanente.
Se l’armatura presenta polarità Nord le espansioni polari entrambe polarità
Sud. Al centro la linguetta (ancora)
si trova in equilibrio instabile e basta il più piccolo sforzo per far
prevalere l’attrazione di una delle due espansioni. La corrente percorre in
senso inverso i due rocchetti e aumenta la forza attrattiva di una di esse,
diminuendo quella dell’altra e annullandola o anche rendendola repulsiva a
seconda della intensità della corrente. La linguetta si sposterà e persisterà
nella nuova posizione finché non giunga una corrente inversa a rovesciare le
condizioni del campo magnetico. La portata, la sensibilità e la mobilità di un
relè Siemens ben regolato sono molto superiori a quelle del relè Hipp”[52].
Come si vede Siemens, con tantissimi altri, seguì la strada di sostituire la molla con due elettromagneti contrapposti[53], ma il problema si spostava nella difficoltà di bilanciare la corrente positiva con quella negativa[54]. Hipp invece, controcorrente, al posto di una molla ne mise addirittura due, con risultati forse un po’ migliori.
Confesso che sul funzionamento del relè Hipp – e sulla sua fortuna – mi sono scervellato non poco, perché le spiegazioni trovate nei testi non mi soddisfacevano. Matteucci, in particolare, dice che le due molle a spirale, registrabili separatamente, ordinariamente sono molto ed egualmente tese; che basta una debole corrente per far muovere l’ancora; e che, al cessare della corrente, l’ancora ritorna alla sua posizione di riposo con una forza che è la somma delle forze elastiche delle due spirali, cioè dell’inferiore che è stata allungata e della superiore che si è accorciata. E aggiunge: “È evidente il vantaggio di questa disposizione. Negli altri relais la spirale deve essere poco tesa perché una piccola forza possa mettere l’ancora in movimento ed è quindi anche debole la forza che riconduce la leva. Nel relais di Hipp, quantunque la più piccola forza basti a rompere l’equilibrio della leva, quando la corrente cessa la leva tende a ritornare alla sua posizione con una velocità che è tanto più grande quanto più è forte la tensione delle due molle: è quello che avviene di una corda[55] tesa tra due punti allorché si sposta un punto intermedio, cioè che essa torna tanto più rapidamente alla posizione di equilibrio quanto più è tesa. Questa disposizione permette anche di porre allo stato di riposo l’ancora ad una distanza estremamente piccola dall’elettrocalamita; in tal modo l’intensità della corrente può essere anche molto debole e i movimenti dell’ancora saranno rapidissimi”[56].
A mio avviso il problema è aperto e suscettibile di
interpretazioni più rigorose. Le forze in gioco in telegrafia – forza magnetica
e forza elastica – non possono essere valutate staticamente, né misurate con
dinamometri o bilance. Certo, di due molle si possono confrontare le
deformazioni sotto carico, ma non basta che esse si allunghino[57] entrambe, mettiamo, di
Basta, del resto, scorrere l’affascinante storia del tasto telegrafico[59], dal famoso “Correspondent” di Morse a lamina fissa (strap key), del 1844, fino ai sofisticati tasti semiautomatici o “bug” ancora oggi in produzione, per avere l’idea di quanto importante fosse il ruolo della molla di bilanciamento ai fini di una comoda e fluente manipolazione, che stancasse il meno possibile e prevenisse l’insidioso “crampo del telegrafista”[60]. Senza dimenticare che le infinite soluzioni tecniche[61] escogitate da schiere di telegrafisti per migliorare l’ergonomia dei loro tasti sono servite, e servono, per potenziare sempre più quelle interfacce universali uomo-macchina che sono le tastiere dei computer, filiazioni dirette dei pionieristici tasti telegrafici.
Hughes, il principe dei telegrafisti (vedi Cap. 13), alle prese col problema di una molla (a lamina) del suo telegrafo stampante soggetta a frequentissime rotture per le sollecitazioni a cui era sottoposta, capì che l’inconveniente dipendeva dallo sforzo molecolare distribuito su poca estensione, e lo risolse brillantemente con una nuova lamina ad elica che, svolta, misurava ben due metri[62]. E il nostro ottimo Dell’Oro, nelle sue Letture di Telegrafia[63], spiega che la disposizione a spirale o elica delle molle presenta gli stessi vantaggi degli avvolgimenti solenoidali delle bobine elettriche. Infatti, appartenendo, sia l’elettricità che l’elasticità, a tutti i punti del filo (rispettivamente elettrico ed elastico), la forza elettrica e quella elastica si utilizzano meglio facendole convergere in una stessa direzione, e cioè lungo l’asse delle spirali.
Le due molle del relè Hipp[64], io credo, possono essere considerate come un’unica lunga molla – di una ventina di centimetri[65], che svolta diventerebbe circa un metro – che, grazie alla disposizione simmetrica adottata, oscilla meglio delle normali molle, per così dire, “unilaterali”, ma, ripeto, il problema è aperto e si può risolvere solo con attente e delicatissime verifiche strumentali[66].
In un necrologio di Matthias
Hipp si legge che il suo relè, nella sua
semplicità, risultava competitivo rispetto ai sistemi più perfezionati[67].
In conclusione, tutte le soluzioni tecniche circa l’equilibrio tra la forza elettrica (o magnetica, o elettromagnetica, che dir si voglia) e la forza elastica sono state empiriche, e pur tuttavia, molte di esse hanno funzionato egregiamente. Se però questo stato di cose era accettabile in ambito telegrafico, lo stesso non può valere per uno strumento di alta precisione come il cronoscopio di Hipp, e per di più messo in mano a gente – filosofi, psicologi o al massimo fisiologi – nella gran parte dei casi incompetente di telegrafia.
5. Il cronoscopio di Hipp
Lo scopo e l’estensione di questo opuscolo non consentono una descrizione completa e dettagliata di questo complicato e “nobile” strumento che dalla metà dell’800 e fino alla prima guerra mondiale costituì il fiore all’occhiello della psicologia scientifica mondiale. Gli eventuali interessati, però, se vogliono veramente comprendere appieno quanto andremo dicendo possono trovare ampia bibliografia, sia in rete che nelle biblioteche[68].
Il cronoscopio, a differenza del cronografo – e in generale di tutti i cosiddetti “metodi grafici” che, all’epoca, consistevano in elettrodiapason, tamburi di Marey e carta affumicata – permette una “visione” del tempo (nel movimento più o meno veloce di alcuni indici o lancette) e, soprattutto, una sua misura, sia pur fuggitiva e non permanente[69]. Oltre a quelli moderni, elettronici[70] o computerizzati, vi sono, grosso modo, tre categorie di cronoscopi: balistici (o elettrobalistici)[71], a pendolo[72] ed elettromagnetici. Quello di Hipp, senza dubbio il più noto e diffuso[73], appartiene a quest’ultimo gruppo.
Nel 1845 Wheatstone, già celebre per le polemiche con Cooke sulla paternità del telegrafo ad aghi, rivendicò – a Breguet e poi allo stesso Hipp – anche quella del cronoscopio, come derivazione, appunto, del suo telegrafo[74]. Senza entrare nel merito della questione, peraltro abbastanza nota e sviscerata, ci limiteremo a ricordare che Hipp, sicuramente, fece l’importantissima modifica tecnica di far partire gli indici del cronoscopio non contemporaneamente a tutto il rotismo dello strumento, ma solo dopo che questo era già “a regime”[75].
In un mio precedente lavoro[76] definivo il cronoscopio di Hipp uno strumento d’avanguardia, nel 1880. Più esattamente bisogna precisare che era si uno strumento sofisticatissimo per l’epoca, ma non nuovo, sia perché esisteva da circa 30 anni e sia perché, almeno dal 1862, era stato intensivamente usato da astronomi e fisiologi per rilievi sulla velocità dell’agente nervoso e sulla celeberrima “equazione personale”[77]. Ma il boom, per così dire, si ebbe comunque con e dopo Buccola, man mano che nel mondo si istituivano i laboratori di psicologia sperimentale, per i quali possedere un costosissimo Hipp era indispensabile, se non altro come vanto o “status symbol”. E se per i direttori dei laboratori il cronoscopio era un mezzo di discriminazione – chi non lo sapeva usare era un estraneo, veniva escluso dal clan, dalla tribù accademica – per molte generazioni di studenti tedeschi di psicologia, che lo vedevano solo dietro le vetrine degli armadi dei laboratori, l’“Hipp’sches Chronoskop” non era altro che un “hübsch Chronoskop”, un “cronoscopio carino”[78]!
Il cronoscopio di Hipp, che grosso modo può assimilarsi ad un orologio pilotato (slave clock), consta essenzialmente di due parti, il meccanismo di orologeria (clockwork) e il dispositivo elettromagnetico di start/stop degli indici (clutch)[79]. In questo lavoro ci limiteremo a pochi cenni sull’orologio – pregando cortesemente il lettore di supplire a tale lacuna con i pregevoli lavori citati – e riserveremo una maggiore attenzione alla parte elettromeccanica, quella di evidentissima estrazione telegrafica.
La forza motrice dei rotismi è data dal peso che ben si vede in tutte le immagini del cronoscopio, all’interno di quella sorta di tempietto o baldacchino che sorregge lo strumento vero e proprio. La loro marcia è invece regolata da uno scappamento meccanico a lama vibrante fissata ad una piccola morsa[80]. Il movimento vibratorio di tale ancia regolatrice e accordata (a 1000 Hz) è mantenuto da piccoli choc regolari che fanno avanzare la ruota motrice di un dente ogni millisecondo producendo un caratteristico suono[81]. L’usura dei denti della ruota e della lama si evita grazie a un piccolo cuscino elastico d’aria che impedisce il contatto diretto. La messa in moto del clockwork si effettua con due cordoncini e un sistema di leve e molle che liberano la ruota di scappamento, dandole un vivo impulso (iniziale) che fa entrare in vibrazione la lama portandola quasi immediatamente alla velocità di regime.
Lo strumento ha due quadranti con due indici – che indicano rispettivamente i decimi e i millesimi di secondo – che però, pur ad orologeria in moto, stanno fermi essendo il treno dei rotismi degli indici separato da quello degli altri rotismi mediante un disgiuntore (clutch). Per farli partire occorre disinnestare il rampino h dalla ruota dentata k2 e innestare questa specie di frizione in k1 mediante la leva H3 collegata direttamente all’ancora mobile m degli elettromagneti, come si vede dal chiaro disegno di copertina. A questo punto si comprende chiaramente, fatti salvi dei piccoli problemi dell’ancia vibrante (vedi Cap. 6), che la precisione del cronoscopio dipende interamente da quel cruciale gioco di forze, magnetica vs elastica, già incontrato nel ricevitore Breguet e nel relè Hipp.
Dunque, dal punto di vista elettrico, che più ci interessa, il cronoscopio di Hipp è del tutto equipollente ad un elettromagnete ricevitore di tipo telegrafico. D’accordo, si dirà, ma che cosa riceve? Semplice, riceve i segnali di start e di stop inviatigli (sia pure da vicinissimo!) mediante un più o meno complicato interruttore-trasmettitore, concettualmente identico a un tasto Morse o al manipolatore Breguet.
Le configurazioni circuitali di tale telegrafo sui generis sarebbero parecchie[82], ma per semplicità – e per il momento – consideriamo il caso di un solo tasto in serie con un solo elettromagnete. Se a circuito aperto, mettiamo, l’ancora m è in alto e la frizione è disinnestata, è evidente che alla chiusura (making) del circuito (corsa di andata del tasto) corrisponderà lo spostamento in basso dell’ancora, l’innesto della frizione e l’inizio della rotazione degli indici cronoscopici; mentre alla riapertura (breaking) del circuito (corsa di ritorno del tasto) si avrà il ritorno in alto dell’ancora, il disinnesto della frizione e lo stop della corsa degli indici[83].
Una prima complicazione di questo schema-base è costituita
dal fatto che il cronoscopio di Hipp non è azionato da un solo tasto ma, in genere, da due
collegati in serie, uno normalmente aperto e l’altro normalmente chiuso.
Ebbene, la sostanza non cambia, perché il primo segnale (start, corsa di andata del tasto) viene inviato chiudendo il tasto
che a riposo era aperto[84],
mentre il secondo segnale (stop, corsa di
ritorno del tasto) viene inviato aprendo il tasto che a riposo era chiuso[85].
Con altre parole si potrebbe dire che il segnale trasmesso è sdoppiato in due “semisegnali”
complementari e tuttavia indipendenti l’uno dall’altro.
Esistevano due modelli di cronoscopio di Hipp. Il primo modello, caratterizzato dal fatto di avere una sola coppia di elettromagneti, uscì nel 1849 dall’officina Hipp di Reutlingen[86]; il secondo modello, del 1875 e con due coppie di elettromagneti, fu invece prodotto dagli stabilimenti telegrafici Hipp di Neuchatel e dalla ditta Zimmermann di Lipsia[87]. Questo secondo modello però, si badi, non soppiantò il primo, cioè non lo rese obsoleto perché, come ricorda Titchener, ancora nel 1905 molti laboratori possedevano e usavano il vecchio modello. Dopo un altro paio di decenni, e dopo che era passato anche per le mani di ingegneri “psicotecnicizzati” che credevano di fare psicologia sol perché misuravano a 1/1000 sec[88], il cronoscopio di Hipp cessò definitivamente dal servizio attivo nei gabinetti scientifici e fu relegato nei musei e tra le scartoffie degli storici della scienza.
6. Il cronoscopio di Wundt
Contestualmente al pensionamento del cronoscopio di Hipp e allo svilupparsi della telefonia[89] e della radioelettronica, da tutti i laboratori di psicologia sperimentale, sia europei che americani[90], cominciò a sparire tutto l’armamentario telegrafico che li faceva somigliare a officine elettrotecniche. Tasti Morse di ogni tipo, relè, spinotti, fili, batterie enormi, strani attrezzi di ottone luccicante, ecc., lasciarono il posto al telechron, alle valvole termoioniche, indi ai transistor e poi all’elettronica digitale, fino ad arrivare all’asettica monotonia degli schermi dei computer dei nostri giorni[91]. Io credo, però, che questo progresso abbia nuociuto alla ricerca psicologica, o meglio psicofisiologica, perché ha aumentato, per esempio e per restare in tema, il divario tra i nostri tempi fisiologici – estremamente bassi, come si sa – e quelli elettronici[92]. È opportuno quindi almeno uno sguardo retrospettivo su quella vecchia strumentazione “a misura d’uomo” adoperata in quei tempi lontani, a cominciare dal Wundt a Lipsia, nel primo e più famoso laboratorio di psicologia scientifica. Però, ripeto, non si tratta solo di un’operazione storica o nostalgica, ma soprattutto funzionale alle nostre considerazioni su molle e regolaggi dei cronoscopi.
Accessori satelliti del cronoscopio di Hipp erano i fallapparat[93], i pendoli e i martelli sonori, gli interruttori vocali, i cosiddetti martelli di Wundt e una miriade di altri apparecchi di cui rimangono tracce solo in vecchi inventari e cataloghi. I fallapparat e i martelli di Wundt[94] sfruttavano le cadute di alcuni gravi (sfere di acciaio o masse a forma di martello, rilasciate sempre elettromagneticamente, su lastre di ardesia o altro, da altezze determinate) per avere dei tempi di comparazione con cui controllare, periodicamente, i cronoscopi. Quasi sempre, però, questi apparecchi di controllo erano affidabili solo in un intorno, o range di tempo molto stretto o dovevano essere controllati a loro volta, con altri più delicati strumenti[95]. In quegli anni gli oscillatori audio non esistevano e le uniche sorgenti sonore erano i diapason e i tic tac degli orologi[96]. Per produrre stimoli acustici adatti per misure del tempo di reazione, o della cosiddetta prontezza dei riflessi, si doveva allora ricorrere al suono, o meglio al rumore prodotto ancora da martelli e pendoli, sistemi che però lasciavano alquanto a desiderare per l’impossibilità di garantire la durata, l’intensità e la stabilità dei segnali-stimoli[97]. Spesso, soprattutto nei laboratori americani, si utilizzavano o si adattavano a questo scopo i sounder telegrafici già accennati.
Poi c’era una sequenza infinita di tasti, pulsanti e
interruttori, componenti che di solito siamo portati a sottovalutare[98]:
telegrafici (nel mondo ne esistono centinaia, forse migliaia di tipi)[99],
astronomici[100],
a libretto[101],
a forbice, a pistola, a voce, a pedale, a maniglia (con o senza cuscino o
stampo di gesso per appoggiare il polso), a palpebra, a labbro[102],
a basculla, doppi, rotanti, a scatto, ecc.[103]. Il modello più corrente era
comunque il semplice tasto telegrafico, tenuto chiuso dal soggetto dal momento
del preavviso fino alla
ricezione dello stimolo e quindi rapidamente rilasciato alzando la mano. Se il movimento di
reazione fosse stato invece una pressione del tasto verso il basso il tempo
indicato sarebbe stato più lungo, almeno se la forza richiesta per abbassare il
tasto contro la sua molla era piuttosto grande. Questo elemento di variabilità
veniva eliminato usando per la reazione il movimento verso l’alto[104].
Ma torniamo al cronoscopio di Hipp, lo strumento principe di tutti i laboratori di psicologia[105]. Il primo problema per lo sperimentatore – beninteso dopo quello di una meticolosa messa a punto[106] – era quello di produrre uno stimolo (acustico, ottico o tattile) nello stesso istante in cui si innestava la frizione che faceva iniziare il conteggio del tempo. Oggi, teoricamente, l’elettronica potrebbe permettere soluzioni più sofisticate (sensori supersensibili, fotocellule, ecc.), ma allora, per forza di cose, ci si doveva arrangiare con qualche interruttore o contattore doppio che chiudesse contemporaneamente e istantaneamente[107] il circuito della sorgente sonora e quello cronoscopico. Il soggetto, già col dito sull’altro tasto[108], quello appunto di reazione, poteva essere si invitato a “non sbirciare” le manovre dello sperimentatore, ma che garanzia si aveva che i rumori dello scatto dell’ancora e quelli, si badi, dello stesso tasto non interferissero con quelli dello stimolo sonoro in studio, falsando radicalmente le misure[109]? Per non parlare dei soggetti: chi aveva una reazione di tipo sensoriale, chi di tipo muscolare, chi era bloccato da una “attenzione aspettante” o “fissante”, chi addirittura era più veloce dello stimolo (reazione negativa)! Ma, per fortuna, l’oggetto di questo studio è solo l’analisi tecnica del cronoscopio e quindi torniamo alle nostre leve e molle.
Come già detto il nuovo modello del cronoscopio era caratterizzato, e noto, per avere due coppie di elettromagneti invece di una, essendo scontato che, per forza di cose, avesse anche due molle antagoniste – agenti sull’unica armatura centrale (vedi Fig. 7 in cui è chiarissimo il funzionamento delle due molle coi due eccentrici) – invece di una. Io credo invece che il vero perfezionamento, scientemente o empiricamente fatto da Hipp, sia stato l’introduzione della seconda molla, non del secondo magnete, la cui funzione, in fin dei conti, fu solo quella di rendere più pratica – e non già più precisa – l’esecuzione delle misure[110]. In altri termini penso che Hipp, soddisfatto dei risultati del suo relè (vedi Cap. 4), abbia pensato di adottare la soluzione tecnica della doppia molla anche nel suo primo cronoscopio (a una sola coppia di elettromagneti) e che, probabilmente, solo in corso d’opera gli sarà venuta l’idea, certamente pratica ed elegante, di raddoppiare anche i magneti.
A riprova del sottovalutato ruolo della doppia molla faccio rilevare che è impreciso parlare di duplice comando della posizione dell’armatura, giocando, indifferentemente, sulla corrente elettrica e sulla tensione delle molle, come lascia intendere Titchener[111]. Infatti nel cronoscopio di Hipp le condizioni di start/stop si ottengono solo energizzando e de-energizzando di colpo il magnete, mentre non c’è nessun dispositivo di comando per la carica e la scarica immediata delle molle.
7. Il cronoscopio di Buccola[112]
Quando, nei brevi anni a cavallo del 1880, passò[113] quella “meteora”[114] che risponde al nome di Gabriele Buccola, in Europa già da tempo molti scienziati – Donders, Wundt, Exner, Hirsch, Kries, Auerbach, Kraepelin, Binet e altri[115] – lavoravano con il cronoscopio. In Italia invece, salvo parziali, e non originali, ricerche di A. Herzen, M. Schiff e A. Mosso, nessuno si era occupato di problemi psicometrici[116]. E nessuno, credo di poter aggiungere, se ne occupò – per lo meno approfonditamente – dopo la morte di Buccola[117].
Il dibattito, ormai secolare, tra le due psicologie, quella applicata, scientifica, tecnica, sperimentale, con i cronoscopi, per intenderci, e quella speculativa, teorica o teoretica, filosofica, introspettiva è troppo noto – e troppo sterile – per dedicargli più di un paragrafo. In Italia ci sono stati grossi nomi – Morselli, Aliotta, Gemelli, Musatti, ecc. – che pur iniziando nei laboratori, con l’umiltà e l’ingenuità degli sperimentalisti, e qualcuno, magari, proseguendo un po’ sulla strada di Buccola[118], poi, al dunque, attratti forse dalla chimera di una effimera fama, hanno virato verso mari di più facile navigazione e porti più sicuri[119]. Altri minori, come Masci[120] o Consoni[121], hanno ammesso candidamente di non aver mai visto un cronoscopio, il primo, o lo hanno sconsigliato perché troppo costoso e di difficile maneggio, il secondo. Buona parte degli psicologi, infine, ha abbandonato i cronoscopi e ha sposato il “metodo grafico”, un compromesso onorevole capace, quanto meno, di garantire la patente di scientificità e quindi di rispettabilità[122].
La Fig. 8 è una vecchia foto[123] del laboratorio di psicologia sperimentale istituito nel 1879 da Buccola nel manicomio S. Lazzaro di Reggio Emilia. Con un po’ di buona volontà si intravedono il cronoscopio di Hipp, in un armadio, e, sul tavolo, il “dispositivo universale di interfaccia”, come l’ho definito altrove, per produrre gli stimoli, di vario tipo, e per collegare tasti, cronoscopio e pile[124]. Probabilmente questo cronoscopio era un vecchio modello perché al Congresso medico di Modena del 1882 fu annunciato che “lo studio sperimentale della durata dei processi psichici, incominciato or sono due anni, dal Dott. Buccola nell’Istituto psichiatrico di Reggio riguardo alla durata delle percezioni elementari, venne da lui continuato col Prof. Morselli nell’Istituto psichiatrico di Torino ricercando il tempo fisiologico nelle percezioni complesse. Lo strumento adoperato per calcolare il tempo di reazione fu il cronoscopo di Hipp, colle ultime modificazioni portategli dal suo inventore. Essi si sono proposti di determinare la durata della percezione dei simboli grafici del linguaggio: lettere dell’alfabeto e cifre”[125]. Un altro cenno su queste ricerche, incompiute per la prematura morte di Buccola, si trova al cap. XI de “La legge del tempo nei fenomeni del pensiero”[126]. L’interesse del grande alienista per il cronoscopio nuovo modello (a quattro elettromagneti) è testimoniato anche da due lettere, entrambe del 1881 (?), una del fisiologo torinese Angelo Mosso[127] e l’altra dello psichiatra Enrico Morselli[128]. È un fatto comunque che Buccola usò il cronoscopio di Hipp in almeno tre campi di ricerca: i tempi di reazione, il senso del tempo[129] e gli studi sulla manoscrittura[130].
Se, come abbiamo detto, in genere gli psicologi non sapevano niente di telegrafia, lo stesso non si può dire per Buccola. A prescindere dal fatto che era un “fenomeno” e che si intendeva di tutto, egli conosceva benissimo l’elettrofisiologia[131] e in ogni pagina dei suoi lavori traspare la ferma convinzione del “sussidio inestimabile” della corrente elettrica alla ricerca scientifica. Tutte le descrizioni tecniche delle apparecchiature usate – e molte erano anche di sua progettazione – tradiscono senza alcun dubbio una conoscenza profonda e di prima mano dell’elettricità, e dire elettricità a quei tempi, ripeto, voleva dire telegrafia. Infine, quando descrive il cronoscopio, ha chiarissimo il problema ingegneristico della tensione della molla antagonista che lavorava “contro” la corrente, la cui costanza lui monitorava sempre, con una bussola[132] a 32 giri. Mi sembra quindi non molto azzardata la mia ipotesi che egli, riferendosi ai perfezionamenti del nuovo cronoscopio, implicitamente si riferisse alle due molle e non ai due elettromagneti.
Ma Buccola aveva una predilezione particolare per gli studi sulla sensibilità tattile, perché vi dedica parecchi saggi. Nell’ultimo[133], in particolare, è illuminante la minuzia di alcuni particolari del suo estesimetro: la sensibilissima molla a spirale, la vite micrometrica, l’asticina di platino che bastava premere “leggierissimamente” per metterla a contatto di una piastrina metallica, posta a distanza così piccola da permettere appena il passaggio di una striscia di carta[134]. In definitiva questo strumento poteva essere pensato, se non addirittura adoperato (fissandone ad esempio il manico su un tavolo e manipolandone, col polpastrello, la punta mobile), come un normale tasto telegrafico[135]! E mi piace credere che le future ricerche che Buccola aveva in programma dovessero o potessero riguardare proprio il Morse tattile, quello acustico e quello ottico[136].
Circa il Morse tattile, lo studio può essere fatto sia in trasmissione (tattilità del sistema mano-martelletto che manipola l’incudinetta del tasto), sia in ricezione[137]. Buccola poi, per non dire altro, conosceva bene le considerazioni dello stimatissimo Herzen sui movimenti delle dita dei prestigiatori giapponesi o delle gambe degli acrobati, tanto veloci da sfuggire all’osservazione del più attento osservatore[138].
Il Morse fonetico, come già accennato, si riceveva a udito con dei martelli sonori detti sounder o parleur (Fig. 2), che non erano altro che i soliti elettromagneti ricevitori, la nostra vecchia conoscenza! Solo che i rumori o tonfi dei colpi dell’armatura, il “martello”, sul nucleo del magnete[139], l’“incudine”, che in genere si cercava di attutire perché indesiderati, in questo caso venivano esasperati con tutti i mezzi. I ferrovieri americani, a tal fine, idearono dei riflettori parabolici funzionanti come casse di risonanza, supportati da bracci snodabili per dirigere il suono verso l’orecchio dell’operatore[140], quelli italiani invece adottarono soluzioni più spartane, ma più “geniali”, cioè cartocci o “coppettini” di carta[141] saldati con la ceralacca sulla leva della stampante Morse, che amplificavano a meraviglia il ticchettio delle leve.
Infine, per quanto riguarda il Morse ottico, oltre a quello specifico fatto con gli specchi o gli eliografi[142] usati un tempo nella telegrafia militare, basta considerare che alcuni eccellenti operatori, oppure telegrafisti del tutto sordi, potevano ricevere (o “copiare”, come si diceva in America) leggendo con gli occhi i movimenti dell’ancora mobile del sounder[143].
Dopo la morte di Buccola, nel
Come che sia, in questa ricerca Tanzi trovò almeno due risultati inattesi. Pensava
che nelle reazioni ai due accordi o non avrebbe trovato differenze significative
oppure avrebbe trovato una reazione più lenta nel caso dell’accordo molle o
minore che, come è noto, “procede da un
sentimento di leggera mestizia ed è capace di generarlo in quelli che l’odono,
almeno nelle nostre razze Europee”. “E
il dolore, aggiungeva, come un
indizio di trasmissione ostacolata e di funzionamento alterato, dovrebbe,
benché artistico e lieve, tradursi nel tempo di reazione con un rallentamento;
così appunto avviene nel campo delle eccitazioni tattili, che vengono percepite
più tardi se dolorose”. Invece dai suoi soggetti d’esperimento l’accordo
molle, in genere, veniva riconosciuto più presto
e più spesso di quello duro o
maggiore[147].
L’altra sorpresa, essendo più tecnica e quindi più incontrovertibile, ci riguarda più da vicino. Dovendo far partire gli indici cronoscopici in sincrono con il suono, cosa c’era di più semplice che realizzare il contatto elettrico utilizzando le corde del pianoforte (tutte connesse metallicamente) e della stagnola sui martelletti (idem)? Dal dire al fare, però, ce ne corre. Infatti, per avere qualche risultato e far passare veramente la corrente, occorreva smorzare il suono, e in ogni caso “in parecchie ottave l’elasticità dei martelletti, condizione ottima per il suono, costituiva un ostacolo per la corrente, il cui passaggio nell’urto troppo istantaneo non aveva più luogo”[148]. Tanzi allora dovette ricorrere all’escamotage illustrato nella Fig. 9: incollò su ogni tasto del pianoforte un cartoncino con uno spillo verticale e collegò con del filo elettrico flessibile[149] tutti gli spilli; mise poi davanti alla tastiera una specie di vaschetta o grondaia piena di mercurio; e infine collegò elettricamente – in serie – cronoscopio, grondaia, spilli, tasto di reazione[150] e pile.
Tanzi, forse senza averne piena consapevolezza, si era
avvicinato o aveva toccato con mano,
è il caso di dire, il nocciolo di quella vastissima questione tecnico-artistica
nota come problema del tocco: “Quando
il martello percuote più violentemente la corda questa vibra solo in una delle sue
divisioni armoniche e solo nell’attimo successivo, quando il martello si
stacca, il movimento ondulatorio si
propaga a tutta la corda. Se invece la corda è percossa dolcemente
(cioè con minore velocità del martello) la corda ha il tempo di mettersi in
vibrazione prima ancora di
essere abbandonata dal martello e allora il suono risulta molto più dolce e di
colore completamente diverso”[151].
“La
difficoltà maggiore era che siccome appoggiato il tasto lo stesso mezzo che
aveva prodotto il suono era la causa della sua cessazione, bisognava
lasciare subito il dito e fare scattare il tasto”[152].
9. Il cronoscopio di Külpe
Nel catalogo Zimmermann c’era un accessorio (Nr. 1265) denominato Contatto di controllo per cronoscopio di Külpe, modificato da Ach (Fig. 10), con la seguente
didascalia: Per
controllare i tempi cronoscopici dello strumento Nr. 1260/61[153] viene
messa una punta di platino sopra i magneti, isolata dal cronoscopio. Appena il
meccanismo viene messo in funzione, essa viene a trovarsi in contatto con l
Il filosofo Oswald Külpe è noto tra gli storici della psicologia per aver fondato la celeberrima scuola di Wurzburg[154], il movimento dissidente nei confronti dello sperimentalismo di Wundt e che si sviluppò a cavallo del secolo scorso facendo molti proseliti e, forse, non pochi danni[155]. Lungi dall’impelagarmi nel groviglio delle polemiche, delle lotte tra i vari laboratori, non solo tedeschi ma anche del resto d’Europa[156] e di quelli nascenti oltreoceano e i cui promotori si erano formati quasi tutti a Lipsia, alla scuola di Wundt[157], mi limiterò al dominio dei fatti e, nella fattispecie, a quello dei dati scientifici.
Le uniche analisi tecniche approfondite del cronoscopio di Hipp, e che tuttavia per certi versi ne avviarono il declino, furono fatte, nel 1905, da Narziss Ach[158] e, subito dopo, da Beatrice Egdell[159], entrambi provenienti dalla scuola di Wurzburg. Il primo lavoro, non conoscendo il tedesco, non l’ho neanche visto, tuttavia, poiché la Edgell vi fa ampio riferimento, credo di averne compreso la metodologia e i risultati in maniera sufficiente per azzardarmi a darne un rapido cenno. Ebbene Ach, facendo certo tesoro dei contributi dei suoi colleghi a Wurzburg, ma soprattutto della sua precedente esperienza a Gottingen, presso il laboratorio di G. E. Muller, di cui era stato assistente[160], mise mano ad uno studio organico e soprattutto sperimentale sul cronoscopio di Hipp. In collaborazione con Külpe, utilizzando strumenti meccanici di alta precisione, affidabilissimi diapason, sofisticati tasti telegrafici doppi (o anche tripli) costruiti ad hoc trasformò, in certo senso, il cronoscopio in un cronografo, semplicemente mettendo un contatto elettrico sulla piccola vite (c in Fig. 10 e y in copertina) che spinge l’alberino (spindle) di innesto della “frizione” k2-h-k1, già descritta, che avvia i rotismi degli indici, azionando con questo contatto i chimografi. Questa tecnica lo condusse a risultati simili, grosso modo, a quelli della Edgell.
Anche la Edgell trasferì i dati
del cronoscopio sul chimografo di Ludwig, ma con tecnica diversa.
Incollò all’armatura mobile m (vedi disegno di copertina)
una leva di
Contando pazientemente i cicli di sinusoidi e apprezzandone ad occhio le frazioni questi grafici si possono tradurre nei seguenti tempi (tutti in msec):
|
Innesto B - α |
Disinnesto M - ω |
Lettura α - ω |
Tensione molla 11 |
11 |
15 |
71 |
Tensione molla 9 |
13 |
13 |
67 |
Quindi diminuendo la tensione della
molla la lettura diminuisce, ma se si lavora con l’elettromagnete inferiore (sistema a corrente di lavoro) accade il
contrario. Infatti bisogna tener conto anche della molla a lamina che agisce
direttamente sulla frizione e dell’altro sbilanciamento,
difficilmente evitabile pur con contrappesi, della forza di gravità, dal che si
comprende l’enorme importanza e il ruolo della forza antagonista complessiva.
Nei grafici si notano bene anche i lunghissimi tempi di rimbalzo o di
vibrazione meccanica dell’armatura, sia all’attacco che allo stacco[163].
Considerato che la leva scrivente è lunga
La linea centrale dei grafici, il cui incrocio con la traccia
dell’armatura “in volo”, determina i punti α
e ω è di certo, come
onestamente conviene la Edgell, una linea di mezzeria
solo presunta, anche se, forse per
scrupolo scientifico, non veniva tracciata sic
et simpliciter a metà strada (nella fattispecie
Dopo aver dichiarato di non capire i motivi per cui molti sperimentatori usavano il cronoscopio con entrambe le molle in tensione, la Edgell aggiunge: “Poiché esse tirano in direzioni opposte una controbilancia l’altra, e il fattore effettivo nel movimento dell’ancora, allo stacco, è la loro differenza di tensione. Noi abbiamo lavorato sopra queste molle in ogni possibile combinazione (10 letture ognuna), ed abbiamo trovato che la lettura cronoscopica è approssimativamente la stessa per una data differenza della tensione delle molle (come espressa sulle scale), comunque quella differenza era ottenuta. Ad esempio, con le molle a 7 e 0, oppure a 9 e 2 oppure a 15 e 8, si aveva sostanzialmente lo stesso valore (a parte la fatica elastica), con la stessa variazione media. Conseguentemente non vi è nessun vantaggio nel tendere la molla che tira nella stessa direzione della corrente. Vi è invece un ovvio svantaggio a fare così. Le molle sono soggette a fatica, e il loro ritorno alla posizione di riposo (recovery), sebbene al momento chiaramente completo, a lungo andare è imperfetto. Questa fatica appare presto ed è più pronunciata quando la tensione è alta; di qui lo svantaggio di usare tensione non necessaria lavorando con entrambe le molle tese. Ciò si vede in due modi. Primo, il valore delle letture cambia nella stessa direzione come accadrebbe se la tensione della molla fosse ridotta; secondo, la loro variazione media aumenta. Ciò è specialmente evidente nel cronoscopio A, che è stato usato piuttosto duramente durante gli ultimi 15 mesi e nel quale le molle sono distintamente meno elastiche e più affaticate che non un anno fa. In minor grado è stato anche notato nei cronoscopi B e C, ma è evitabile in tutti e tre gli strumenti lavorando con moderate tensioni di molla”. Indi la Edgell, pur non avendo le idee molto chiare, riconosce un incontrovertibile, sia pur trascurabile, aumento della variazione media degli errori di lettura, e decide di lasciar perdere queste indagini, dal momento che l’uso di una sola molla aggirava tutti i problemi – sicuramente peraltro dibattuti ancor oggi – dell’affaticamento elastico[167].
Esaminare in dettaglio tutti gli altri parametri studiati nel lavoro di Edgell e Symes sarebbe troppo lungo e fuori dal nostro tema e pertanto ci limiteremo a brevi cenni. Gli esperimenti per prima cosa confermarono che i tempi di attacco e stacco dell’ancora (e di conseguenza di innesto e disinnesto della frizione) non erano quasi mai uguali, come del resto si sapeva da tempo, perché la forza attrattiva di un magnete è diversa dalla forza di tenuta. Stranamente poi alcuni autori trovavano maggiore il tempo di attacco e altri quello di distacco. Quindi la prospettiva inseguita da tutti era quella di equalizzare queste due durate o “latenze”.
La Edgell, ricordando che Wheatstone pensava che per rendere uguali questi due tempi la cosa migliore era una grande corrente di attacco e una piccola corrente di rilascio, calcolò corrente e tempo di attacco utilizzando la formula di Helmholtz del transitorio RL (ben nota a tutti gli studenti di elettrotecnica), con l’andamento esponenziale della corrente, in cui compare la costante di tempo τ = L/R (essendo R la resistenza ed L l’induttanza del circuito) e capì che per diminuire τ, non potendo intervenire su L, si doveva aumentare R (con una resistenza zavorra[168]), cosa che in effetti gli esperimenti confermarono[169].
Allo stacco invece la bestia nera era il magnetismo
residuo, che grosso modo si
manifestava in ragione diretta alla durata delle misure, specie se consecutive,
introducendo una variabile incontrollabile. L’unico sistema per combatterlo era
invertire con adatto commutatore (di Pohl) il verso della corrente dopo
ogni misura. La Edgell per separare l’influenza
perturbatrice del magnetismo residuo dalle altre forze in gioco (inerzia meccanica, ecc.) ricorreva alla
tecnica di un attacco artificiale (ancora trattenuta da un capello…), ma con
risultati comunque insoddisfacenti perché, come è noto, la curva dinamica di
rilascio è incontrollabile quando l’energia magnetica si disperde per arco[170].
Poi la Edgell, riprendendo gli studi di Cattell, Munsterberg, Kirschmann e altri, sperimentò con il metodo di controllo indiretto del martello di Wundt, ottenendo più o meno risultati concordanti.
L’accennato errore di “ottava”, infine, capitava ogni tanto
e consisteva nel salto di frequenza di vibrazione, dalla fondamentale ad una
armonica (da
10. Il cronoscopio di Doniselli
“Gli appunti di cui è
tuttora suscettibile il cronoscopio di Hipp, possono brevemente riassumersi: esso non
fornisce delle cifre d’un valore assoluto se non quando le sue indicazioni per
una data unità di tempo siano state fatte collimare colle indicazioni di altri
apparecchi di riscontro capaci di registrare tale unità di tempo nel suo valore
assoluto – tali sono gli apparecchi a diapason, a caduta di grave o di martello
–; ove le indicazioni fornite dal cronoscopio e dall’apparecchio di riscontro
non coincidano, si richiede la delicata manovra degli appositi congegni di
regolazione di cui l’orologio stesso è provveduto - tutto questo naturalmente
nella presupposizione fondamentale che l’andamento dell’orologio,
indipendentemente dal gioco dell’asse degli indici a cui esclusivamente tali
congegni sono devoluti, sia esattamente regolata dal vibratore, che cioè il
tono musicale di questo, corrispondente a 1000 oscillazioni al secondo, si
mantenga costante: tali manovre tendono a stabilire un giusto antagonismo fra l’intensità della corrente destinata
all’elettromagnete e la tensione della spirale d’acciaio che deve ricondurre
l’ancora alla posizione primitiva appena sia interrotta la corrente,
antagonismo dal quale dipende l’esattezza dei dati, esattezza tuttavia che si
limita soltanto a cifre poco discoste da quella esprimente la durata del tempo
scelto per il riscontro”[171].
Così inizia un interessante articolo tecnico, quasi contemporaneo ai lavori di Ach e Edgell, di un giovane assistente fisiologo italiano, Casimiro Doniselli, che chiuderà la carriera, verso il 1950, come direttore del Laboratorio di psicologia sperimentale di Milano[172]. Doniselli era stato incaricato, dal primario Albertoni, di testare i tempi di reazione di un paziente che aveva subito l’asportazione di una parte del cervello e che presentava paralisi motoria, una quasi totale perdita di sensibilità da un solo lato del corpo e, di conseguenza, tempi di reazione abnormemente lunghi[173]. Furono le circostanze di questo caso a indurre il giovane fisiologo allo studio del cronoscopio.
Negli elettromagneti, a causa delle traversie o “peripezie” subite durante l’uso, rimane del magnetismo[174] nocivo che però si può dissipare istantaneamente con una debolissima corrente di senso contrario a quella, anche molto più intensa, che l’aveva generato. Ma Doniselli, non volendo usate i comuni invertitori, troppo lenti e inaffidabili, modificò il cronoscopio (Zimmermann nuovo modello) togliendone le molle, sostituendo l’armatura di ferro dolce con una magnetizzata[175] e collegando in parallelo gli avvolgimenti degli elettromagneti M ed M’ in modo che ambedue i poli della sbarra magnetica SN fossero respinti da M e attratti da M’:
Con le polarità di questa Fig. 12 l’armatura, che in assenza di campi magnetici si trova in equilibrio indifferente, con sole forze sinergiche, e non antagoniste, si sposta nel senso indicato dalla freccia, mentre, invertendo le polarità, vola nell’altra posizione in un tempo “praticamente nullo”. Ma bisognava risolvere due difficoltà: rendere istantanea la commutazione e assicurarsi che la meccanica dell’ancora colle sue leve e l’alberino (spindle) degli indici fosse bilanciata ed esigesse forze uguali per compiere i suoi movimenti con uguale velocità nelle due direzioni opposte.
Il primo problema Doniselli lo risolse con un insolito, ed energeticamente dispendioso, collegamento in controfase di due pile, in modo che le rispettive correnti di uguale intensità si “impegnassero” e dalla loro somma algebrica risultasse un perfetto equilibrio[176]. Per il bilanciamento meccanico – divenuto non più trascurabile una volta tolte le molle – si accontentò di una equilibratura grossolana[177] alimentando il sistema con una sola Daniell (0,95 V) e apprezzando, e correggendo, ad occhio l’eguaglianza delle lente escursioni nei due sensi dell’armatura.
I risultati superarono le sue aspettative perché da ripetute prove ottenne grande costanza delle cifre. Inoltre, più impiegava correnti intense, più rare e trascurabili risultavano le deviazioni dalla cifra teorica.
11. Il cronoscopio di Schulze
Una soluzione simile a quella di Doniselli, ma molto più elegante e funzionale, fu invece trovata da Rudolf Schulze, che la descrive in un’appendice del suo famoso libro Experimental Psychology and Pedagogy[178]. La modifica, talmente semplice e radicale da essere coperta da brevetto, fu industrializzata da Zimmermann, nel cui catalogo fu inserito il “Cronoscopio di Schulze con magnete polarizzatore”[179]:
Si riconosce il retro del cronoscopio di Hipp con le leve e cordicelle di avvio del clockwork (a destra) e il contrappeso dell’ancia vibrante a 1000 Hz (in alto), mentre non c’è più traccia delle molle e degli elettromagneti. Al loro posto c’è un solo elettromagnete verticale (rocchetti A e B) situato all’interno del magnete permanente a ferro di cavallo M che funge da “polarizzatore”, cioè fa si che entrambe le espansioni polari superiori dei rocchetti siano sempre, mettiamo, dei poli Nord. Tra questi due poli può basculare un’armatura, imperniata al centro e collegata, tramite una leggera leva G, allo spindle W che ormai conosciamo. L’armatura-basculla può assumere indifferentemente solo due posizioni, perché sollevandola dal polo (Nord) di destra si attacca saldamente al polo (sempre Nord) di sinistra (sistema bistabile).
Naturalmente il “basculamento bistabile” descritto non avviene a mano, ma per mezzo di correnti, e precisamente di correnti indotte - non di usuali correnti continue, si badi. Queste sono prodotte da un trasformatore J (o rocchetto d’induzione che dir si voglia), situato sotto la base dello strumento, la cui bobina secondaria è collegata all’elettromagnete polarizzato, mentre quella primaria va ad una pila e al tasto-trasmettitore di comando (che può essere associato, per esempio, al martello sonoro). Al making della corrente primaria al magnetismo permanente dei poli A e B si viene a sommare per un istante quello dell’induzione elettromagnetica col risultato che il magnetismo di A aumenta e quello di B diminuisce. L’ancora allora scatta nell’altra posizione, rimanendovi stabilmente, e spingendo lo spindle fa partire gli indici. Al breaking la situazione si rovescia, l’ancora scatta di nuovo e gli indici si fermano.
Ai fini della precisione è assolutamente irrilevante sia la durata dei contatti[180] sia la durata della misura. Nelle reazioni con persone sane, pazzi, primitivi, bambini, animali, ecc. si raggiunge lo stesso grado di accuratezza e, soprattutto, lo strumento è affidabile anche con tempi estremamente corti, dove Hipp falliva.
Il cronoscopio di Schulze può lavorare per molto tempo e con diverse forze di corrente, sempre con la stessa precisione. È così semplice che può usarlo chiunque. Non occorrono né i fastidiosi regolaggi, né i test di controllo, né il commutatore di Pohl. Un altro grande vantaggio è che negli elettromagneti non circolerà mai una corrente continua, anche se l’interruttore rimanesse sempre chiuso e “chiunque abbia lavorato col cronoscopio di Hipp conosce le conseguenze che una magnetizzazione permanente ha sulla precisione dei tempi”, aggiunge Schulze[181].
In definitiva il sistema Schulze non è altro che un trigger antirimbalzi di tipo elettromagnetico e merita veramente l’appellativo di “Nuovo cronoscopio” datogli dal suo inventore perché costituì uno spartiacque nel passaggio dal cronoscopio elettromagnetico al cronoscopio elettronico e, più in generale, e in estrema sintesi, dall’800 – secolo elettrico, senza trigger, al ‘900 – secolo elettronico, con trigger.
12. Il cronoscopio di Saffiotti
Durante la prima guerra mondiale presso l’ufficio psicofisiologico dell’aviazione militare di Torino, diretto dal prof. Herlitzka, si fece uso intensivo del cronoscopio di Hipp modificato da Doniselli per misure psicometriche sui candidati all’aviazione e sui piloti[182], nella convinzione che i tempi fisiologici di reazione fossero parametro determinante per la guida dell’aeroplano, il maneggio di mitragliatrici e lo sgancio di bombe[183]. Di quell’esperienza abbiamo anche due resoconti di F. Umberto Saffiotti, caporeparto in quell’ufficio verso la fine della guerra[184].
Poiché il cronoscopio di Doniselli era affetto da “eccessive e troppo frequenti cause di errori”, imputabili “principalmente alla tensione delle due molle opposte che agiscono sulla elettro-calamita, oltre che alla tensione della corrente elettrica adoperata”, il Saffiotti decise di “ritornare al dispositivo originale di Hipp, semplificato dalla soppressione della molla inferiore, per cui l’elettrocalamita è tenuta sollevata opportunamente dalla molla superiore, oltre che dal peso di graduazione corrispondente: essa viene attratta sulla coppia dei rocchetti inferiori solo al passaggio della corrente”[185]. Tale configurazione diciamo classica (make-break sull’elettromagnete inferiore), a detta del Saffiotti, si rivelò di una precisione “quasi ideale”, tanto che i controlli quotidiani del cronoscopio (con un apparecchio a caduta) non davano mai un errore superiore al millesimo di secondo.
Le critiche sulla validità e sulla metodologia dei tempi di reazione già all’epoca cominciavano a mostrare la loro consistenza per cui Saffiotti, nel presentare sfilze di numeri o tabelle di perequazione, e nell’interpretare gli indici di variabilità o il grado di omogeneità delle serie di misure era molto prudente. Era difficile, per esempio, discernere, sulla sola base dell’equazione personale, tra uno stato di transitorio esaurimento nervoso e uno di instabilità psichica, sul ruolo del preavviso o della ritmicità degli stimoli, ecc. Però il responso cronometrico sui tentativi di simulazione dei “lavativi”, cioè di coloro che cercavano di ottenere una inabilità definitiva o temporanea, era abbastanza sicuro, “perché non è possibile regolare i propri processi così finemente da allungare artatamente le proprie reazioni di quel tanto (pochi millesimi di secondo) per cui è lecito il giudizio di inabilità”[186].
Eppoi bisogna considerare anche gli errori commessi dall’esaminatore. Con molto scrupolo Saffiotti li passa in rassegna: quelli banali di parallasse, dipendenti dall’angolo di lettura[187]; quelli per stanchezza o astenia dei muscoli oculari; quelli di arrotondamento[188]; le letture spurie, di distrazione, ecc., concludendo, comunque, che rientrano nella normale curva statistica della distribuzione degli errori (gli errori piccoli più frequenti di quelli grandi) e non pregiudicano il valore e l’attendibilità dei protocolli adottati.
La cosa infine più sorprendente è il milione di letture cronoscopiche effettuate! Ed è interessantissimo e fecondo di conseguenze ciò che l’autore aggiunge: “In noi si era formata tale un’abitudine alla lettura, che ci consentiva financo, in alcune prove di saggio, di poter raggiungere la rapidità di compiere delle determinazioni di reazione (maneggiando i tasti di stimolo e dettando le letture) in rapporto di circa 50 letture al minuto. Per tal modo, e per la continua pratica dell’apparecchio, noi potevamo già percepire dal solo tempo di scatto[189] della lancetta del quadrante superiore, senza mettere in movimento il sistema di orologeria, se un soggetto si adattava immediatamente o no a reagire con i tempi normali”.
13. Il cronoscopio di Hughes
Mi piace chiudere questa rapida rassegna sul cronoscopio e su alcuni dei suoi utilizzatori considerando la presumibile e inavvertita piccola “scoperta” di Saffiotti – che anche il cronoscopio, come il Morse, si può “leggere” ad orecchio – come un canto del cigno della vecchia psicologia, dato che, dopo la prima guerra mondiale, si può dire, questa disciplina fu colpita da un trauma paragonabile a quello della fisica: il passaggio da quella classica a quella quantistica, dalla certezza positiva e sensata del laboratorio al decadentismo delle spesso sterili teorie.
Il cronoscopio di Hipp, abbiamo cercato di dimostrare, più e oltre che un orologio è un sistema di telegrafia, intesa nel suo significato pregnante di scrittura veloce[190] e non in quello usuale di scrittura a distanza. Sui fili telegrafici – e a maggior ragione anche senza i fili, con la radio – verba volant, mentre gli scripta, consegnati ai messaggeri, manent, perdono tempo nel cambio dei cavalli nelle stazioni di posta, nei relè[191]. Velocità e dinamica sono le chiavi per penetrare l’essenza del cronoscopio, la sua ragion d’essere, mentre i normali orologi misurano il fluire, dirò così, “statico” del tempo. Non a caso Buccola definiva dinamometro[192] il cronoscopio!
Nella lettura cronoscopica, intendo, è errato considerare separatamente l’attacco, il tempo utile e lo stacco, perché queste tre fasi sono interconnesse e dinamicamente dipendenti, non fosse altro perché sono dello stesso ordine di grandezza (pochi millesimi o centesimi di secondo). L’approccio giusto per la misura di questi tempi infinitesimali comporta allora non tanto una competenza, quanto una mentalità “da telegrafista”. Ritengo perciò che le misure veramente cronoscopiche non sono quelle fatte con l’“orologio” di Hipp, soprattutto dato in mano a psicologi, ma quelle fatte con un vero telegrafo, e precisamente col telegrafo stampante Hughes[193].
David Edward Hughes[194], l’uomo che, a ragione, è stato definito il principe dei telegrafisti e che “con quattro bullette, qualche ritaglio di legno e cartoncino ci ha dato il microfono”[195], nel 1864, “spinto dal desiderio di costruire elettromagneti che fossero appropriati il meglio possibile ai bisogni della telegrafia, fu indotto da qualche risultato contraddittorio a indagare più a fondo sulle leggi conosciute e sconosciute che reggono questi organi”[196]. Il risultato della sua fatica è difficile da riassumere. Mi limiterò a dire che, per cercare la durata ottimale affinché la corrente producesse nel nucleo di ferro dolce del magnete il massimo effetto, Hughes fece esperimenti sul suo telegrafo, dopo averlo trasformato, con poche modifiche, in un cronoscopio. I grafici che riporta somigliano alle curve esponenziali di Helmholtz o Fechner già accennate (Cap. 9), ma solo apparentemente perché, se in entrambi la variabile indipendente, in ascisse, è il tempo, nelle ordinate di Hughes non ci sono parametri elettrici[197], ma direttamente la forza cercata (in gr) e, inoltre, la durata del periodo transitorio, stranamente, è sempre costante (circa 1/16 sec).
Ma il contributo di Hughes più incontrovertibile, e più istruttivo, con cui voglio concludere questa mia breve galoppata sul cronoscopio, riguarda il (relativamente) famoso relè Hughes, il cuore e uno dei “segreti” del suo telegrafo, che egli inventò nel 1849 e che poi descrisse con estrema chiarezza[198].
Si tratta di un elettromagnete A che, essendo polarizzato dalla potente calamita F, tiene attratta sui suoi due poli l’armatura B, che chiude il circuito magnetico. Questa armatura, o ancora, è collegata ad un braccio di una leva, imperniata in C, mentre all’estremo dell’altro braccio agisce un peso D (o eventualmente una molla). L’altra leva E costituisce il detent o il meccanismo su cui si esercita la forza meccanica dell’armatura. Per aumentare l’impulso di questa forza al momento del rilascio il detent non si lascia poggiato sull’armatura, ma si pone ad una opportuna distanza, regolata dalla vite micrometrica F (Fig. 14).
Il magnete o relè Hughes, in altri termini, funziona al contrario del normale elettromagnete, perché l’armatura è già attratta prima dell’invio di corrente. Invece, mandando corrente – nel verso opportuno – il magnetismo ai poli diminuisce e l’ancora viene istantaneamente rilasciata[199]. La forza D, divenuta preponderante, scaglia allora l’armatura B, con notevole “forza viva”, sulla leva E.
Il rendimento del sistema è ottimale, perché l’effetto elettromagnetico, com’è noto, è tanto maggiore quanto più l’armatura è a contatto coi poli. Al momento della disattrazione, quindi, il magnete Hughes funziona come un grilletto o un trigger per il peso D – o una equivalente molla –, preventivamente caricati o “armati”[200], e la corrente di comando praticamente non compie lavoro essendo il suo ruolo soltanto quello di un “segnale” di tipo radioelettronico[201].
Io devo all’elettromagnete Hughes l’aver capito la differenza tra il funzionamento statico della leva di Archimede – o del suo “braccio” – e il funzionamento dinamico delle leva del telegrafista – o del suo “sbraccio”.
E se un relè è tanto più sensibile e rapido quanto più è in tensione, o polarizzato, allora forse l’elettromagnete Hughes potrà gettare qualche luce anche sul fallimento dei tentativi, risalenti a Matteucci, di eliminare la molla antagonista e sul segreto, se segreto c’è, della doppia molla.
Ach, N.; 36; 37; 42
Albertoni, P.; 42
Algeri, G.; 30
Aliotta, A.; 30; 32
Archimede; 50
Artom, A.; 8; 17; 18; 19
Auerbach; 30
Avery, T.; 20
Banissoni, F.; 30
Bell, G.; 26; 49
Benschop; 26
Benussi, V.; 37
Berliner, E.; 27
Berrettoni, V.; 7; 30; 37
Bigazzi, M.; 3
Binet, A.; 30
Bonaventura, E.; 37
Borino, D.; 14
Bourseul, C.; 8; 9
Bowers, B.; 23
Bradford, C. I.; 22
Breguet, A.; 9
Breguet, L.; 3; 5; 8; 9; 10; 12; 14;
15; 16; 19; 22; 24
Brenni, P.; 3
Buccola, G.; 2; 3; 6; 8; 10; 23; 27;
30; 31; 32; 33; 34; 40; 46; 48
Bunsen, R. W.; 4
Busca, M.; 16
Canestrelli, L.; 27
Casella, A.; 35
Cassinis, U.; 28
Cattell, J. M.; 41
Cecchi, F.; 17
Cecconelli, A.; 38; 41
Chappe, C.; 9; 48
Claparede, E.; 37
Colucci, C.; 37
Cominoli, C.; 33
Consoni, F.; 30
Cooke, W.; 22
Corino, L.; 8; 31
Corradi, C.; 27
Cremona, F.; 3; 21
D’Arsonval, J. A.; 27
Daniell, J. F.; 4; 43
Dazzi, N.; 30
De La Rive, A.; 8; 12; 14; 19
De Sanctis, S.; 27; 37
De Sarlo, F.; 37
Delabarre, E. B.; 26
Dell’Oro, G.; 8; 20; 21; 26
Digney; 17
Donders, F. C.; 30
Doniselli, C.; 3; 42; 43; 44; 46
Draaisma; 26
Du
Moncel, T.; 6; 8
Edelcrantz, A. N.; 9
Edison, T. A.; 5
Egdell, B.; 37; 39
Exner; 30
Favarger, A.; 22; 23; 24
Fechner, G. T.; 49
Ferranti, Z.; 20
Ferrari, A.; 35
Ferrari, G. C.; 30
Ferrini, R.; 17
Froment, P. G.; 8
Gaeta, A.; 23; 30; 31; 32
Gemelli, A.; 30; 36; 46
Gentilli, A.; 8; 27; 46
Gloesener,
M.; 17
Gonella, G. B.; 9
Gradenigo, G.; 27; 46
Grove, W.; 4
Guicciardi, G.; 30
Gundlach, H.; 22; 23; 25; 29
Halske; 5; 8
Haupt,
E. J.; 7; 37
Helmholtz, H.; 40; 49
Henley, W.; 26
Henry, J.; 5
Herlitzka, A.; 46
Herzen, A.; 30; 33
Hipp, M; passim
Hirsch,
A.; 23; 30
Hughes, D. E.; 3; 5; 8; 20; 27; 48;
49; 50
Ingram, D.; 20
James, W.; 34
Javal, E.; 8
Jhering, R.; 40
John; 17
Kiesow, F.; 37
Kirschmann, A.; 41
Kostic,
A.; 26
Kraepelin, E.; 30
Kreusi; 5
Kries; 30
Külpe, O.; 3; 36; 37
La Barbera, N.; 16
La Grutta, V.; 3
Lange, L.; 26
Lanzoni, L.; 33
Leone, A.; 49
Loir, M.; 22
Lucidi, M.; 8; 14
Ludwig; 37
Lurija, A.; 28
Magrini, L.; 4
Marey, E. J.; 22
Masci, F.; 30; 32
Matteucci, C.; 4; 8; 10; 15; 17; 19;
21; 50
Moreau, L. R.; 20
Morse, S.; passim
Morselli, E.; 30; 31; 32
Mosso, A.; 30; 32
Muller,
G. E.; 7; 37
Munro, J.; 49
Munsterberg, H.; 41
Musatti, C.; 30
Namias, A.; 44
Patrizi, M. L.; 24; 30; 31; 35
Pavese, R.; 8
Peltier, J.; 5
Perera, T.; 3; 7; 19; 26
Pierpont, W.; 3; 20
Pizzoli, U.; 42
Pohl; 41; 45
Ponsicchi, C.; 35
Ponzo, M.; 27; 37
Prescott,
G. B.; 6
Reis, P.; 8
Ronchi, V.; 8
Ronco, A.; 36
Saffiotti, F. U.; 3; 46; 47; 48
Salvati, L.; 16; 41
Sanford, E. C.; 22; 23
Scateni, A.; 5
Schaffner, P.; 8
Schiff, M.; 30
Schneebeli,
H.; 29
Schraven, T.; 3; 23; 38
Schulze, R.; 3; 44; 45
Sergi, S.; 46
Serpieri, A.; 5; 8
Siemens; 5; 8; 18; 19; 43
Stefanini, A.; 27
Steinheil, C. A.; 4; 5
Symes, W. L.; 37; 40
Tacchini, P.; 27
Tambroni, R.; 30
Tamburini, A.; 30; 32
Tanzi, E.; 3; 34; 35
Ternant,
A. L.; 33
Thompson, S. P.; 16; 49
Titchener, E. B.; 6; 22; 23; 24; 25;
27; 28; 29; 34
Todorovic,
D.; 26
Tonnini, S.; 34
Treves, Z.; 42
Vianisi, L.; 13
Vierordt; 8; 25; 27; 28; 32
Viredaz, M.; 4
Wead,
C. K.; 35
Wheatstone, C.; 5; 8; 18; 22; 37; 40
Woodworth,
R. S.; 28
Wundt, W.; 3; 6; 7; 22; 25; 26; 27;
30; 34; 36; 37; 41
Zimmermann, E.; 25; 26; 36; 43; 44
[1] Sugli orologi
elettrici segnalo l’ottimo sito di Michel Viredaz.
[2] La Grove, la Bunsen, la Daniell, quella “a
zampa d’oca”, ecc., in attesa dell’alimentazione di rete, o “stradale”,
come si diceva, che con la stabilità dei suoi 60 Hz, avrebbe certo dato più
affidamento.
[3] Dalla funicella di collegamento, come la
chiamava Magrini, che poteva essere anche un solo conduttore, dopo la
scoperta di Steinheil e gli
esperimenti di Matteucci che la terra
poteva fungere da filo di ritorno.
[4] Di
e Dah sono la traslitterazione
usata in America per i suoni rispettivamente del punto (dot) e della linea (dash) Morse, che in Italia invece si sogliono rendere con Ti e
Ta. Alcuni si avventurano a trascrivere anche i tonfi
del sounder
o parleur,
l’antico ricevitore solo acustico, senza stampante, dei segnali Morse (Fig. 2) o del “martello sonoro” usato nei gabinetti di psicologia sperimentale (Fig. 3), con klink
e kalunk o con klink-klink (il
punto) e klink-kalunk (la linea).
Fig. 2 Fig. 3
[5] G. B. Prescott, History, theory and practice of the electric telegraph, 1860. Vedi anche T. Du
Moncel, Exposé des
applications de l’électricité, terza ediz. 1872
[6] Limitatamente “alla loro mano o al loro orecchio”.
[7] La prima, che
colpì molto il ventenne Buccola, è del 1874. L’ultima del 1908.
[8] Era
l’autorevolissima rivista di Wundt su cui si
formarono, e scrissero, tutti i più famosi psicologi dell’epoca. La
denominazione “Filosofia” non deve ingannare perché allora (e anche adesso!) la
psicologia era una scienza a cavallo tra fisiologia e filosofia.
[9] Soprattutto per
quelli come me che non leggono il tedesco. Quest’ignoranza è stata uno dei
maggiori crucci della mia vita. In compenso ho letto avidamente il Titchener, citato, che è un’ottima sintesi delle problematiche
in auge in quei tempi pionieristici.
[10] Il ruolo degli
assistenti di laboratorio già menzionati era determinante. Ritengo utile a
questo proposito segnalare V. Berrettoni, Come si
istituisce un laboratorio di psicologia sperimentale, 1907.
[11] E. J. Haupt, Controversy between G. E. Muller and Wilhelm
Wundt over the proper
measurement of reaction time, 1999. Questa polemica, su cui non voglio e non posso
entrare, è senz’altro estremamente stimolante. Vedi internet.
[12] T. Perera e E. J. Haupt, Museum of the history of reaction time
research, 1999. Vedi internet.
[13] Questo sistema,
si badi bene, è squisitamente americano, tanto che era noto come “telegrafo
americano” tout court. Noi europei lo
abbiamo conosciuto e usato in maniera ridotta (e riduttiva). In questa sede ci
limiteremo ad accennare che all’epoca furono provati alfabeti Morse meno ridondanti
con linee di diversa durata, ma furono presto abbandonati perché creavano
confusione agli impiegati.
[14] I contributi
del Matteucci, peraltro solo quelli elettrofisiologici e non quelli
telegrafici, sono noti, purtroppo, solo ad una ristretta cerchia di storici
della scienza. Il nome di questo scienziato, invece, a giudizio di chi scrive,
è di prima grandezza e dovrebbe essere vanto dell’Italia. D’altra parte la
storia insegna che spesso, troppo spesso hanno fama e seguito personaggi
secondari a discapito di tanti veri e oscuri ricercatori. Tra questi grandi o
grandissimi mi piace citarne alcuni, tra quelli incontrati nelle mie letture e
che hanno suscitato il mio interesse o la mia ammirazione: Gabriele Buccola, Mario
Lucidi, Vasco
Ronchi, Roberto
Pavese, Alessandro Artom, Charles
Bourseul, Philipp Reis, Emil Javal, Theodore Du Moncel, Karl
Vierordt, Alfred Vail, David Edward Hughes, Alessandro Serpieri, Amedeo Gentilli, Giovanni
Dell’Oro, Luigi
Corino, Quirino
Majorana. Alcuni sono del tutto
sconosciuti anche agli addetti ai lavori, di altri si può forse trovare qualche
notizia su Internet. Su Matteucci desidero segnalare un link
con un museo di Pisa dove si conserva un non meglio identificato “commutatore Matteucci”, dispositivo sul
quale forse quanto stiamo scrivendo sul manipolatore Breguet potrà gettare
qualche luce.
[15] Furono
costruiti un’infinità di telegrafia a quadranti, a cominciare da quello
primitivo di Wheatstone per finire con
quelli, con soluzioni tecniche di tutto rispetto, di Froment e di Siemens/Halske. Però l’unico che si diffuse fu il Breguet, per la sua praticità, la sicurezza di funzionamento
e il basso costo.
[16] Io però ho
seguito fonti di prima mano: L.
Breguet, Manuel de la Télégraphie électrique a l’usage des employés
des chemins de fer, varie edizioni a partire dal 1850; C.
Matteucci, Manuale di
telegrafia elettrica, Pisa 1850 e Torino 1861; A. De La Rive, Traité d’électricité théorique et appliquée, 1854;
T.
P. Schaffner, The telegraph manual, 1859; ecc.
[17] “Gesticolanti”,
per dirla con Dickens, come ricorda A. Niceforo, Il gesto e la mano, 1956.
[18] I telegrafi
aerei erano anche erroneamente chiamati semafori. In un interessantissimo
articolo (Annales telegraphiques,
1860), C. Bourseul, fa acutamente osservare che i segnali Chappe erano simili a
crittogrammi, cifre caldee, note stenografiche, geroglifici. Io forse aggiungerei
anche i gesti della lingua dei segni dei sordomuti.
[19] Una in verso
orario e l’altra in quello antiorario. Questo ambidestrismo potrebbe richiamare i movimenti simmetrici della
scrittura “a specchio” o rovesciata molto studiata, per esempio, da Gabriele
Buccola.
[20] I telegrafi
alfabetici furono molto usati: in Italia, grazie a Matteucci come già detto,
e persino in Turchia.
[21] Questo sistema
era grosso modo simile al disco
combinatore dei telefoni di qualche decennio fa, prima che fosse sostituito
dalle tastiere.
[22] In mezz’ora
potevano imparare a usarlo, senza dover studiare il codice Morse, tutti coloro che sapevano leggere e scrivere. Questo
era soprattutto importante nelle piccole stazioni ferroviarie dove non si
poteva avere un impiegato specializzato per il telegrafo.
[23] Una molla sulla
manovella e delle tacche esterne sul quadrante facilitavano la stabilità della
fermata.
[24] Breguet, op. cit., ediz. 1851, p. 36.
[25] A questo
proposito chi trasmetteva doveva costantemente tenere d’occhio il proprio
ricevitore per essere sicuro che non gli arrivassero dal corrispondente
richieste di interruzione, ripetizione, ecc.
[26] Maggiori
chiarimenti nel capitolo successivo.
[27] Anche se il
corrispondente, per sbaglio, avesse girato la manetta in senso antiorario!
[28] A. De
La Rive,
cit., p. 383.
[29] Con una battuta
si potrebbe dire che tale molla
antagonista aveva il ruolo di… protagonista!
[30] Si trattava di
una regolazione finissima attuata con
una vite senza fine a passo molto corto e un rinvio con rocchetto e filo di
seta, oppure con eccentrici (“chiocciole”)
o altri tipi di demoltiplica.
[31] Molto
probabilmente il regolaggio era necessario anche se
cambiava l’impiegato alla posta trasmittente, perché poteva variare, anche
sensibilmente, la velocità della manipolazione. “È noto – infatti – che due telegrafisti non manipolano il tasto né
adempiono qualsiasi altra parte del loro servizio nello stesso modo. Certo, vi
sono regole generali che tutti praticano, ma, come nello scrivere la mano umana
è così spiccatamente personale, che si può con giuramento asserire chi scrisse,
così, in telegrafia, chi riceve può dire con sicurezza chi trasmette, dal modo
come questi manipola il tasto. La stessa diversità si riscontra in tutti i
movimenti di un telegrafista, nel regolare l’elettrocalamita come nel
maneggiare il tasto. A chi piace ricevere il colpo di ritorno della sua leva
acuto e distinto, e ne regola con questo fine la molla. A chi piace all’incontro
un suono sordo e smorzato e la regola che quasi non si senta”. Bullettino
Ufficiale della Amministrazione telegrafica italiana, 1869 e Luigi Vianisi, Descrizione
di alcuni metodi per ottenere trasmissioni simultanee in direzione opposta ed
identica lungo un medesimo filo telegrafico, 1887, aggiunge
un’osservazione più tecnica: “Occorre
buon contatto allo stato di riposo e buon distacco per rendere sicuro il giuoco
delle macchine. Ma gli impiegati hanno
il vizio di variare la tensione della molla di richiamo e la distanza delle
viti tra le quali oscilla la leva sia per ottenere suoni vibrati senza curarsi se l’impressione è imperfetta
sia per avere impressione precisa senza curarsi del suono, a seconda che siano
abituati a ricevere a udito o a leggere la zona”.
[32] L.
Breguet, op. cit., ediz. 1862, p. 107
[33] Tra i
tantissimi vecchi libri di telegrafia, italiani e soprattutto stranieri, da me
consultati ne ho trovato uno (D.
Borino, Lezioni di telegrafia elementare, 1909 e 1938) con questa descrizione delle operazioni di regolaggio
della stampante Morse per ottenere
sulla zona dei segni regolari: “Si invita il corrispondente a far rullo
(cioè a fare una serie di punti) e ad inviare poi una serie di R per
regolare la tensione della molla antagonista, manovrando l’eccentrico”. Da una mia inchiesta presso radioamatori e
vecchi telegrafisti nessuno aveva mai sentito, né seppe darmi una spiegazione
dell’espressione gergale far rullo
riferita all’invio di una serie di punti per fini di regolaggio.
Oggi, alla luce di questo studio, mi sono convinto che tale espressione non
poté che derivare dal frasario in uso tra i pionieri della telegrafia in Italia,
nata con la macchina Breguet e non con la Morse.
[34] Tale fenomeno
richiama vivamente le osservazioni di Mario
Lucidi sulla tensività
della pronuncia dei numeri pari diversa da quella dei dispari. Vedi M.
Lucidi, Saggi linguistici, 1966,
p. 156
[35] Quando l’ago si
muoveva di moto uniforme “come se si recitasse
l’alfabeto in modo monotono, senza far sentire nessuna lettera in
particolare”. A. De La Rive, op. cit., p. 383.
[36] L. Breguet, op. cit., ediz. 1862, p. 108
[37] L. Breguet, op. cit., ediz. 1862, p. 139. Senza dubbio però la ricezione a
orecchio era più facile nel sistema Morse, cosa in America attuata da tempo, mentre in Europa
se ne aveva solo vago sentore. Vedi C. Matteucci, Dei recenti
progressi della telegrafia elettrica. Discorso letto nell’Università di Pisa il
18 Novembre 1852. Il Crepuscolo, IV,
XIX, 1853 (p. 8 dell’estratto). E
tale ricezione, si badi, non riguardava solo le comunicazioni più frequenti
(nominativi), ma interi dispacci.
[38] A macchina
regolata il rumore dovrebbe essere minimo.
[39] Né del
cronoscopio di Hipp, come vedremo.
[40] L’unica
differenza essenziale tra Morse e Breguet è che per i
segnali il primo si avvale dell’oscillazione doppia dell’armatura, il secondo
l’oscillazione semplice (semioscillazione).
[41] Grosso modo pendolarmente, ricordando il profilo
della scanalatura-guida (gorge sinueuse) e supponendo uniforme il moto circolare della
manovella azionata dall’operatore.
[42] E anche di
isteresi elastica della molla antagonista. Le molle, tra l’altro, vanno
soggette a fatica, tanto è vero che, ad esempio, quella motrice della Morse a fine lavoro
doveva essere scaricata.
[43] E per forza di
cose, si badi attentamente, anche meno regolare e adeguato.
[44] “La precalcolazione
dei tempi di inserzione dei relè non è rigorosa perché alcuni dei fattori che
intervengono, per esempio la variazione della riluttanza per effetto del
movimento dell’ancora, non sono esprimibili analiticamente” N. La
Barbera, La misura di
piccoli intervalli di tempo, Alta Frequenza, 3-4, 1942. Il concetto,
risalente a S. P. Thompson, The electromagnet and electromagnetic
mechanism, 1891, è ribadito in tutti i lavori onesti di elettromeccanica.
Segnalo M. Busca, La pratica
della telefonia automatica, 1929 e L.
Salvati, Progettazione
e calcolo degli elettromagneti, 1965 e 1976.
[45] F.
Cecchi, Sopra i
telegrafi elettrici. Spettatore, 11.3.1855 e Corrispondenza Scientifica,
1855 (il corsivo è mio). Vedi anche M. Gloesener, Télégraphe
a aiguille perfectionné, Revue universelle des mines, ecc., 1857.
[46] I relè, o relais, sono dispositivi elettromeccanici sostanzialmente identici
al ricevitore elettromagnetico illustrato al Cap. 3, con in più solo alcuni contatti azionati dall’ancora o
armatura. Bisogna comunque distinguere tra relè telegrafici (molto veloci, lavorano sempre in regime
transitorio) e relè telefonici (per
commutazione, meno veloci e con più rimbalzi ai contatti). Delle
innumerevoli applicazioni che hanno in elettrotecnica solo in alcune sono stati
soppiantati da componenti elettronici.
[47] Matteucci, 1853, cit.
Se non altro il relè facilitava alquanto le operazioni di regolaggio,
che si potevano fare “in locale” facendone ritmicamente basculare
a mano l’ancoretta, e quindi senza dover chiedere al corrispondente lontano di
“far rullo”.
[48] Una terza
utilità del relè fu che funzionava da ottimo “allarme”, supplendo alla
silenziosità della stampante a rotella John-Digney, quando questa sostituì la Morse a secco.
[49] Oltre che dalla
sensibilità (funzionamento con
debolissime correnti) e dalla mobilità
(prontezza nel seguire senza ritardo le rapidissime oscillazioni) ogni relè era
caratterizzato dalla cosiddetta portata
o scala d’efficacia, ossia
l’intervallo compreso tra il limite minimo e il massimo in cui poteva oscillare
l’intensità della corrente senza disturbare il funzionamento di un apparecchio
convenientemente regolato, ossia il rapporto dei limiti tra cui poteva variare
l’intensità della corrente senza richiedere un nuovo aggiustamento. A. Artom, Lezioni di
telegrafia, circa 1910. Vedi anche R. Ferrini, Manuale di
telegrafia, 1890.
[50] Come ad esempio
nel telegrafo ad aghi di Wheatstone.
[51] Artom, cit.
[52] Artom, cit.
[53] Vedi Matteucci, 1861, cit., p. 349 – vedi anche De La Rive e Breguet, cit.
[54] T. Perera, comunicazione
personale.
[55] Probabilmente
intende una corda di violino o pianoforte.
[56] Matteucci, 1861, cit., p. 117. Poco soddisfacente anche la
spiegazione in De La Rive, cit., pag. 397.
[57] O accorcino.
Non dimentichiamo infatti che alcune molle lavorano in compressione (push), altre in
trazione (pull) ed altre ancora, come
probabilmente quelle del relè di Hipp, in entrambi i modi.
[58] Forse solo i
radioamatori possono comprendere appieno questa mia affermazione. Essi infatti
sanno che il feeling del loro tasto
dipende si dal materiale, dalla forma o dal peso delle leve, ma principalmente
dallo sbraccio, dalla molla (rigida,
morbida, graduale, cedevole, dolce, nervosa, ecc.) e da come se la sono
regolata. Negli uffici telegrafici della Western Union ogni impiegato aveva il
tasto personale che spesso, a turno finito, portava con sé per evitare che
qualche collega gliene toccasse il regolaggio. “A key is a highly personal object. If you
set up two different keys of identical design, with the same tension, and gaps,
they will nevertheless "feel" different. They are as individual
as violins” (W. Pierpont, comunicazione personale).
[59] Segnalo
specialmente D. Ingram, Keys, keys, keys. 1991.
[60] Nel 1850 T. Avery, un assistente di Morse, sostituì la molla a lamina con una ad elica (coil spring) e
cercò di metterla vicina al fulcro della leva per avere un migliore
bilanciamento (L. R. Moreau, The story of
the key, 1986).
[61] Solo in America
sono stati rilasciati oltre 300 patent relativi a tasti telegrafici (Moreau, cit.).
[62] Z.
Ferranti, Apparato
stampante Hughes, 1886.
[63] G.
Dell’Oro fu lo stimato
(anche dal senatore Matteucci) e appassionato direttore della rivista tecnica “Il
Telegrafista”, periodico pubblicato nel decennio 1881-1891 e in cui si
trovano importanti articoli, tra cui le interessantissime “letture”, sia di
telegrafia che di telefonia, appunto del direttore. Queste letture furono
pubblicate anche in volume a parte.
[64] Sicuramente
esistono altri relè a doppia molla o altri dispositivi simili al relè Hipp, e probabilmente degli studi teorici o addirittura
sperimentali. Sarò molto grato a chi volesse cortesemente segnalarmeli.
[65] Tanto mi pare
di ricordare dovrebbe essere alto il relè Hipp, che ho visto una sola volta, di sfuggita, anni fa,
nella collezione del Gen. Francesco
Cremona, a Colleferro.
[66] Penso che possa
essere feconda l’analogia tra la normale molla e l’alimentazione singola, da un lato, e la doppia molla e
l’alimentazione duale, dall’altro.
[67] L’Elettricista,
1893.
[68] Segnalo Wundt, cit., E. B. Titchener, Experimental Psychology, A manual of Laboratory Practice, 1905 (un
volume è anche su internet)
e l’annessa bibliografia, completa fino al 1905, ma purtroppo quasi
esclusivamente tedesca; A. Favarger, Die Elektrizität und ihre Verwerthung zur Zeitmessung, 1894 (vedi anche edizione francese del
1924); H. Gundlach, The Hipp chronoscope as totem pole and the formation
of a new tribe – applied psychology, psychotechnics and rationality,
Teorie e Modelli, 1996. Su internet si
trovano molte immagini del cronoscopio, ma in genere solo la vista frontale,
senza i dettagli. Segnalo però un recentissimo sito
dell’università di Berlino e, in italiano, un sito
di un museo di fisica. Di certo esisteranno anche gli scritti originali di Hipp e le istruzioni con cui venivano venduti gli
apparecchi.
[69] Favarger, cit., ed. 1924, p. 502.
[70] Uno è descritto
da C.
I. Bradford in Electronics, 1940.
[71] Un’ampia rassegna in M. Loir, Étude des chronoscopes et chronographes èlectrobalistiques,
Annales telegraphiques, 1860.
[72] Vedi E. C.
Sanford, The vernier chronoscope, Amer. Journ. Psych.,
1897.
[73] Non credo però
che nella storia della scienza il nome di Hipp abbia il posto
che merita.
[74] C. Wheatstone, Note sur le chronoscope électromagnétique,
Compte Rendus,
[76] A.
Gaeta, Spunti su
Gabriele Buccola, 1985 (AG
[77] A. Hirsch. Expériences
chronoscopiques sur la vitesse des différentes
sensations et de la transmission nerveuse, Bulletin de la Société des
Sciences de Neuchatel, 1862 (anche su internet);
E.
C. Sanford, Personal Equation, Amer. Journ. Psychology,
1888.
[78] Vedi Gundlach e Titchener, cit.,
anche per la genesi di questo gioco di parole o soprannome.
[79] Disegno di
copertina, lato destro.
[80] Tale
scappamento aveva una elevata potenza regolatrice ed era, credo, un’idea
originale di Hipp. Favarger, cit., fa
osservare che esso produceva una marcia praticamente non saccadè,
anche se – aggiunge saggiamente – nessuna macchina fatta dalla mano dell’uomo
realizza una progressione perfettamente continua e uniforme di un mobile: da
una posizione ad un’altra infinitamente vicina si passa sempre per salti
successivi.
[81] “Il cronoscopio di Hipp è un prezioso giocattolo i cui ingranaggi si
svolgono e cantano”, M. L.
Patrizi, La fisiologia
del XIX secolo e la misura del pensiero, 1901.
[82] Vedi, in
particolare, Titchener e Favarger, citati. Vedi anche Cap. 6.
[83] Credo superfluo
illustrare quanto detto con schemi elettrici, che risulterebbero assolutamente
banali.
[84] Per esempio
dallo sperimentatore, e in associazione con qualche stimolo, come vedremo.
[85] In genere dal
soggetto di esperimento, come reazione
allo stimolo di cui sopra.
[86] Cittadina
tedesca non distante da Tubinga, dove negli anni successivi farà scuola Karl
Vierordt.
[87] E.
Zimmermann era il
meccanico di Wundt. La ditta Zimmermann era specializzata in
strumentazione per laboratori di psicologia. I suoi cataloghi si possono
trovare anche in internet.
[88] Gundlach, cit.
[89] La parola telefonia, dai tempi di Bell, si è caricata di infiniti significati. In senso
strettamente tecnico, però, si badi, il “telefono” sostanzialmente non è altro
che un elettromagnete ricevitore (Cap. 3). Si pensi che alcuni
telegrafisti molto esperti riuscivano a far “parlare” l’elettromagnete Henley semplicemente
facendo in modo che l’ancora mobile, barcamenandosi tra la forza magnetica e la
forza della molla antagonista, restasse a metà strada tra la posizione di
lavoro e quella di riposo (vedi Dell’Oro, citato)!
[90] Per quelli
americani vedi E. B. Delabarre, L’année psychologique, 1894.
[91] A. Kostic e D. Todorovic, The Collection of Old Scientific Instruments of the
laboratory for Experimental Psychology,
[92] La velocità
degli elettroni è enormemente maggiore di quella dei neuroni. Uso qui il
termine “elettronico” in contrapposizione a “elettrico”, “elettromeccanico” o
“elettromagnetico”.
[93] Uno dei più
noti era fabbricato e venduto da Hipp, altri da Zimmermann.
[94] Introdotti solo
verso il 1887, da L. Lange. Alla stessa epoca, credo, risalgono anche i fallapparat.
[95] E tutto questo,
naturalmente, a discapito della precisione, come si può immaginare. Anni fa,
poco prima della sua morte, ho avuto la fortuna di imparare qualcosa da Leandro Canestrelli, forse l’ultimo psicologo veramente
“sperimentalista”. Ebbene, Canestrelli che nel laboratorio di De Sanctis e Ponzo, a Roma, fu probabilmente l’ultimo ad averlo usato,
chiamava il martello di Wundt “cronoscopio” tout court (come quello di Hipp o di D’Arsonval, diceva) e non strumento di controllo, come dovrebbe
essere.
[96] Orologi di
tutti i tipi venivano per esempio usati in acumetria,
al posto dei moderni audiometri.
[97] K. Vierordt, Die
Schall- und Tonstaerke ecc.,
[98] Molto
erroneamente, perché anche il miglior contatto il più delle volte è un “falso
contatto”, a causa degli inevitabili rimbalzi di disturbo. Per cominciare ad
avere qualche idea corretta del concetto di “contatto” la cosa migliore sarebbe
partire dai lavori sul “contatto microfonico” di E. Hughes, e meglio ancora, di E. Berliner. Tasti e pulsanti, si badi, sono il trait d’union, la
prima interfaccia uomo-macchina.
[99] Su internet c’è
solo l’imbarazzo della scelta tanto sono numerosi i siti di collezionisti di
tasti telegrafici.
[100] Tasto a peretta
o “tope”, da tenere tra l’indice e il
medio e da azionare col pollice, il dito “più stupido”.
[101] Azionato col
palmo della mano. Vedi P. Tacchini, Sulla
equazione personale. Rivista sicula di scienze, lettere ed arti, 1869. La
faccenda della “mobilità” delle dita è centrale in Buccola e, soprattutto,
nel suo maestro Vierordt.
[102] Perfino a
lingua, come per esempio nel glossografo Gentilli, macchina stenografica per sordomuti.
[103] Un’ampia
rassegna in Titchener, citato.
[104] R. S. Woodworth. Experimental psychology, ediz. 1938, p. 313.
[105] A. Lurija racconta che
l’unico strumento che aveva trovato in un desolato laboratorio di psicologia
era stato un vecchio cronoscopio di Hipp.
[106] Una sintetica e
chiara descrizione della taratura del cronoscopio di Hipp si trova nella Fisiologia umana di Vierordt, 1860, opera che ha avuto parecchie edizioni ed è
stata tradotta anche in italiano.
[107] I due avverbi,
si badi, non sono una tautologia.
[108] Questa disposizione
è innaturale. U. Cassinis, Le basi
fisiologiche dell’educazione fisica, 1928,
fa acutamente osservare che per riprodurre il più possibile le condizioni reali
è preferibile far tenere la mano dei soggetti non direttamente sul tasto, ma ad
una distanza prestabilita.
[109] In certi casi,
anche il modo con cui veniva tirato il cordoncino per liberare l’ancia vibrante
poteva essere pregiudizievole per l’esattezza delle misure. Vedi Titchener, citato.
[110] Vedi Gundlach, cit. Vedi anche H. Schneebeli, Ueber die Anziehungs-
und Abreissungszeit der Elektromagneten, Annalen
der Physik und Chemie, 1875. Da un esame
solo “visivo” (come già detto non conosco il tedesco!) questo lavoro mi sembra
molto interessante perché studia i tempi di attacco e di stacco in chiave
telegrafica.
[111] Op. cit., p.
144.
[112] Questo,
originariamente, doveva essere il titolo di questo Atomo, come omaggio a colui
che più di ogni altro scienziato ha fatto tesoro del cronoscopio di Hipp. Un’ampia bibliografia di e su Buccola si trova nei
primi due opuscoli di questa mia collana “Gli
Atomi”, dal 2001 disponibile on line
(www.bitnick.it).
[113] Prima a
Palermo, poi a Reggio Emilia e infine a Torino.
[114] L’immagine è di
F. Banissoni.
[115] Mieto quasi a
caso dai ricchissimi riferimenti disseminati ne “La legge del tempo nei fenomeni del pensiero”, l’unico, e purtroppo
ignorato, libro del Buccola, pubblicato nel 1883.
[116] A.
Tamburini e N. Dazzi, in Gaeta, cit.
[117] Segnalo
comunque, oltre a quelli dei capitoli seguenti, anche questi autori, alcuni
iniziati dallo stesso Buccola ai segreti del
cronoscopio: R. Tambroni, G. Algeri, G. Guicciardi, M. L.
Patrizi e G. C. Ferrari.
[118] Mi riferisco,
per esempio, alle Ricerche sperimentali
sul tempo fatte dal siciliano Antonio
Aliotta nel laboratorio
del Berrettoni a Firenze nel
1905, lavoro in cui, credo, era stata intravista bene l’importanza della molla
antagonista.
[119] Forse
imbaldanziti dalla scoperta che, specialmente per noi italiani, la filosofia
nobilita, l’arroganza paga, il cosiddetto “impegno” e la politica di bassa lega
rendono molto più dell’onesto, sudato e anonimo lavoro della ricerca veramente
scientifica.
[120] F.
Masci, Il senso del
tempo. Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli, 1890.
[121] F.
Consoni, Su alcuni
apparecchi del laboratorio di Psicologia sperimentale. Contributi
psicologici dell’Istituto di psicologia sperimentale della R. Università di
Roma. Vol. I. 1910-11.
[122] Studiare il
“tempo” con metodi grafici e statici, cioè “spaziali”, è scientificamente poco
produttivo.
[123] Da “Il cerchio del contagio”, catalogo di
una mostra storiografica di psichiatria, Reggio Emilia, 1980. Spero che questo laboratorio-museo
esista ancora, perché l’esame diretto del cronoscopio “impreziosito dalla mano di Buccola” (Patrizi) e, soprattutto, dei dettagli costruttivi
dell’interfaccia universale e degli altri strumenti progettati da Buccola (e
fatti, alcuni, dal Corino) sarebbe, credo, cosa oltremodo utile.
[124] Vedi Tav. I e II in Buccola, cit. Vedi anche Gaeta, cit. L’interpretazione dell’imputantur (ivi, Cap.
4) si accorda bene con quella del cronoscopio semplice contatore di impulsi (slave
clock).
[125] La durata delle percezioni complesse, 1a
comunicazione preventiva di nuove ricerche psicometriche. Rivista
Sperimentale di Freniatria, 1882 (Resoconto del Congresso medico di Modena).
[126] Nella
prefazione di tale libro Buccola dice che a
Torino “ampliò largamente il campo delle
esperienze modificandone e innovandone nello stesso tempo la parte tecnica”.
[127] Manoscritto
conservato alla Biblioteca Comunale di Palermo. Vedi A. Gaeta, citato. Se Buccola non potrà avere
il cronoscopio di Tamburini, Mosso è disposto a
prestargli il suo.
[128] Cartolina
postale (inedita) in cui Morselli scrive a
Buccola che la
direzione del Manicomio di Torino, dopo una discussione durata 4 sedute, lo ha
nominato assistente del nosocomio torinese e, inoltre, che “il Consorzio ha dato le 1000 lire per il cronoscopo”.
[129] Questi studi
risalgono a K. Vierordt, Der Zeitsinn nach Versuchen,
1864 (durata della riproduzione, punto di indifferenza, multipli pari e
dispari, cambio segno negli errori, ecc.).
Vedi Aliotta e Masci, cit.
[130] Il cronoscopio
è stato usato anche da alcuni stenografi ungheresi e tedeschi. Vedi A.
Gaeta, Meccanica
grafica, in questa stessa collana (attualmente
in sospeso).
[131] Nelle carte
inedite ci sono anche riferimenti all’elettrotono,
un oscuro fenomeno legato alla cronassia.
[132] Le bussole, strumenti
tipicamente telegrafici, erano una specie di galvanometri.
[133] Numero 91 della bibliografia buccoliana
in A.
Gaeta, Strumenti su
Gabriele Buccola, 1995 e 2000.
[134] Anche per
regolare la corsa o “sbraccio” dei tasti telegrafici si
usavano striscioline di carta!
[135] L.
Lanzoni,
Il
tempo della mente. Gabriele Buccola e le ricerche psicometriche
nell’istituto psichiatrico di Reggio Emilia, Physis, 1997, accenna ad un apparecchio psicometrico “trasmettitore” ideato da Buccola.
[136] Sul Morse esistono
pochissimi studi psicofisiologici, però sicuramente forieri di sviluppi.
[137] L. Léonard, Système télégraphique Morse: Réception au toucher. La Lumière Electrique, 1886.
[138] A. Herzen, Della natura
dell’attività psichica, 1879.
[139] Più esattamente
su dei finecorsa ad hoc, per evitare eventuali fenomeni di “attaccamento” (sticking).
[140] Anche un
normale tavolo di legno su cui si poggi il sounder è
un ottimo amplificatore acustico, ma non direzionale. In uffici molto affollati
si utilizzavano anche asticciole stetoscopiche (vedi internet).
[141] Rinforzatore acustico Cominoli, Il
Telegrafista 1883, p. 463.
[142] Vedi A. L.
Ternant, Les
Télégraphes, 1884. Vedi anche Annales Telegraphiques,
1856.
[143] Lettura dinamica (real
time), da non confondere con quella di punti e linee sulla zona, corrispondente
alla usuale lettura di stampati e manoscritti (lettura statica).
[144] Questo lavoro è
citato da James, Titchener e Wundt.
[145] Tanzi, autore della più approfondita recensione del libro
di Buccola, con importanti osservazioni sulla memoria organica
della scrittura, ne tenne l’orazione funebre nelle solenni onoranze del
[146] In questo
articolo Tanzi non menziona
Buccola, se non in bibliografia. Un appoggio, in ogni caso
indiretto, alla mia ipotesi potrebbe venire dalla nota preventiva di tale
studio negli atti del V Congresso Freniatrico Italiano, Siena 1886, che
dovrebbero essere stati pubblicati a Milano (dal Tonnini?), atti che però non sono riuscito a reperire. Vedi
anche Rivista di Filosofia Scientifica, 1887, p. 174.
[147] Prudentemente
Tanzi, come gli riconobbe Patrizi, citato, non si azzardò a ricavare nessuna legge
dalla selva dei dati raccolti.
[148] Risultati analoghi furono trovati da C. K. Wead, On the time of contact between the Hammer
and String in a Piano. The American
Journal of Science, 1886.
[149] “Rilassato, in modo da permettere a ciascun tasto
una mobilità indipendente”. Loc. cit.
[150] È quello che si
vede dietro al pianoforte e che è tenuto chiuso dal dito del soggetto
d’esperimento.
[151] A.
Casella, Il pianoforte,
1954. Vedi specialmente A. Ferrari, Il problema del
tocco nel pianoforte, Alta Frequenza, 1935 e AA.VV., A precision Study
of Piano Touch and Tone, J.A.S.A., ottobre 1934.
[152] C. Ponsicchi, Il pianoforte,
sua origine e sviluppo, 1876. (Ponsicchi era
accordatore).
[153] Si tratta di un
cronoscopio di Hipp, venduto a 650 marchi. Questo piccolo accessorio, in
pratica un morsetto da montare sul pannello posteriore dei cronoscopi, invece
costava 25 marchi.
[154] La letteratura
è immensa. Segnalo solo un agile opuscolo, A. Ronco, La scuola di
Wurzburg, 1963.
[155] Al Congresso
tedesco di Psicologia sperimentale a Wurzburg del 1906 e poi anche al Congresso
di Ginevra si discuteva di metodi introspettivi, di relegare macchine e orologi
nei solai e anche, però, della grande
influenza che la forma dell
[156] Da noi, in quel
periodo, gli unici laboratori di psicologia in cui si sperimentava veramente
erano quello di Kiesow a Torino,
quello di De Sarlo e Berrettoni a Firenze e
quello di De Sanctis a Roma. Poi subentrarono altri validi sperimentatori, più
o meno “inquinati” dal vento antipositivista e riformista di Wunzburg: Ponzo, Colucci, Benussi, Bonaventura e pochi altri.
[157] Molto
emblematica la controversia Wundt/Muller sapientemente
ricostruita da Haupt, cit.
[158] Über die Willenstätigkeit u. das Denken, mit einem Anhange über das Hipp’sche Chronoskop. E. Claparede, Archives de psychologie,
1904, recensendo il lavoro di Ach dice che
l’autore fornisce diverse indicazioni per il réglage del cronoscopio.
[159] The Wheatstone-Hipp chronoscope.
Its adjustments, accuracy and control. British
Journal of Psychology, 1906 e 1908 (in collaborazione
con il fisiologo, poi veterinario, W. Legge Symes). Il titolo dell’articolo rivendica esplicitamente la
presunta ascendenza inglese del cronoscopio.
[160] Nell’articolo
della Egdell c’è anche
un’ottima panoramica di questi lavori. Vedi anche Titchner,
cit.
[161] Le combinazioni
sperimentali e circuitali sono non poche e possono ingenerare confusione. In
termini telegrafici: sistema a corrente
di riposo o sistema a corrente di
lavoro, oppure, nel caso si cambi anche il verso della corrente, sistema a corrente doppia. Vedi A. Cecconelli, Fondamenti di
telegrafia, 1970.
[162] Questa era
anche la configurazione tipica dei cronoscopi vecchio modello (una sola coppia
di elettromagneti e ad una molla) costruiti prima del 1875. T. Schraven, comunicazione personale.
[163] Né la Egdell né altri, per
quanto ne so, si sono curati del rumore associato a questi rimbalzi. In termini
moderni si può parlare di polvere di scintille, dispersione o diffusione dello
sciame acustico (scattering).
[164] Lo sbraccio è l’escursione dell’armatura.
In questo caso bisogna tener anche conto dei due piccoli rialzi al centro dei
nuclei magnetici che si intravedono nella figura di copertina e che servono
come fine corsa e come distanziatori per evitare i noti fenomeni di
attaccamento o sticking
per magnetismo residuo.
[165] Sarebbe
proficuo a questo proposito poter disporre degli scritti originali di Hipp e delle
istruzioni per l’uso del cronoscopio che certamente saranno state fornite
assieme agli strumenti.
[166] Con i
cronoscopi ad una sola molla questa operazione sarebbe stata più difficile, se
non impossibile. Si badi poi che, in telegrafia, la regolazione della o delle
molle integra o rimpiazza quella dello sbraccio.
[167] Anche se il
lavoro richiesto dall’armatura del relè Hipp è molto minore
di quello dell’armatura del cronoscopio, l’aumento della variazione media degli
errori di lettura che si avrebbe usando due molle molto tese ci permette forse
di puntualizzare meglio la nostra intuitiva e vaga ipotesi avanzata al Cap. 4. Non si tratterebbe di una
“oscillazione migliore” ma forse di un “surplus di oscillazione”, stante la
definizione di variazione media, che riporto integralmente da Buccola, citato, pag. 98. La
variazione media di una serie, detta anche dall
(M –a) + (M – b) + (M – c) ….
V =
---------------------------------------------
n
Nell’equazione le singole differenze
vanno considerate in senso positivo. È naturale che più la variazione o
l’errore sarà piccolo e più aumenteranno le probabilità di trovarsi di fronte
ad una serie omogenea.
[168] Procedimento
simile alla “compensazione di Preece” un tempo usata in telegrafia. V. Cecconelli, cit.
[169] Hipp raccomandava di
tenere sotto controllo la corrente con un galvanometro. A suo tempo (1855) avrebbe già empiricamente scoperto
che il ritardo al make
dipendeva dalla resistenza del circuito, oltre che dall’intensità della
corrente e dalla tensione della molla antagonista. Vedi Edgell,
cit.
[170] Salvati, cit. Per avere un termine di paragone si dovrebbe
fare una chiusura in corto circuito.
[171] C. Doniselli, Di alcune
modificazioni al cronoscopio di Hipp. Arch. di Fisiologia, 1905.
[172] Questo
istituto, fondato da U. Pizzoli e diretto anche
da Z. Treves, fu molto attivo in ambito pedagogico e psicotecnico
(test attitudinali, orientamento
professionale, selezione del personale, ecc.).
[173] C. Doniselli, Il tempo di
reazione dopo l’ablazione di una zona rolandica. Arch. di Fisiologia, 1905
[174] Questa parola,
per i telegrafisti, aveva in genere un’accezione negativa. Non parlavano di
magnetismo residuo, ma semplicemente di “magnetismo” che disturbava le
comunicazioni, bloccava le macchine, ecc.
[175] Con questa
modifica il funzionamento diviene simile a quello dei relè polarizzati, ad
esempio Siemens.
[176] Per i dettagli
rimando alla memoria citata.
[177] Doniselli fece anche
importanti modifiche allo strumento di caduta di controllo (fallapparat di Hipp) che teneva fissato a una parete, per aumentare la
precisione.
[178] La prima
edizione tedesca è del 1909, la seconda, arricchita, del 1922. Io ho consultato
l’edizione inglese del 1912, oggi disponibile, credo, in edizione anastatica.
Una buona critica, in italiano, del pensiero di Schulze è A. Namias, Concetto e
metodo della psicologia sperimentale, 1912.
[179] Nr. 1263, del
costo di 900 marchi. Il patent
era DPR 209151.
[180] Nel caso di
misure del tempo di reazione in cui, come già ricordato, il tasto di comando
(trasmettitore) si sdoppia in due tasti (in serie o in parallelo) e nel
circuito siano inseriti anche dei relè di mantenimento.
[181] Op. cit.
[182] Vedi Giornale
di medicina militare, 1918, con contributi anche di A. Gemelli e G. Gradenigo, il padre dell’acumetria in Italia.
[183] La selezione
dei piloti veniva fatta misurando il tempo intercorrente tra l’accensione di
una lampada fissa (reazione semplice)
o di una lampada tra un gruppo di lampade colorate (reazione con scelta) e la risposta che il soggetto in esame doveva
dare manovrando un particolare timone (una
specie di cloche o joystick) e/o una pedaliera, che simulavano i comandi
nella carlinga dell’aereo. Come stimoli o segnali erano usati anche quelli
acustici, ottenuti col martello sonoro o semplicemente
battendo un tasto.
[184] Brevi note preventive sui risultati di
alcune ricerche psicometriche sui candidati all’aviazione e sui piloti,
Giornale di medicina militare, 1919; Sull’errore
personale di lettura del cronoscopio di Hipp, Rivista di Antropologia, 1919. Nel 1920 Saffiotti ottenne la libera
docenza di psicologia sperimentale e istituì in Sicilia, la patria di Gabriele Buccola e Giuseppe Sergi, il primo laboratorio di questa disciplina presso
l’istituto di Fisiologia di corso Tukory a Palermo.
Stranamente, come ricorda S. Sergi, Necrologio di Umberto Saffiotti,
Rivista di Antropologia, 1926-27, nel capoluogo siciliano Saffiotti
tenne anche un corso di esercitazioni di storia della filosofia. A causa della
prematura morte, nel
[185] La terminologia
tecnica lascia a desiderare, comunque i concetti sono abbastanza chiari,
eccettuato il “peso di graduazione
corrispondente”.
[186] Considerazioni
analoghe si possono fare per la simulazione della sordità.
[187] Gli indici del
cronoscopio, infatti, sporgono di un paio di millimetri sul quadrante.
[188] In generale si
arrotonda a zero, più frequentemente per eccesso che per difetto. Alcuni
soggetti, poi, tendono ad arrotondare sulle cifre pari, altri sulle dispari.
[189] Immagino che Saffiotti abbia inteso
dire “dal solo rumore di scatto”. I corsivi sono miei.
[190] I primi
telegrafi, compresi quelli aerei di Chappe, erano anche chiamati tachigrafi.
[191] A Cambridge fu
calcolato che una linea con 13 traslazioni comportava un ritardo di ben un
secondo (Bullettino Ufficiale, 1869). Ecco perché il requisito principale dei
relè telegrafici, a differenza dei più moderni relè di commutazione, doveva
essere la mobilità o prontezza.
[192] “dell’attenzione”, aggiungeva quel sommo.
Noi, non potendo librarci nel cielo della psicofisiologia, restiamo in quello
più terreno, ma sicuro, della fisica o, al più, della fisiofisica.
[193] Vedi internet per
le immagini e le informazioni essenziali. Per la descrizione completa del
telegrafo stampante Hughes vedi E-E. Blavier, Annales tèlègraphiques,
1862.
[194] Altro nome
ingiustamente dimenticato. Questo autore, di cui ho letto quasi tutti i
numerosi scritti, è stato uno di quelli che mi hanno fatto da guida nella
scoperta di com’era la scienza elettrica nell’800. Il suo telegrafo stampante,
che ha funzionato, in tutta Europa, per quasi un secolo, era un prodigio di
meccanica e senza il suo microfono il telefono di Bell (che peraltro è
una filiazione del relè Hughes) non avrebbe potuto avere lo sviluppo che ha avuto. (J.
Munro, Heroes of the telegraph. 1891).
[195] A.
Leone, La natura
dell’elettricità. Conferenza per i
telegrafisti di Catanzaro, 1885.
[196] E. Hughes, Expériences
sur la forme et la nature des electro-aimants,
Annales télégraphiques, 1864. Questo lavoro,
che secondo l’autorevole giudizio di Thompson, cit., non ha avuto l’attenzione che merita, mette in
evidenza l’importanza capitale della durata
del contatto.
[197] Ricordo che
nell’800 i concetti di tensione, corrente, resistenza, ecc. non erano stati ancora formalizzati. Più
pragmaticamente si parlava solo di “forza elettrica” o di “forza della
corrente”.
[198] The working of railway signals. Journal
of the Society of Telegraph Engineers, 1885.
[199] Non respinta,
si badi, ma semplicemente disattratta.
[200] Dopo ogni scatto il relè viene riarmato automaticamente, a spese
dell’energia locale (nella fattispecie il peso da
[201] Il telegrafo
Hughes aveva una
sensibilità quasi leggendaria: poteva funzionare anche con una pila costituita
da un po’ di saliva e due pezzetti di metallo. A Hughes si devono anche
pionieristici esperimenti sulla radio.