RE
52 – Sepolcro o cisterna? (2.10.2012)
Nel museo civico di Termini Imerese è conservata l’incisione di Gandolfo Ferrara (circa 1820) del cosiddetto “sepolcro”
di Giancaniglia (immagine
a sinistra, da O. Belvedere, Termini Imerese, Ricerche
di Topografia e Archeologia urbana, 1993, Fig. 6), un rudere, nei pressi
del cimitero della città, di cui presento l’interno (foto al centro) e una vista esterna (foto a destra). Confrontando il familiare profilo del Capo
Zafferano inciso da Ferrara con l’ancora
più nota (e amata!) sagoma del monte
S. Calogero che fa da sfondo alla fotografia si deduce
che le due vedute sono diametralmente opposte e, soprattutto, che l’arco in
basso a destra nell’incisione è rivolto verso la porta Palermo (vedi copertina di AG 28) di Termini. Dell’interno di
quest’antica fabbrica esiste anche, al museo dell’Ermitage,
un bellissimo acquerello di J. Houel (vedi Belvedere, cit., Fig. 5).
Malgrado periodiche citazioni da parte di storici locali o dotti
accademici anche in questo caso, come per il Castello, il
Cornelio e tutte le altre memorie storiche della città “disseppellite” dallo scrivente, i
termitani comuni, pur colti, non ne avevano alcuna contezza – almeno fino a qualche anno fa – o
peggio, come documentato ad esempio in RE 50 (Un errore toponomastico) e in RE 53 (Un castello “sconfinato”), ne avevano cognizione vaga e spesso del
tutto errata. Questo è un dato di fatto – lo sottolineo con forza e con amarezza –
sia per i miei ricordi diretti fin quando ho vissuto a Termini (fine anni ’60), sia perché desunto dalle
varie “interviste” ai miei
concittadini, a cominciare dal compianto Agostino
Navarra, durante il mio ultimo e breve soggiorno a Termini nell’ottobre 2008 (vedi, in particolare, PO 32 – Etologia termitana). Naturalmente, il successo di questa mia opera
di divulgazione scientifica termitana (vedi
AG 28 – AG 29 – AG 30 – AG 37 – RE 31 – RE 34 – RE 36 – RE 37 – RE 39 – RE 47 – RE 48 – RE 50), apprezzata (almeno a titolo privato) dagli ultimi
due Sindaci, dal geologo Contino e da
altri, è dovuto principalmente alla potenza di internet.
Tornando all’argomento di questa scheda, il nostro rudere (mi pare di ricordare, perché l’ho potuto
esaminare solo pochi minuti) ha pianta quadrata,
di circa 5 x 5 m, mentre l’altezza è
sconosciuta – la volta, come pure la
porta d’ingresso, è una manifesta superfetazione relativamente recente –
non solo perché l’interno è del tutto interrato, ma perché, a quello che mi
risulta (e che mi ha raccontato un
anziano abitante della zona, il sig. Capuano)
non si è mai scavato, né al suo interno, né nelle immediate vicinanze. Pare che
un tempo questo locale fosse frequentato da prostitute, mentre durante l’ultima
guerra fu usato come rifugio, grazie a trincee o cunicoli più
o meno segreti.
Anche se l’attribuzione ufficiale è quella di “sepolcro” – perché sembra che il sito sia stato una necropoli (anche se – per quel poco, ripeto, che ne so
– non sono mai stati trovati né scheletri né suppellettili funerarie) – la
cosa che più colpisce il visitatore comune “non
archeologo” è l’aspetto di cisterna di questo luogo chiuso, con apparenti
segni di umidità e del livello dell’acqua. Credo che sia lecito allora avanzare
la cauta “ipotesi di lavoro” che tale
“sepolcro” possa essere stato
adibito, se non “ab origine” almeno
per qualche tempo, come vasca di carico per alimentare i sottostanti molini,
pastifici e trappeti nei periodi di siccità del fiume San Leonardo. Tali
opifici idraulici (mulineddi),
che abbiamo già presentato in CA 24, sono dettagliatamente
indicati – Satari
(183), Bellosso (184), Martino (185), Errante (186), insieme ad un probabile altro opificio più a
destra – nel ritaglio della mappa del Daidone
(si veda CA 16 e si approfitti dell’occasione per aprire la stessa in alta
risoluzione per convincersi, una volta di più, dell’abissale differenza tra
la “mappa di Berlino” presentata dallo scrivente e quella presunta
“equivalente” della Dufour che, secondo la vox populi termitana, “già si conosceva”).
Si può anche avanzare l’ipotesi che
tale vasca possa essere stata alimentata dall’acqua Cornelia tramite un
condotto dal “castello primario” (la cosiddetta “Curia” – vedi AG 28) della villa Palmeri fino al già notato “meato” del Ferrara. In
ogni caso questa mia ipotesi ha una valenza ben minore (per mancanza, allo stato attuale, di riscontri più oggettivi) di
quella sulla “Curia”, che è
suffragata non solo da testi autorevoli, ma anche dalla “riscoperta” (e, augurabilmente, dal loro “disseppellimento”) delle due
grandi cisterne del Belvedere.