13 - Il mondo del filo
Incollo
una mia traduzione - pedestre, letteralissima e provvisoria - di un
interessantissimo racconto di un telegrafista americano trovato nel sito
di McEwen.
Cerco
qualcuno, molto esperto sia di telegrafia che di lingua inglese, che mi aiuti a
farne una traduzione decorosa e pubblicabile.
È quasi
inutile aggiungere che l’interesse di tale articolo, a mio giudizio, travalica,
e di molto, l’ambito puramente telegrafico.
Grazie e
cordiali saluti.
by L.
C. Hall (from McClure's Magazine, January, 1902, pages 227-231)
Oltrepassi
la soglia di una sala operativa di un ufficio telegrafico di una metropoli e ti
trovi in un mondo meraviglioso dove è stato fatto molto che potrebbe ben
suscitare stupore se il gergo lì usato fosse tradotto in frasi comprensibili.
C’è gente che parla di megaohm, microfarad e milliampere;
sbadatamente tocchi un pezzo di ottone e sei punto da un invisibile diavoletto;
vedi un uomo che guarda fisso un impertinente piccolo strumento, passando
oziosamente il tempo presso un bottone di gomma, e non appena lo strumento di
ottone ha un po’ clicchettato lo vedi ridere come un idiota senza nessuna
apparente ragione.
Perché il “telegrafese” è un vivo, palpitante linguaggio.
Esso è un curioso tipo di Volapuk, una lingua universale, parlata attraverso la
punta delle dita e nella maggior parte dei casi letta ad orecchio. Raramente il
telegrafese si incontra nella sua forma scritta, o “Morse”, come esso è
chiamato in gergo. Per gli iniziati però esso è un veicolo di espressione
armonioso, sottile e fascinoso come lo stesso linguaggio musicale.
Niente
potrebbe essere più semplice del suo alfabeto di punti e linee. Tuttavia è
accaduto (?) che fuori della maniera di traduzione questo semplice codice si è
evoluto in un mezzo per comunicare pensiero e sensazioni, mezzo che rivaleggia,
per flessibilità e scopo, con la voce umana.
Una sera
una grande sala era piena di gente, per lo più telegrafisti e loro amici. Sul
palco c’erano una dozzina di uomini, alcuni tavoli con luccicanti apparati
telegrafici, e alcune macchine scriventi di vario tipo. L’occasione era una
gara di velocità, organizzata per assegnare record di trasmissione rapida.
I
concorrenti vanno ad uno ad uno al tavolo del test e manipolano il tasto. Per
tutta la sala c’è un’aria di calma tensione, rotta quando viene chiamato il
“tempo” mediante un trillo di pulsazioni metalliche lette dalla maggior parte
dell’uditorio come da una pagina scritta. Il testo del materiale non è
rilevante, un estratto da un grande discorso, una pagina di versi sciolti, o
soltanto le “istruzioni” prestampate in un modulo di telegramma. Quello che
importa è solo la velocità e l’accuratezza. Quaranta, quarantacinque, cinquanta
parole al minuto sono ticchettate con 750 movimenti del polso e ancora il
limite non è raggiunto. I concorrenti mostrano gli stessi evidenti segni di
sforzo che caratterizzano le gare fisiche più strenue: le narici dilatate, il
respiro veloce o affannato, l’occhio strabuzzato (gli occhi di fuori).
Attualmente
detiene il primato un giovane biondo, sicuro di sé e dai gesti misurati, senza
spreco di forza. Egli procede e la sua trasmissione è veloce e pura come un
ruscello di montagna. “Per salvaguardarsi da errori e ritardi, chi trasmette un
messaggio dovrebbe ordinarlo ripetuto indietro”. L’uditorio, affascinato,
dimentica la velocità, e ascolta attentamente solo la bellezza della
trasmissione. Incessantemente volano i punti e le linee, e benchè sia chiaro
che la sua pace non è sopra quella messa dai leader, tuttavia vi è una
perfezione – una indefinibile qualità nella performance che alla fine porta la
moltitudine ai suoi piedi, in uno spontaneo scroscio di applausi; come
un’esplosione che potrebbe accogliere un grande pezzo di oratoria o di
recitazione.
Un Morse
di un telegrafista, quindi, è come un distintivo, come la sua faccia, i suoi
toni o la sua manoscrittura e come la sua voce o la sua scrittura è difficile
da contraffare. Su questa qualità individuativa del telegrafese i vecchi
telegrafisti di guerra raccontano molte storie. A esempio un Confederale
incontra durante la marcia una linea telegrafica che egli sospetta sia usata
dal nemico. Intercetta il filo, vi inserisce i suoi strumenti, e ascolta. Il
suo sospetto è fondato; allora mette a terra l’uno o l’altro dei due estremi
del filo, e cercando di mascherare il suo stile di trasmissione fa delle
domande finalizzate a ottenere una importante informazione. Ma il suo accento
sudista nel suo Morse è riconosciuto dal suo distante interlocutore, che,
peraltro, avrebbe potuto essere un suo collega di prima della guerra. Così
l’intruso ottiene solo una ironica sgamata risposta. “Il trucco non
funziona, Jim” dice l’operatore nordista. “Lascia perdere per amore dei
vecchi tempi, e tieniti fuori”.
Nel mondo
del filo un telegrafista è conosciuto dal suo “segno” (nominativo?), che
può essere la lettera X,
Espressa
in forma stampata una risata è un nudo “ha ha!” che richiede altre
parole per descrivere la sua qualità. Nel linguaggio del filo è usata la stessa
forma, ma il modo di esecuzione impartisce qualità alla risata. Nella
conversazione in punti e linee, come nel linguaggio, “ha! ha!” può dare
una impressione di malinconia, di leggero divertimento, o di crepapelle. La
doppia i, inoltre, nella parlata del filo, ha un esteso campo di significati a
seconda della esecuzione. Alcune doppie i sono usate come un preludio a una
conversazione, come pure per “rodarne” (break) la bruschezza alla fine.
Essi si fanno anche per esprimere dubbio o acconsentimento; e in ogni
esitazione per una parola o frase sono usati per preservare la continuità di un
periodo diviso. Quando un ordine viene dato in Morse sul filo, la risposta (acknowledgment)
dell’operatore è uno scampanellante “ii!” che ha lo stesso significato del “Signorsì!”
di un marinaio.
Sarebbe un
cattivo osservatore di piccole cose l’uomo che, dopo aver “lavorato a un filo”
con uno straniero all’altro estremo per una settimana, non potesse dare una
corretta idea della disposizione e del carattere del suo distante faccia a
faccia. E sarebbe del tutto possibile per un operatore immaginoso costruirsi
una sua immagine mentale abbastanza accurata, o che mangi col suo coltello, o
che porti un cappello drizzato su un lato della testa, o parli a voce alta in
pubbliche piazze.
Alcuni
anni fa, in un ufficio del Sud, io ero assegnato ad una linea che faceva capo
alla capitale nazionale. Il mio collega operatore all’altro capo del filo usava
le lettere “C G” come sua firma sul filo.
Il Morse di
C G era così chiaro, sereno e ritmico, i suoi punti e linee così perfettamente
temporizzati e accuratamente spaziati, che immediatamente mi nacque una
cordiale simpatia per lui. In breve tempo questa simpatia, che lui
contraccambiava di cuore, maturò in un forte e sincero attaccamento. Il
distinto sebbene delicato “tocco del filo” del mio amico rendeva estremamente
riposante lavorare con lui. Davvero per mesi ogni giorno io lo ricevetti senza
percettibile fatica, o la necessità di “breaking”. Quasi dall’inizio
della nostra frequentazione io pensai che lo avrei riconosciuto vedendolo se mi
fosse capitato di incontrarlo. Io lo raffiguravo come un uomo alto, delicato,
con i modi pazienti e fini di uno che aveva sofferto molto, i suoi lineamenti
delicatamente plasmati, i suoi occhi del tipo che si accendevano velocemente
quando illuminati da un sorriso, e la sua bocca pronta ad applicare la torcia
(?) ogni volta che prorompeva il suo senso dell’umorismo. Mi immaginavo che
avrei riconosciuto il suo vestito, il bavero vecchio stile, la piccola cravatta
bianca, il suo nero, sottile vestito a sacco.
Qualche
mese dopo il nostro primo incontro sul filo io fui chiamato a Washington, e
mentre ero lì visitai la grande sala operativa dell’ufficio principale, per
salutare i vecchi amici di un tempo. Appena entrai, feci attenzione per cercare
il mio vecchio amico del filo. Io non lo avvisai della mia venuta, perché
desideravo vedere se era possibile identificarlo con la mia fotografia mentale.
Immediatamente lo scorsi, non appena me lo ebbi raffigurato. Mi fermai accanto
a lui un momento, indi toccandogli la spalla, gli tesi la mano.
“Come
stai, C G? Sono molto contento di vederti e avere il piacere di stringerti la
mano”.
Sebbene
egli fosse molto più vecchio di me, nelle mie parole non c’era mancanza di
rispetto, perché tra telegrafisti è comune chiamarsi col proprio sign.
C G si
alzò con quieta dignità, e prendendo la mia mano mi guardò con occhi
sfavillanti dietro le lenti.
“Sei H,
non è vero? Sono molto lieto di incontrarti, figlio mio!” e allora
iniziammo a parlare (chatting), faccia a faccia, come avevamo spesso
fatto sul filo.
Non lo
incontrai più in carne ed ossa. Pochi mesi dopo la mia visita a Washington lo
chiamai via filo. Mi risposero che il mio caro vecchio amico aveva avuto un
incidente d’auto, e che essendo solo al mondo era ricoverato in un ospedale,
dove tirò avanti qualche tempo, a volte semicosciente, e dove alla fine spirò.
Allora
feci un altro viaggio a Washinghton, per andare al funerale; poi andai all’ospedale
per chiedere all’infermiera la storia della sua malattia e della sua morte.
“A tarda
sera” mi disse la buona donna verso la fine dell’intervista “fui chiamata nella
sua stanza. Egli stava rapidamente venendo meno e parlava come in un sogno
(delirio), battendo due dita della mano destra sulla coperta come se stesse
trasmettendo un messaggio. Io non capisco il significato, ma forse tu lo
comprenderai. “Dici che non puoi leggermi?” egli avrebbe detto. “Allora lascia
che H venga al tasto. Egli può leggermi e capirmi. Fai venire qui H, per
favore” ora le sue dita sarebbero fermate, come se aspettasse che la giusta
persona rispondesse. Poi continuò: “Mia cara, mia cara, questo non viene mai!
Io cerco di parlare con H. Ho un importante messaggio per lui. Per favore digli
di affrettarsi”. Indi seguì un’altra pausa, durante la quale mormorava tra sé
pieno di rammarico. Ma alla fine, improvvisamente, si atteggiò come uno che
ascolta attentamente; allora, mentre gli spuntava un sorriso in volto, egli
gridò, mentre le dita battevano il tempo con le sue parole “Sei tu, H? Sono
così contento che sei venuto! Ho un messaggio per te” e così, mentre le sue
dita battevano un messaggio muto, il suo delicato spirito spiccò il volo”.
Gli occhi
dell’infermiera brillavano, e io ebbi un groppo alla gola. Dopo un momento di
silenzio lei continuò:
“Ma c’era
una caratteristica del modo di parlare del moribondo signor G. che mi
impressionò particolarmente. Mentre egli batteva il suo messaggio egli parlava
in un teso semibisbiglio, come uno che cerca di proiettare la sua voce
attraverso lo spazio. A volte, però, parlando con se stesso, parlava col suo
tono naturale. Ma io ho notato che egli scivolava da un tono all’altro, come un
linguista che volesse conversare con due persone di differente nazionalità”.
L’infermiera
in un ospedale era inciampata in una scoperta che tuttora per il linguista
rimane un libro sigillato.
Un Morse
di una donna è femminile come la sua voce o la sua manoscrittura. Io spesso ho
messo alla prova la mia abilità a distinguere tra il Morse di un uomo e quello
di una donna, e solo una volta mi sono sbagliato.
Sullo
stesso “circuito Washington” un giorno incontrai un trasmittente all’altro capo
del filo, uno straniero, che per ore “mi prendeva in giro” come raramente mi è
capitato nella mia esperienza telegrafica. I punti e le linee riversati dal
sounder in un torrente sconcertante, e io facevo il più duro lavoro per stargli
dietro a copiarlo. Con tutta la sua tremenda celerità il Morse era chiaramente
battuto e musicale, sebbene avesse un aspro, staccato ticchettio che indicava
una mancanza di sentimento e feeling in chi trasmetteva. Da questo, e da una
certa foga e spavalderia, io dedussi, prima di sera, una netta impressione della
personalità del trasmittente. Io lo immaginai di una ben tenuta,
aggressivamente pulita apparenza, con una brillante carnagione rossa, con i
capelli strettamente raccolti; una, in breve, la cui intera maniera e make-up
tradisse l’auto soddisfatto sport (?). Che essa indossasse un diadema nella sua
fronte (?) lo consideravo estremamente probabile, e che essa portasse uno
stuzzicadenti tra le sue labbra era moralmente certo.
Il giorno
dopo ebbi modo di fare alcune indagini dal mio collega operatore a Washington.
“Oh, tu
intendi T Y” mi disse, ridendo. “Si, per essere una ragazza è un trasmittente
che vola”.
Io mi
mortificai di scoprire che avevo sbagliato il sesso del trasmittente, ma mi
consolai quando incontrai la giovane donna. L’alto colorito c’era, e l’aria
sicura di se (auto soddisfatta); e vi era pure il legame mascolino, il
panciotto da uomo, e le shirt strappate davanti. Né mancavano lo stuzzicadenti
e la trascuratezza (?). quando essa si introdusse col suo sign, mi chiamò
Culley, e disse che ero un ricevitore di prim’ordine. Io mi convinsi che era la
natura, non io, ad aver fatto l’errore sul suo sesso.
Quanto
potentemente l’immaginazione possa essere stimolata da una storia raccontata in
punti e linee è illustrato da un episodio del terremoto di Charleston. Al
momento della scossa finale ogni filo che collegava Charleston col mondo
esterno fu istantaneamente “perduto”. E poiché dalla città condannata non si
poteva avere nessuna notizia, fu come se in un istante essa fosse stata
spazzata dalla faccia della terra. E per molte ore Charleston rimase
letteralmente morta per il mondo.
La mattina
seguente, prima che il cittadino comune avesse il tempo di riorganizzarsi, il
mondo dei telegrafisti aveva inviato squadre di operai per rimettere in sesto
le linee. Operatori nei principali uffici nel raggio di parecchie centinaia di
miglia furono messi a chiamare “C N”. Per molto tempo non ci fu risposta; ma
alla fine, sul filo che mi era stato assegnato, si sentì un debole segnale di
risposta, udito molto debole e vacillante, simile al primo segno di un ritorno
in vita. Da quel momento la mia vigilanza (watch) divenne, se possibile,
più diligente. Per un’ora e più io chiamai, regolai l’apparecchio (adjusted)
e feci ogni sforzo per ravvivare quel debole impulso. Potrei immaginarmi come
impegnato disperatamente a resuscitare un uomo mezzo affogato. Di nuovo sentii
quel tremulo segnale, e dopo ancora una volta tutti i segni di vita svanirono.
Finalmente, quando i fili furono gradualmente ripuliti dai detriti, la corrente
iniziò a rafforzarsi, e allora sentii la risposta “ii! C N”, debole e
instabile, ma ancora sufficientemente chiara per essere decifrata. Per me
suonava come una voce dalla tomba, e io gridai forte la notizia che Charleston
esisteva ancora. Subito il sounder fu circondato da una folla di telegrafisti
eccitati. Il Morse all’inizio era frammentato (broken) e instabile. Poi
la corrente divenne più forte come il paziente che sta migliorando e per molto
tempo ascoltammo l’affaticato ticchettio, finchè alla fine il peggio fu noto. E
al termine del racconto dai cuori di tutti noi venne un sospiro di sollievo,
come se una città per lungo tempo sepolta fosse stata riesumata in nostra
presenza.
Nella
telecronaca via filo di giochi e corse, il Morse conferisce una singolare
vitalità alla descrizione. La folla accalcata ascolta la descrizione ripetuta a
voce (by mouth) dal sounder, che suscita entusiasmo o depressione. Ma è
l’esibizione delle squadre che li commuove; nel suono delle parole non c’è
niente che li eccita. Non è così per chi legge il Morse, specialmente se il
lontano reporter è abile col suo telegrafese. I corti, acuti punti e linee
creano una maggiore suspense ai suoi annunci: una qualità che agita il sangue e
fa battere con eccitamento il cuore del ricevente. “Fuori gioco!” stampato è
freddo e vuoto se confrontato con la sua controparte in Morse emessa in un
momento critico. Qualche indescrivibile qualità nel suono riflette l’interesse
e il feeling di chi trasmette, come nessun uomo, né oratore né attore, potrebbe
rifletterli nella voce o nel gesto.
Di
aneddoti telegrafici ce ne sono in abbondanza. Così la difficoltà è presentarli
al lettore per dargli un’idea del loro “sapore” telegrafico. Ce n’è uno col
sapore parzialmente oscurato.
Per
iniziare è necessario dire che la lettera E in Morse è un singolo punto, mentre
una O è due punti leggermente spaziati (nel Morse americano – ndt).
Dovrebbe essere chiaro quindi che una O spaziata imperfettamente, o malamente
interpretata in ricezione, all’orecchio fa la stessa impressione della doppia
E. Il mordente della storia poggia su questo. Io stavo trasmettendo un
messaggio indirizzato a “Gen. Fitz Lee,Washington”; un suo vecchio camerata gli
mandava un messaggio di congratulazioni. Non appena arrivai alla predetta
intestazione l’operatore ricevente mi fermò. “È il generale Fitz Lo?” mi
chiese. “No, risposi impazientemente, è il generale Fitz Lee”. Bk! Bk! (break!
break!) disse il ricevente: “Gen. Fitz Lee o Gen. Fitz Lo – è tremendamente
stupido per i nostri impiegati accettare un messaggio indirizzato a un
lavandaio cinese in questa città senza dare il numero della strada”.
L’evidente
convinzione del collega e il suo candore, come evidenziato nel suo Morse
rendeva l’esclamazione deliziosamente comica. La storia arrivò al Generale e io
dopo gliela sentii raccontare a sue proprie spese (?). Ma nel racconto il
“sapore” telegrafico era perduto.
Come ogni
altra lingua, il Morse ha il suo patois, una versione corrotta del più puro
linguaggio usato dagli inesperti o da quelli a cui la natura ha negato le più
sottili percezioni di timing e spacing. Questo patois potrebbe essere chiamato
“hog-Morse”. Sarebbe del tutto impossibile dare un’idea nemmeno lontana
dell’umorismo contenuto, per l’esperto, in alcune delle corruzioni di cui
l’hog-Morse è colpevole. Queste consistono essenzialmente nell’unire
strettamente elementi che dovrebbero essere spaziati, o nel separarne altri
destinati ad essere strettamente accoppiati.
Nel patois
dei fili “pot” significa “hot”, “foot” è diventato”fool”, “U.S. Navy” è “us
nasty”, “home” è cambiato in “hog” e così via. Per esempio, se mentre si riceve
un telegramma un utente del patois dovesse mancare una parola e vi dicesse
“6naz fimme q”, l’esperto saprebbe che egli intende “Please fill me in”.
Tuttavia non c’è difficoltà a interpretare il patois purchè chi riceve sia
esperto e stia sempre in allerta. Però, quando la mente vaga mentre riceve, c’è
sempre il pericolo che la mano registri esattamente quello che l’orecchio
detta. In una occasione, durante il Natale, uno scherzoso cittadino di Rome,
New York, telegrafò a un amico lontano un messaggio, che pervenne a
destinazione (lettura?) “Cog hog to rog and wemm pave a bumy
tig”. All’uomo sembrò
indirizzato come Choctaw, e ovviamente non fu compreso. Una volta ripetuto
divenne “Come home to Rome, and we’ll have a bully time”. Un altro caso di
confusione accaduto (?) per hog-Morse fu quello della agenzia Richmond,
Virginia, a cui fu richiesto via filo il prezzo di un carico di “undressed
slaves”. L’impiegato della ditta che ricevette il telegramma, essendo un po’
burlone, telegrafò in risposta “Nessun commercio in beni nudi dopo
Il
semplice “suono dello stile” di alcuni trasmittenti è irresistibilmente comico.
Uno di questi naturali umoristi può rivelarsi trasmettendo nient’altro che una
stringa di cifre, e tuttavia ridacchiare al loro grottesco Morse. È cosa di
tutti i giorni sentire operatori caratterizzati come Miss Nancys (?),
rattle-brains (?), swell-heads (?), oppure tipi eccentrici o “chiacchieroni”,
semplicemente perché il suono dei loro punti e linee suggerisce questi epiteti.
Quando un
telegramma viene letto (copiato) al suono, il ricevente non è conscio dei punti
e delle linee che costituiscono le frasi. L’impressione sull’orecchio è simile
a quella prodotta da parole parlate. Inoltre, se ad un telegrafista esperto si
domanda di botto la costituzione di una lettera in punti e linee, è probabile
che egli esiti prima di riuscire a dare la risposta. In vista di questo fatto
potrei dire che pensare in telegrafese non è possibile, e da questo punto di
vista il Morse è perdente nel confronto con una lingua parlata. Abbastanza
curiosamente, però, il telegrafese è utile nello spelling di parole. Se un
telegrafista fosse in dubbio sull’ortografia di una parola, se si debba, per
esempio, compitare con un ie o un ei, egli dovrebbe
soltanto batterla su uno strumento o anche su un dente, per dissipare
all’istante ogni incertezza.
Tra gli
altri interessanti fatti c’è che in Morse la somiglianza familiare è spesso
mostrata come in faccia e nel modo di fare. Per di più, così come due persone
di temperamenti consanguinei, mettiamo marito e moglie, che sono stati a lungo
insieme, si dice che crescono gradualmente in una somiglianza fisica l’una con
l’altra, così, similmente, due telegrafisti che hanno “lavorato un filo”
insieme per anni insensibilmente plasmano il loro Morse ognuno in quello
dell’altro, finchè la somiglianza tra i due è realmente percepibile.
Se fosse
necessaria ancora qualcosa per completare il parallelo tra il telegrafese e un
riconosciuto veicolo di espressione, potrei aggiungere che gli utenti della
lingua di punti e linee sono animati da uno spirito di corpo come quello delle
Highland Scots (Montagne Scozzesi?). Mettete due stranieri insieme, lasciate
che ognuno si renda conto di quanto l’altro abbia familiarità con la lingua del
filo, e in cinque minuti i due si racconteranno a vicenda cose telegrafiche
come se si conoscessero da anni. Operatori di campagna quando vengono in città
sono irresistibilmente attratti verso l’ufficio telegrafico della città. Per
quanto straniera possa essere la città, nell’ufficio telegrafico commerciale o
nella tana dei “dispatcher” ferroviari essi sono certi di trovare altri che
parlano la loro lingua e con cui possono fraternizzare e sentirsi a casa. Né
questo spirito di corpo si sente solo nei rapporti di persona; esso c’è anche
in quelli che, in città lontanissime, sono messi in contatto giornaliero
mediante un filo usato congiuntamente da tutti. Negli intervalli di lavoro, per
esempio su un circuito dell’Associated Press, un filo che tocca
una dozzina o più di città lontane, è perso di vista e tutti i fatti personali
sono distintamente presenti. Si raccontano storie, si scambiano opinioni, si
fanno risate, come se i partecipanti fossero seduti insieme in un club. Essi
vengono a conoscere stati d’animo abituali gli uni degli altri, e debolezze,
cose liete e spiacevoli, e quando nel circolo vi è un break per la morte di un
membro, la sua assenza è sentita quasi come in associazione personale.
Intervento
di Cavina:
Lettura
interessante. Vedrò se posso mettermi al lavoro per affinare la traduzione.
Intervento di Gaeta:
Molti
telegrafisti hanno apprezzato questo articolo e ne auspicano una traduzione nella
elegante lingua italiana. Un desiderio analogo concerne il classico di
Pierpont, The art and skill of radiotelegraphy.