119 – Il circuito a corrente continua

 

Per addentrarci nello studio fisiofisico della manipolazione Morse, e trarne elementi utili alla telelinguistica, bisogna avere almeno un’infarinatura sui tre principali sistemi di collegamento delle reti telegrafiche e sulla relativa terminologia (vedi i rispettivi schemi tratti da Culley, citato, 7a ediz., con mie piccole modifiche). In particolare, in questa News esamineremo i primi due, mentre il terzo lo tratteremo nella prossima News.

Nel circuito Morse ordinario (schema a sinistra), quello più usato e conosciuto in Europa, quando nessuna stazione trasmette le pile non sono collegate, non circola corrente, gli elettromagneti (dei sounder o degli apparati scriventi) non sono eccitati e le leve sono sollevate. Se una stazione inizia a trasmettere abbassa il proprio tasto e mette in rete la propria pila: tutte le leve degli elettromagneti della linea seguiranno in fase i movimenti della leva del tasto e quando si abbassa il tasto si abbassa anche la leva, e viceversa. Per i profani di elettrotecnica il concetto riuscirà più chiaro osservando il “telegrafo a cordicella” di Montillot. Questo sistema Morse si suole chiamare “a corrente intermittente” o “a circuito aperto”, denominazione – quest’ultima – un po’ infelice perché il circuito, anche se a riposo non vi circola corrente, è sempre chiuso (dai tasti posti in “posizione di ricezione”), e non potrebbe essere altrimenti perché una soluzione di continuità in una stazione qualsiasi impedirebbe alle altre sia la “chiamata” sia la “comunicazione”.

Il secondo schema è il “Morse a corrente continua” in cui ci siamo più volte imbattuti, a cominciare dalla Morse News 20 (L’incudine di Forcieri, 10.5.04) e a finire con la Buccola News 23 (Fire Alarm, 23.2.05). Questo era il Morse per eccellenza, quello americano, quello “doc”, a cui andavano le simpatie dei veri telegrafisti-elettricisti, cioè di coloro che collegavano gli sterminati fili “omnibus” (vedi internet vittoriano) d’America, non solo per lavoro ma per passione verso la nuova arte, l’elettrotecnica, che stava nascendo in quegli anni. Tra i tanti articoli che ho letto in merito segnalo quelli di G. Dell’Oro, Z. Ferranti (Il Telegrafista, 1881 e 1885) e A. Artom (citato), da cui provengono buona parte delle osservazioni di queste righe.

Ho ripetutamente scritto - in queste News e nei miei Atomi - e continuo a sottolineare con forza che il Morse europeo, quello “cartaceo” e con “timing” teorici, è un sottoprodotto, un surrogato della “lingua madre” americana. La differenza non sta solo nell’alfabeto usato (rispettivamente Gerke e Vail), nello stile di manipolazione e nella ricezione uditiva, ma sta anche, e aggiungerei soprattutto, nel tipo di collegamento tra le varie stazioni. Come sostiene J. B. Calvert, mentre in America c’erano operatori “skilled” e apparati spartani, in Europa invece si studiavano apparati sofisticati per operatori “unskilled”. Lo spirito americano era “pratico” e spiccatamente funzionale: il loro filo telegrafico (“landline”) era sì “a circuito chiuso”, ma anche “a corrente continua”, intendendo semplicemente con queste due espressioni non già che non era alimentato in alternata, come noi moderni saremmo indotti a pensare (la corrente alternata, e la telegrafia a correnti vettrici, verranno molto tempo dopo!), ma che, anche “a riposo”, il circuito era continuamentesotto tensione”, e inoltre non aveva soluzioni di continuità (per forza di cose, come abbiamo già detto).

Questo circuito “chiuso” era ottenuto mettendo le pile (a polarità invertite, si veda il secondo schema) solo nelle stazioni capolinea, e munendo tutti i tasti di una levetta supplementare S (“circuit breaker”, shunt o ponticello), messa a fianco del tasto (vedi Morse News 83), che doveva essere spostata soltanto quando la relativa posta iniziava a trasmettere. Anche nel circuito a corrente continua, si badi, i movimenti delle leve del tasto e delle leve dei sounder sono sincroni ossia in fase (Morse ordinario).

A parte le considerazioni economiche e strettamente tecniche del risparmio delle batterie (che erano a liquido, duravano mesi e, almeno alcune, tra cui la cosiddetta “pila italiana”, addirittura consumavano lo zinco più a circuito aperto che a circuito chiuso!) il sistema “a corrente continua” aveva parecchi vantaggi, e forse anche qualche segreto. L’uniformità della corrente, in tutte le poste, dispensava gli impiegati dal fastidiosissimo, continuo e difficile regolaggio della sensibilità delle macchine. “Il filo di linea percorso continuamente da una corrente è per così dire animato, vivo e pronto a segnalare tutto ciò che di anormale accade sulla linea. Le interruzioni, le derivazioni sono segnalate nel momento stesso in cui avvengono, e non già quando si prova la linea come nel sistema ordinario” (Dell’Oro, citato). Gli ispettori “guardialinee” non avevano bisogno di portarsi dietro la pila per mettersi in corrispondenza con la stazione più vicina e i controlli potevano farli con un “tester” tascabile costituito da un tasto e un sounder. In caso di incidenti si potevano fare collegamenti di emergenza tagliando il filo e “manipolando” alla meglio i due spezzoni per lanciare un SOS (si raccontava anche di temerari che ricevevano anche la risposta coi due fili sulla lingua per “decodificare” le scosse elettriche!). “Gli impiegati che si dilettano di osservazioni meteorologiche (terremoti, aurore boreali, burrasche, ecc.) possono notare fenomeni che altrimenti rimarrebbero inosservati perché la loro energia non è sufficiente a vincere l’inerzia dell’ago magnetico, invece quando l’ago, per la presenza della corrente, si trova in una posizione di equilibrio instabile, è più pronto ad accusare le variazioni. È anche probabile che se ai circuiti in continua si applicassero bussole migliori si raccoglierebbe una ricca messe di osservazioni importanti” (Dell’Oro, citato).

In forza di tutti questi vantaggi anche in Italia, soprattutto nelle linee secondarie (ad esempio la Siena-Poggibonsi), furono sperimentati circuiti a corrente continua, ma con risultati deludenti per via dell’unico vero inconveniente di questo sistema: la necessità di chiudere la levetta di shunt S alla fine del dispaccio. Per gli americani questa operazione è sempre stata naturale e non ho mai letto di disguidi causati dall’aver dimenticato aperto il circuito. L’inventiva degli italiani (ma forse solo la pigrizia, l’incompetenza tecnica degli “incaricati” supplenti dei “titolari” degli uffici, il malcostume, la negligenza, ecc.) li ha indotti invece a cercare di “automatizzare” questa elementare operazione manuale.

Ne nacquero dei tasti speciali per il Morse in “corrente continua” con i quali, automaticamente, iniziando a manipolare si apriva il ponticello S, e cessando di manipolare si richiudeva. Il più noto era il Forcieri (vedi foto), in cui una paletta, spinta dalle dita quando afferravano il pomello, fungeva da interruttore automatico. Questa soluzione però, se era brillante dal punto di vista tecnico, non lo era da quello fisiologico, perché la paletta, con la sua controspinta al dito indice, produceva un senso di stanchezza e infastidiva gli impiegati, abituati a manipolare il tasto in libertà “fisiologica”, senza forzature imposte. Una miriade di impiegati (Gazzarrini, Gallego, Pugnetti, Evola, ecc., vedi un cenno nel museo Chiarucci) cercò soluzioni alternative, tutte basate su levette snodate e molle, le più “morbide” possibili per non indolenzire la mano dell’operatore. Immancabilmente però con molle deboli il contatto elettrico non era sicuro e questo, aggiunto alla polvere, alla ossidazione dei contatti, allo “stiramento” delle molle col passar del tempo (allentamento o snervamento) faceva si che il rimedio, alla fine, si rivelava peggiore del male!

Tanti, all’epoca, erano dell’idea che se il tasto Forcieri (o quelli simili) fosse stato messo in mano ai novizi questi si sarebbero abituati a maneggiarlo senza sforzo, esattamente come avevano fatto tutti gli operatori all’inizio della carriera, quando per manipolare il tasto prima si muoveva tutto il braccio, poi l’avambraccio soltanto, poi il pugno e infine il solo dito, diminuendo di pari passo l’indolenzimento dei muscoli. Io però, pur non sapendo telegrafare e pur vivendo in un’epoca ben lontana da quei tempi pionieristici, sarei del parere che non si tratta di instaurare o disfare abitudini sensomotorie e paragonerei la paletta di Forcieri ad un sassolino in bocca o qualcosa del genere: si può certo parlare, ma con fastidio, diciamo, “congenito”. L’unica soluzione invece sarebbe stata copiare fedelmente i tasti americani e i loro breaker “senza molle”, al più rendendoli il più appariscenti possibili, per accorgersi a colpo d’occhio qualora fossero fuori posto.

A qualche “storico della scienza” questa lunga News potrà apparire una cosa “tecnica”, o al massimo “storica”. Io mi lusingo di credere invece, come scrivevo in apertura, che le mie considerazioni sul circuito telegrafico chiuso o a “corrente continua” – in tutto paragonabile al telegrafo o telefono a cordicella di Weinhold – travalichino l’ambito puramente tecnologico o quello di un libretto di manutenzione di una macchina qualsiasi, per elevarsi a Scienza o, se si preferisce, a Filosofia della Scienza.

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