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– L’aratro di Pigliacampo
Non so se Renato
Pigliacampo (vedi foto) abbia mai
solcato avanti e indietro un campo di grano con un aratro tirato da buoi, di
certo ha “arato” il campo della
cultura col “vomere” della sua penna.
Prima però di andare avanti occorrono alcune parole introduttive a beneficio di
chi non conoscesse né questo autore né il famoso “indovinello veronese”, il più antico documento del “volgare” italiano.
Pigliacampo è persona eccezionale, per più
aspetti. Pur essendo non udente ha conquistato cattedre universitarie e pubblicato
poderosi saggi di psicosociologia, battendosi soprattutto per la causa dei
sordi italiani (notizie e suoi scritti si
possono trovare in rete, anche tra le mie News). Io non lo conosco molto,
ma dalla sua recensione
al mio opuscolo sull’iposema di Lucidi e, soprattutto, da qualche email
privata che da qualche anno ci scambiamo, mi sono convinto che egli è il solo che abbia intuito la natura e la
portata delle scoperte di Lucidi. Forse, paradossalmente, perché è sordo!
“Se pareba boves, alba
pratalia araba, albo versorio teneba, negro semen seminaba”. Tutti i
liceali sanno che questa scena agreste rappresenta non solo l’aratura e la
semina, ma sottende almeno un’altra interpretazione e cioè l’atto della
scrittura: i buoi raffigurano le dita della mano che tengono una penna d
Più in particolare, distinguendo nell’aratro il “coltro”, cioè la lama verticale
anteriore che apre il solco; il “vomere”
che taglia la terra orizzontalmente; e il “versoio”
che rovescia la terra fuori dal solco da un unico lato, il paragone calza alla
perfezione con l’inizio della vera e propria “grafia” che, come ricorda Vignini, “non è una semplice impronta o impressione, ma impressione e movimento di una punta solcante
combinati” (vedi Buccola
News 51).
Ciò detto, senza divagare oltre, torniamo al tema di questa News. In una lontana discussione
telematica (26.1.02) sulla maggiore
genuinità della “lingua dei segni” (quella dei sordomuti) rispetto alla “lingua” che gli dei, a detta di Voltaire o Talleyrand, avrebbero dato agli uomini “per mascherare e non per esprimere il pensiero”, Pigliacampo ebbe a dirmi che “la pressione della penna del sordo che scrive, anzi
“solca” addirittura il foglio, è maggiore rispetto a quella della persona
udente”.
Questa osservazione potrebbe quasi certamente essere
confermata con prove sperimentali al leggio di Colucci o di Kraepelin o con più moderne “bilance di scrittura”, trovando forse
qualche eccezione, a cominciare dalla “firma”
(vedi) dello stesso Pigliacampo che, almeno all’esame “superficiale” – cioè grafologico e
atemporale – si presenta con fisionomia equilibrata e scorrevole. Con
l’approfondimento scientifico però si potranno discriminare le scritture “partecipate” e fisiologicamente
ridondanti, irruenti, contorte, spasmodiche dalle scritture “spensierate” e fisiologicamente equilibrate,
sane. Le prime, si badi, “aprono” il
solco, le seconde lo “seguono”.
P. S. – Prima di licenziare questa pagina aggiungo
qualche riga per cercare di prevenire l’errore in cui continua a cadere l’amico
Di Trocchio e cioè di
scambiare per banalità la chiarezza delle mie News, in particolare quella dell’effetto Dragoni. Lì si è trascurato il
riferimento alla legge degli errori
di Buccola,
in questa – che riassume le idee guida dell’ultimo capitolo (omesso) del mio travagliato opuscolo dell’iposema – si potrebbe
liquidare l’ultimo periodo con l’ovvietà del “sentiero battuto” nel bosco, del battistrada, dell’apripista, ecc.
(vedi, per esempio, Il segno vivente
del Pagliaro). Per interpretare bene
il mio pensiero invece occorrerebbe aver letto preventivamente tutti i miei
scritti sul fonografo (soprattutto AG 16)
o, in alternativa, prendere una laurea in ingegneria e studiarsi, per esempio, H. E. Roys, Disc recording and reproduction,
per capire la differenza tra una testina o “testa”
(si dice così!) di incisione e una di
lettura (nei dischi microsolco).