4.
La mano parlante
Il tasto telegrafico, in mano ad un virtuoso del Morse, è
stato giustamente paragonato al bulino del cesellatore o al pennello del
pittore (Nicola Mastroviti), alla
penna del calligrafo, alla bacchetta del percussionista, alla tastiera dello
stenotipista, ecc. Io mi sono già azzardato ad equipararlo all’estesimetro di
Buccola (un cenno in AG 12), ma, senza volare tanto in
alto, possiamo tranquillamente assimilarlo al microfono.
Agli albori della telefonia
– di soli pochi decenni posteriore alla telegrafia
elettrica – i primi microfoni (Bourseul, Reis, Berliner, Edison, Hughes, ecc.) non erano
altro che sottili modifiche del tasto telegrafico: due contatti, che toccandosi
più o meno “perfettamente”, riuscivano a riprodurre la parola! Purtroppo solo chi conosce a fondo
questo ramo della storia della scienza può comprendere quello che intendo dire, e cioè che tra telegrafia e
telefonia non c’è mai stata la separazione netta che normalmente si crede. Non
solo, ma come le ricerche di telelinguistica cominciano a mostrare
– e l’articolatore Morse a confermare –, la telegrafia,
come in passato ha “dato una mano” alla sorella maggiore, la telefonia, così
adesso contribuisce a sviscerare i più reconditi (prosodici e lucidiani)
fenomeni del “parlato”.
Orientativamente possiamo dire che il telegrafista che
manipola per lavoro, specie se con
precisione e “silenziosità” svizzera o teutonica (vedi Morse
News 123), col suo tasto scrive;
invece quando manipola il tasto per diporto,
per “chattare” con qualche amico
lontano, col suo tasto e con la sua mano parla.
Nel primo caso il timing è più
rispettato, nel secondo la mano obbedisce solo alla… arbitrarietà saussuriana.
Circa il rapporto di timing punto/linea più noto – 1
tempo : 3 tempi – esso è il più “accreditato” unicamente perché è
quello che è stato più semplice realizzare nei trasmettitori automatici. Il timing fisiologico invece, pur
certamente esistendo (la legge di Buccola
docet!), non ha necessariamente questa “pesatura” imposta, ma dipende
invece dalla taratura delle molle fisiche
del tasto e da quelle “fisiologiche”
dell’operatore. Variando una o entrambe queste calibrazioni si può
tranquillamente arrivare, rimanendo (presumo)
ottimi telegrafisti, al rapporto 1:2 e forse, all’opposto, anche
quasi al rapporto 1:4, sempre, beninteso, mantenendo costante la frequenza
fondamentale fisiologica di manipolazione, che come abbiamo visto (Cap. 2)
genera sia il punto che la linea, con l’unico punto fermo che per
ogni ciclo si generano due punti o una linea,
indipendentemente dalla durata temporale o angolare (pesatura). Certo, per progredire nella ricerca bisogna fare rilievi
sul campo, con i telegrafisti che trasmettano non solo serie di punti o di
linee, ma segnali veri e “raccordati”.
Circa il “tono muscolare” del braccio che telegrafa tutti i testi si limitano
a dire che il polso deve essere perfettamente flessibile (limber)
e nessuna parte della mano deve avere rigidità (stiffness). Il resto è
affidato all’empirismo, e siccome la pratica “basta e avanza”, l’articolatore Morse e la telelinguistica potrebbero apparire
superflui, come lo studio della musica per quei musicisti che suonano
meravigliosamente solo ad orecchio.
Invece il Morse, come andiamo ripetendo e dimostrando da anni – con scarso
seguito! –, si presta moltissimo, anzi è finalizzato all’approccio scientifico.
Anche in fisiologia il tono
muscolare ha ancora segreti da svelare. Esso, sottolineano due luminari (G. Rindi, E. Manni, Fisiologia umana, 6° ed.
1994, p. 254), “è come la coscienza (e
potremmo aggiungere: come il significato…): tutti sanno che cos’è finché non si tenta
di darne una definizione. Comunque esso viene generalmente definito come quello
stato di lieve contrazione basale che
posseggono i muscoli in riposo. Così quando i due arti superiori pendono
rilasciati a fianco del tronco, le dita delle mani si presentano leggermente
flesse, perché il tono dei muscoli flessori, vale a dire il loro stato di
contrazione di base, è leggermente superiore a quello dei muscoli estensori”.
Sempre dal Manni mi piace riportare un cenno alla dismetria (risalente a Luciani), fenomeno che ben si attaglia,
credo più della asimmetria, alla linea
Morse come la andiamo sviscerando da tempo. Si tratta dei movimenti esagerati
di un arto leso, che hanno perso la giusta graduazione ed armonia, come per
esempio nella locomozione, quando si solleva troppo il piede e lo si batte a
terra con violenza. C’è insita l’idea di patologia, di disturbo nel pattern di movimenti di dita, polso e
braccio.
Fig 15
Concludo con un aneddoto che credo faccia capire bene
l’essenza orale del Morse. Quando il
collega Siniscalchi (vedi Morse News 37) mi portò
nell’aula di telegrafia notai che alla lavagna erano rimasti scritti, chissà da
quanto tempo!, alcuni segni Morse (Fig.
15). Anche se erano stati tracciati da un ottimo telegrafista, la lunghezza
dei tratti, diciamo lo spacing,
lasciava alquanto a desiderare, o addirittura poteva indurre in errore. Il
Morse si può sì scrivere sulla carta, col gesso o comporre a mano pezzo per
pezzo, mettiamo, in tabelloni murali, ma a prezzo di uno snaturamento tradito da errori di spacing che invece nel suo habitat naturale, il timing, spariscono.
Non dimentichiamo poi che lo
strumento che abbiamo presentato lavora a frequenza infrasonica, articolatoria,
via di mezzo tra il Morse scritto e quello vero, fonetico.