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– La Meccanografica di Vignini
Archeologicamente, esiste, infatti, una scrittura del
genere, ed è quella che si rinviene in certe caverne, sulle cui pareti, rese
plastiche da alterazioni dovute, probabilmente, all’umidità, l’uomo tracciò,
con le dita, i primissimi segni.
Era tale, in antico, l’associazione fra grafia e plasticità del
mezzo destinato a ricevere e conservare i segni, che gli indigeni americani
incontrati da Humboldt a oriente dell’Orinoco, per spiegare come potessero trovarsi, a
straordinarie altezze, sulle rocce delle montagne granitiche fra il villaggio
di Urbana e le rive del Caura, rappresentazioni
incise del sole, della luna, degli astri e geroglifici indecifrati,
dicevano che quei segni erano stati tracciati dagli antenati in un tempo in cui
“le pietre erano ancora di tale mollezza
che gli uomini poterono solcarveli con le loro dita” (Humboldt
– Vue des Cordillères).
Ma, prima ancora del segno
grafico [intendo
per impronta
un segno ottenuto comprimendo una matrice sul mezzo atto a ricevere l’impronta
stessa. Chiamo invece grafico un segno ottenuto comprimendo e muovendo sulla materia scelta una punta solcante (incisione)] sulla creta, nacque quello impresso. L’impronta, anzi, è un fatto naturale, che diede all’uomo
l’idea di potersene valere come segnale. Le impronte degli animali sulla neve e
sul terreno fangoso sono come tante frecce di direzione che vengono seguite per
scovare la preda; gli animali stessi, prima dell’uomo, le sfruttano.
E, dall’impronta su
mezzo plastico al grafico su mezzo
plastico , il passo è breve. In
questa seconda fase, si ha l’inizio vero e proprio della grafia (non semplicemente impressione, ma impressione e moto grafico combinati).
Lasciare, dunque, una traccia, un segnale, un ricordo e, poi,
forse, la marca di proprietà o di fabbricazione, furono le necessità prime che
indussero l’uomo ad usare il piede, la mano, le dita, le unghie, le bacchette,
i bastoncelli, le pietre, ecc., per imprimere e segnare graficamente.
Stabilire se l’idea dell’incidere
e quella dell’imprimere a mezzo di coloranti siano o meno coeve,
non è impresa facile; comunque debbono ambedue ritenersi posteriori a quella
dell’imprimere e del segnare su mezzo plastico.
Negli scavi effettuati da Raphael Requeña, trent’anni fa, nella
valle del Tacarigua (Aragua-Venezuela),
furono rinvenuti dei cilindretti decorati che, secondo il Requeña
medesimo, dovevano servire per fare tatuaggi leggeri, ossia decorazioni a
stampa (stampa decorativa a cilindro ruotante).
Come si vede, l’idea della rotativa potrebbe essere
impugnata dagli eredi dei paleolitici del Venezuela o, per lo meno, dai Sumeri, che, 5000 anni or sono, usavano identici cilindri
per stampare documenti, segnare marche di fabbricazione, decorare pareti e
tessuti.
L’idea della stampa è vecchia quanto il mondo.
Anche noi occidentali abbiamo gli esempi dei cilindri, dei
sigilli (tessere, marchi di fabbrica, marchi su bestiame e su schiavi, marchi
su condannati, ecc.); ma i Cinesi stampavano libri, molti e molti secoli prima
di noi, facendo uso di clichés
incisi su legno a pagina intera (un clichè, cioè, per ogni pagina). Questi
libri xilografici furono introdotti in Europa agli inizi del 1400. Di lì a
poco, con Gutemberg, siamo al “tipo”, cioè al carattere mobile.
Eppure, i caratteri mobili non sono una nostra invenzione.
Il famoso “disco di Festo”
fu impresso, mediante punzoni tipici (
Perché siano passati dei millenni per arrivare alla stampa,
come da noi oggi è intesa e sviluppata, è un mistero che non può essere
spiegato mediante la deficienza di mezzi tecnici. La più semplice logica ci
assicura che, con la nascita del primo alfabeto del mondo, avrebbe potuto
benissimo sorgere l’arte della stampa. E, forse, c’era: sotto forma di
normografi, di mezzi di riporto (caratteristici ed antichissimi i mezzi di
riporto dei disegni su stoffe, dei disegni per ricami, per decorazioni, ecc.),
di punzoni tipici (monete). Delle stesse radici TIP e PINT, da cui sono sorte
la parole τυπος
= impronta e punctum
= punto (da cui punzone) troviamo
l’origine in onomatopee molto antiche indicanti il rumore caratteristico del
battere, del coniare, dello scolpire: pin!,
pun!, tip!
Sembra, dunque, che una forza ignota abbia voluto impedire il
diffondersi della scrittura. Ed è, infatti, con l’umanesimo che sorge la stampa; non, a causa di questa, quello.
L’idea della dattilografia come da noi intesa (scrittura
mediante pressione del dito su di una leva recante un tipo) avrebbe dovuto, logicamente, precedere quella del carattere mobile, perché una macchina per scrivere non è altro –
fondamentalmente – che l’organizzazione meccanica di una serie di punzoni, identici, dal punto di vista
strumentale, a quelli usati per imprimere
la scrittura pittografia sul disco di Festo (quasi
4000 anni or sono).
Invece, è avvenuto il contrario.
Gutemberg, infatti, e tutti quegli altri che
lo seguono, si preoccupano essenzialmente del problema della composizione della pagina destinata alla
riproduzione,
non già a creare un tipo solo, che
possa essere usate quante volte si voglia per scrivere un solo esemplare. A
questo scopo era ritenuta più che sufficiente l’opera degli amanuensi.
Ciò dimostra che la tipo-grafia
(1438) non nacque dal desiderio di ottenere la chiarezza della lettura, e
nemmeno dalla tendenza stenografica, ma dalla necessità di realizzare la
molteplicità delle riproduzioni, da una necessità che si potrebbe chiamare, più
esattamente, poli-grafica.
Perché la concezione dattilografica sia sorta dopo quella
tipografica deve, secondo me, vedersi nel desiderio di avere a portata di mano
un mezzo per “scrivere in caratteri
simili a quelli di stampa”.
Oggi, con tutta questa cartaccia, lordata dalle rotative e
dai rotocalchi, che esaspera talvolta lo spirito umano, non si sente più quel
sacro senso di “amore” per la pagina
stampata che sentivano i nostri nonni e che ancora noi provammo, nella nostra
giovinezza, quando un bel libro ci appariva come la sintesi dei miracoli
compiuti dal progredire umano; quando il solo odore della tipografia o del
giornale fresco riusciva a spronarci alle belle battaglie della mente. Ma chi
sa quanti, nel XVI e XVII secolo, pensarono con avidità alla possibilità di
costruirsi una piccola tipografia casalinga, non tanto, forse, per avere le
molte copie, quanto per possedere il mezzo di scrivere con gli stessi nitidi caratteri delle stamperie.
Caratteristica, a questo proposito, la espressione di Vittorio Alfieri, che
bramava avere una “piccola stampieruccia a mano” per imprimere i suoi sonetti
(1786).
II –
GIOCATTOLI E MACCHINE
Esiste, oggi, in Italia,, una pubblicazione che deve
ritenersi fondamentale in fatto di cultura dattilografica ed è il bellissimo
volume di Giuseppe Aliprandi: “Dalla macchina da scrivere al dattiloscritto” [presso l’autore –
via Roma, 45 – Padova], che, insieme con il “Manuale ed antologia della dattilografia italiana” costituisce
quanto di meglio sia stato scritto, dopo anni e anni di appassionate ricerche,
da questo infaticabile studioso.
Dalle opere dell’Aliprandi, come
da quelle del Budan [vedi Bibliografia nel citato
libro di Aliprandi], attingo
le notizie contenute nel presente opuscolo. Aggiungerò alcuni pensieri
personali ai dati che delineano le origini della
macchina per scrivere: credo doveroso difendere i diritti di priorità dell’Italia
in mezzo alle caotiche, imprecise e, spesso, false affermazioni che
attribuiscono ora a questa ora a quella nazione il merito di avere, per prima,
dato al mondo un mezzo che ha rivoluzionato completamente, in un secolo, la
tecnica scrittoria.
Aliprandi, seguendo il Budan,
distingue la storia delle macchine da scrivere in due
grandi periodi: quello dei precursori
e quello industriale (dal
È, per esempio, fuori di posto, nella storia della
dattilografia, parlare dei dadi del Rampazzetto (a meno che non fossero qualche cosa di meglio di ciò che si
dice); classificare fra le macchine per scrivere
Come pure non è possibile accettare, fra le macchine
destinate a chi ci vede (visografiche),
quelle costruite per i ciechi (tiflografiche ed estesiografiche),
poiché i concetti costruttivi debbono necessariamente differire in relazione
con la destinazione dello strumento.
La storia della dattilografia è, invece, la storia della macchina
per scrivere. E non può chiamarsi macchina se non un congegno in cui, alla
chiarezza dei caratteri ottenuti sulla carta, si uniscano
i concetti di utilità, di rapidità, di funzionalità. In altre parole, non
possono chiamarsi macchine per scrivere delle rotelle, come la Pocket inglese, e neppure
le macchine ad un tasto, in cui non
esiste la indipendenza dei tipi.
Le macchine ad un tasto sono, infatti, costituite,
generalmente, da un supporto (disco,
piatta, barra, pettine, cerchio, rullo, ecc.) sul quale sono progressivamente
incise o stabilmente applicate, le lettere dell’alfabeto ed i segni grafici
supplementari. Il supporto gira su un
perno o scorre entro due guide – più o meno automaticamente – fino a presentare alla carta
destinata a ricevere l’impronta, la lettera voluta. In questo momento, per
mezzo di una leva, si comprime la lettera
sul foglio. Per stampare la lettera successiva, è, poi, sempre necessario far scorrere a vuoto, lungo la barra o il
cerchio, le lettere intermedie non necessarie. Si possono così avere
passaggi a vuoto che impegnano
talvolta la totalità delle lettere incise sul supporto. I tipi, in questi
congegni, sono, dunque, interdipendenti.
Si tratta, come si vede, di strumenti che hanno lo scopo
precipuo di imitare, scimmiottare – a fine eminentemente
estetico – la scrittura tipografica: e, spesso, non sono che
giocattoli, come tali adoperabili, ma non degni di figurare nella storia della
dattilografia.
Macchine per scrivere sono, invece, quei congegni nei quali
i caratteri, tutti indipendenti fra
loro, sono posti a disposizione dell’arbitrio dell’operatore a
mezzo di una tastiera multipla; nelle quali, cioè, è totalmente evitata
l’operazione della scelta – mediante rotazione o scorrimento del supporto – del
carattere da imprimere.
La macchina per scrivere deve rispondere al principio
fondamentale della sostituzione
vantaggiosa della scrittura a mano; deve, cioè,
essere rapida, precisa e (possibilmente) … meno rumorosa delle attuali.
Possono chiamarsi documentazioni dello sforzo creativo della
macchina da scrivere aggeggi del tipo Burth (1829), ingranaggi come quelli del Pierrot (1839) o
labirinti meccanici del genere =. T. Eddy (1850)?
Si tratta di realizzazioni che richiesero evidentemente
tempo, pazienza, astrusità…; ma mancano di ingegno
aderente alla realtà. E questo difetto è dimostrato dalla interdipendenza
delle leve o dei punzoni.