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– Il circuito a corrente continua
Per addentrarci nello studio fisiofisico della manipolazione Morse, e trarne elementi utili alla telelinguistica, bisogna avere almeno un’infarinatura sui tre principali sistemi di collegamento delle reti telegrafiche e sulla relativa terminologia (vedi i rispettivi schemi tratti da Culley, citato, 7a ediz., con mie piccole modifiche). In particolare, in questa News esamineremo i primi due, mentre il terzo lo tratteremo nella prossima News.
Nel circuito Morse ordinario (schema a sinistra), quello più usato e conosciuto in Europa, quando
nessuna stazione trasmette le pile non sono collegate, non circola corrente,
gli elettromagneti (dei sounder o
degli apparati scriventi) non sono eccitati e le leve sono sollevate. Se una
stazione inizia a trasmettere abbassa il proprio tasto e mette in rete la
propria pila: tutte le leve degli elettromagneti della linea seguiranno in fase i movimenti della leva del tasto e
quando si abbassa il tasto si abbassa anche la leva, e viceversa. Per i profani
di elettrotecnica il concetto riuscirà più chiaro osservando il “telegrafo a cordicella” di Montillot. Questo sistema Morse si suole
chiamare “a corrente intermittente” o
“a circuito aperto”, denominazione – quest’ultima
– un po’ infelice perché il circuito, anche se a riposo non vi circola corrente, è sempre chiuso (dai tasti posti in “posizione
di ricezione”), e non potrebbe essere altrimenti perché una soluzione di
continuità in una stazione qualsiasi impedirebbe alle altre sia la “chiamata” sia la “comunicazione”.
Il secondo schema è il “Morse
a corrente continua” in cui ci siamo più volte imbattuti, a cominciare
dalla Morse News 20 (L’incudine di Forcieri, 10.5.04) e a finire con la Buccola News 23 (Fire Alarm, 23.2.05). Questo era il
Morse per eccellenza, quello americano, quello “doc”, a cui andavano le simpatie dei veri
telegrafisti-elettricisti, cioè di coloro che collegavano gli sterminati fili “omnibus” (vedi internet vittoriano)
d’America, non solo per lavoro ma per passione verso la nuova arte,
l’elettrotecnica, che stava nascendo in quegli anni. Tra i tanti articoli che
ho letto in merito segnalo quelli di G.
Dell’Oro, Z. Ferranti (Il Telegrafista, 1881 e 1885) e A. Artom (citato),
da cui provengono buona parte delle osservazioni di queste righe.
Ho ripetutamente
scritto - in queste News e nei miei Atomi - e continuo a sottolineare con
forza che il Morse europeo, quello “cartaceo” e con “timing” teorici, è un sottoprodotto, un surrogato
della “lingua madre” americana. La differenza non sta solo nell’alfabeto usato
(rispettivamente Gerke e Vail), nello stile di manipolazione e
nella ricezione uditiva, ma sta anche, e aggiungerei soprattutto, nel tipo di
collegamento tra le varie stazioni. Come sostiene J. B. Calvert, mentre in
America c’erano operatori “skilled” e
apparati spartani, in Europa invece si studiavano apparati sofisticati per
operatori “unskilled”. Lo spirito
americano era “pratico” e spiccatamente funzionale: il loro filo telegrafico (“landline”) era sì “a circuito chiuso”, ma anche “a
corrente continua”, intendendo semplicemente con queste due espressioni non
già che non era alimentato in alternata,
come noi moderni saremmo indotti a pensare (la corrente alternata, e la
telegrafia a correnti vettrici, verranno molto tempo dopo!), ma che, anche “a riposo”, il circuito era continuamente “sotto tensione”, e inoltre non aveva soluzioni di continuità (per
forza di cose, come abbiamo già detto).
Questo
circuito “chiuso” era ottenuto
mettendo le pile (a polarità invertite,
si veda il secondo schema) solo nelle stazioni capolinea, e munendo tutti i
tasti di una levetta supplementare S
(“circuit breaker”, shunt o ponticello), messa a fianco del tasto
(vedi Morse News 83), che doveva
essere spostata soltanto quando la relativa
posta iniziava a trasmettere. Anche nel circuito a corrente continua, si badi,
i movimenti delle leve del tasto e delle leve dei sounder sono sincroni ossia in fase (Morse
ordinario).
A parte le
considerazioni economiche e strettamente tecniche del risparmio delle batterie
(che erano a liquido, duravano mesi e, almeno alcune, tra cui la cosiddetta “pila italiana”, addirittura consumavano
lo zinco più a circuito aperto che a circuito chiuso!) il sistema “a corrente continua” aveva parecchi
vantaggi, e forse anche qualche segreto. L’uniformità della corrente, in tutte
le poste, dispensava gli impiegati dal fastidiosissimo, continuo e difficile
regolaggio della sensibilità delle macchine. “Il filo di linea percorso continuamente da
una corrente è per così dire animato, vivo e pronto a segnalare
tutto ciò che di anormale accade sulla linea. Le interruzioni, le derivazioni
sono segnalate nel momento stesso in cui avvengono, e non già quando si prova
la linea come nel sistema ordinario” (Dell’Oro, citato). Gli ispettori “guardialinee” non avevano bisogno
di portarsi dietro la pila per mettersi in corrispondenza con la stazione più
vicina e i controlli potevano farli con un “tester”
tascabile costituito da un tasto e un sounder. In caso di incidenti si potevano
fare collegamenti di emergenza tagliando il filo e “manipolando” alla meglio i
due spezzoni per lanciare un SOS (si raccontava anche di temerari che
ricevevano anche la risposta coi due fili sulla lingua per “decodificare” le
scosse elettriche!). “Gli impiegati che
si dilettano di osservazioni meteorologiche (terremoti, aurore boreali,
burrasche, ecc.) possono notare fenomeni che altrimenti rimarrebbero
inosservati perché la loro energia non è sufficiente a vincere l’inerzia
dell’ago magnetico, invece quando l’ago, per la presenza della corrente, si
trova in una posizione di equilibrio instabile, è più pronto ad accusare le
variazioni. È anche probabile che se ai circuiti in continua si applicassero
bussole migliori si raccoglierebbe una ricca messe di osservazioni importanti”
(Dell’Oro, citato).
In forza di tutti questi vantaggi anche in Italia,
soprattutto nelle linee secondarie (ad esempio la Siena-Poggibonsi), furono
sperimentati circuiti a corrente continua, ma con risultati deludenti per via
dell’unico vero inconveniente di questo sistema: la necessità di chiudere la
levetta di shunt S alla fine del dispaccio. Per gli americani questa operazione è
sempre stata naturale e non ho mai letto di disguidi causati dall’aver dimenticato
aperto il circuito. L’inventiva degli italiani (ma forse solo la pigrizia,
l’incompetenza tecnica degli “incaricati” supplenti dei “titolari” degli
uffici, il malcostume, la negligenza, ecc.) li ha indotti invece a cercare di
“automatizzare” questa elementare operazione manuale.
Ne nacquero dei tasti speciali per il Morse in “corrente continua” con i quali,
automaticamente, iniziando a manipolare si apriva il ponticello S, e cessando di manipolare si
richiudeva. Il più noto era il Forcieri (vedi foto), in cui una paletta, spinta
dalle dita quando afferravano il pomello, fungeva da interruttore automatico.
Questa soluzione però, se era brillante dal punto di vista tecnico, non lo era da
quello fisiologico, perché la paletta, con la sua controspinta al dito indice, produceva
un senso di stanchezza e infastidiva gli impiegati, abituati a manipolare il
tasto in libertà “fisiologica”, senza forzature imposte. Una miriade di
impiegati (Gazzarrini, Gallego, Pugnetti,
Evola, ecc., vedi un cenno nel museo Chiarucci) cercò soluzioni
alternative, tutte basate su levette snodate e molle, le più “morbide”
possibili per non indolenzire la mano dell’operatore. Immancabilmente però con
molle deboli il contatto elettrico non era sicuro e questo, aggiunto alla
polvere, alla ossidazione dei contatti, allo “stiramento” delle molle col
passar del tempo (allentamento o snervamento) faceva si che il rimedio, alla
fine, si rivelava peggiore del male!
Tanti,
all’epoca, erano dell’idea che se il tasto Forcieri (o quelli simili) fosse
stato messo in mano ai novizi questi si sarebbero abituati a maneggiarlo senza
sforzo, esattamente come avevano fatto tutti gli operatori all’inizio della
carriera, quando per manipolare il tasto prima si muoveva tutto il braccio, poi
l’avambraccio soltanto, poi il pugno e infine il solo dito, diminuendo di pari
passo l’indolenzimento dei muscoli. Io però, pur non sapendo telegrafare e pur
vivendo in un’epoca ben lontana da quei tempi pionieristici, sarei del parere
che non si tratta di instaurare o disfare abitudini sensomotorie e paragonerei
la paletta di Forcieri ad un sassolino in bocca o qualcosa del genere: si può
certo parlare, ma con fastidio, diciamo, “congenito”. L’unica soluzione invece
sarebbe stata copiare fedelmente i tasti americani e i loro breaker “senza molle”, al più rendendoli
il più appariscenti possibili, per accorgersi a colpo d’occhio qualora fossero
fuori posto.
A qualche “storico della scienza” questa lunga News potrà
apparire una cosa “tecnica”, o al massimo “storica”. Io mi lusingo di credere
invece, come scrivevo in apertura, che le mie considerazioni sul circuito
telegrafico chiuso o a “corrente continua”
– in tutto paragonabile al telegrafo o telefono a cordicella di Weinhold –
travalichino l’ambito puramente tecnologico o quello di un libretto di
manutenzione di una macchina qualsiasi, per elevarsi a Scienza o, se si
preferisce, a Filosofia della Scienza.