RE
43 – L’aureola sotto il “telame” (28.4.2012)
alla memoria di mia madre Maria
Quando, lo scorso 28
febbraio, andai alla chiesa del Gesù (vedi
RE 41) per
vedere la “macchina barocca” di Andrea Pozzo – in funzione, nella cappella
di S. Ignazio, ogni giorno alle 17,30
– per prima cosa, avendo un po’ di tempo, andai in cerca di una specie di “tellurio” eliocentrico (un modellino a manovella simulante il moto
di terra e pianeti) che ricordavo di aver visto, 40 anni prima (al mio arrivo a
Roma, un ricordo associato a quello degli ingranaggi della “torre Capocci” –
vedi RE 7) nella
sagrestia della Chiesa, ma non c’era più, pare perché rubato (fu forse in questa circostanza che ebbi
anche la prima notizia del furto ben maggiore, di due secoli fa, e di cui ho
già accennato, della statua di puro argento di S. Ignazio). Mi sedetti
allora in una panca al centro della chiesa (più
esattamente nel punto di incrocio tra l’asse
dell’altare maggiore e l’asse dell’altare di S. Ignazio, posto sul lato
sinistro) in attesa dell’inizio della “sacra
rappresentazione” per cui ero andato. In quel frangente la mia attenzione
fu attratta da un fenomeno ottico straordinario, che credo peṛ abbia lasciato indifferenti, forse anche per il loro meno
favorevole punto di osservazione, i non pochi turisti o fedeli (una cinquantina) che, come me,
aspettavano l’inizio dello “show”:
per una decina di minuti il grandioso ostensorio posto tra il timpano
dell’altare maggiore e il superbo catino absidale (foto al centro) rifletteva verso il centro della chiesa la luce del
sole entrante dalla grande finestra dirimpetto, sulla facciata della chiesa (vedi su
Google). Non ebbi la prontezza di
spirito di scattare una foto a quella luce abbagliante, in ogni caso dubito
molto che avrei potuto “fissare” o rendere l’ineffabilità di quel fenomeno fisico-gnomonico
(vedi RE 42).
Alle 17,30 in punto la
“macchina barocca” (restaurata di recente, assieme alla tela del
Pozzo raffigurante Cristo che consegna a Ignazio il “vessillo” della missione che è chiamato a compiere) si
mise automaticamente in funzione: per 15 minuti gli spettatori
fummo inondati da un tripudio di suoni celestiali, canti gregoriani e
soprattutto da “esercizi spirituali”
di ignaziana memoria (o paternità);
poi, mentre la citata enorme pala dell’altare (alta circa 5 m) cominciava lentamente a calare (foto a sinistra), si aggiunse una
sinfonia di luci che illumiṇ, glorificandola, l’emergente statua di S. Ignazio. Questo spettacolo sfarzoso,
in perfetta sintonia con lo stile barocco e pomposo di cui ridonda l’intera
chiesa, è certamente “edificante”, ma
non è paragonabile, a mio credere, con la suggestione dei primi tempi quando
gli specchi della “finestrella segreta”
(vedi RE 41), assieme allo specchio
convesso costituito dalla nuca d’argento del santo posta nel fuoco della
nicchia-paraboloide (tempestata forse di
pietre preziose), probabilmente creavano un “vero” splendente stellario (corona
d’oro o aureola: vedi i posticci cerchi color oro con cui ho
ritoccato la foto) “magicamente” levitante sul
capo del Santo (vedi MO 76, fenomeno del “bouquet magique”).
Un chilometro dopo la chiesa del Gesù, sulla via “papale” verso il
Vaticano, si arriva alla “Chiesa Nuova”
che ci interessa per un’altra, meno nota e più antica, “macchina barocca” (debbo la
segnalazione a Francesco Sernia). Mentre il Gesù,
e l’annessa casa Professa, era il regno di Ignazio di Loyola, questa, col suo
oratorio, era il quartier generale di Filippo
Neri. La storia dei due santi e del loro sodalizio “ad maiorem Dei gloriam”
è abbastanza nota: si pensi solo al film “State
buoni se potete”, con gli attori Dorelli
e Leroy rispettivamente nei ruoli di Filippo e Ignazio.
Nel 1606 (circa un secolo prima della macchina del
Pozzo, del 1695), per volontà di S.
Filippo (da poco morto), fu dato incarico al Rubens
di progettare una pala d’altare che inglobasse e custodisse la Madonna della Vallicella,
l’immagine miracolosa alla quale era dedicata e intorno alla quale era stata
edificata la Chiesa Nuova, e il grande pittore assolse al suo compito con il
dipinto ad olio su ardesia che si ammira sull’altare maggiore (vedi su
Google). Al centro del quadro,
proprio in corrispondenza del trecentesco affresco miracoloso, Rubens ricaṿ un’ovale alta circa un metro dietro cui
poteva scorrere, grazie ad un semplice (e
geniale, anche considerata l’epoca)
sistema di corda e contrappeso (puleggia-manganon simile a quello del Gesù), un dipinto ad olio
dell’icona sacra, nascosta anch’essa, come la statua al Gesù, sotto il “telame” (foto a destra). In più, per mettere meglio in risalto la differenza
tra il sacro e, per coś dire, il
“profano”, l’icona originale fu impreziosita da due corone
d’oro, in testa alla Madonna e al Bambino, mentre nella riproduzione
queste aureole non
furono nemmeno dipinte.
Le analogie tra le due macchine barocche, quella del Gesù e
quella della Vallicella, non finiscono qui. In base alle brevi notizie fornitemi
dai parroci delle due chiese, Padre
Daniele e Padre Vladimiro (che ovviamente ringrazio), credo di
poter riassumere le cose essenziali: entrambe hanno subito il sacrilego furto,
rispettivamente, dell’argento e dell’oro (la
prima due secoli fa, la seconda durante l’ultima guerra); in entrambe
questi tesori sono stati in qualche modo reintegrati o surrogati grazie a
benefattori privati; entrambe queste macchine (ai cui meccanismi si accede tramite bugigattoli, non più grandi di 50 cm, mimetizzati negli altari) sono state per molti
anni fuori uso; in entrambe, in tempi recenti, il dispositivo meccanico è stato
elettrificato e telecomandato; e, soprattutto, in entrambe l’ostensione, che
nei primi tempi era riservata agli eventi di
eccezionalissima solennità, è divenuta sempre più frequente, ordinaria e di routine:
al Gesù, come già detto, giornaliera, mentre alla Chiesa Nuova l’immagine
miracolosa viene “svelata” ogni
domenica e durante ogni messa o altra funzione celebrata all’altare maggiore.
Ma
questa, per coś dire, “profanazione”
dei riti e delle sacre tradizioni è comunque generalizzata e figlia dei tempi.
Mi limiteṛ a citare un esempio che conosco molto bene: fino a circa mezzo
secolo fa la statua delI’Immacolata, molto venerata a
Termini Imerese, rimaneva chiusa in una cappella della Matrice e veniva “esposta” ed “ostentata” solo una volta all’anno, in
occasione della sua “festa”, quando
caricata di moltissimi ori (oltre alle “aureole” costituite da corona e stellario), veniva portata in
processione per le vie del paese. Oggi invece la sua cappella rimane
perennemente aperta, consentendo ai devoti la completa visione o “visitazione” della statua.
Azzardeṛ ora, per concludere e
sperando di non essere frainteso (né
messo al rogo!), qualche considerazione che cerchi di conciliare Scienza e
Fede. L’aureola, che etimologicamente significa “corona d’oro”, non è solo segno distintivo di “santità”, ma anche, estensivamente, di regnanti, imperatori (si pensi, ad esempio, alla corona di Gerone
– vedi RE 40),
grandi uomini, campioni e perfino di reginette di bellezza. Ora, paragonare l'“ostensorio” (dal latino ostendere, mostrare, rivelare)
della liturgia cattolica – destinato
all'esposizione e all’adorazione eucaristica (Sepolcri e Quarantore) o alla
benedizione del Santissimo Sacramento – con il diadema con cui sono
incoronate le miss pụ sembrare blasfemo, eppure si
tratta di segni distintivi perfettamente identici perché servono “unicamente” a mettere in risalto, evidenziare (vedi disegno in calce), marcare, mettere
in luce (“sovrilluminare”,
surbrillance, Hervorheben, radiance) persone che (a prescindere da meriti e demeriti: questo, ahimè, è un altro discorso!)
sono emerse, hanno
raggiunto la Notorietà, la Fama, la Gloria.
Quando peṛ contemporaneamente viene
marcato anche lo scenario o tutto il contesto quest’eccesso di “evidenziazione”, paradossalmente e
indefettibilmente, come ben si comprende, azzera l’effetto. Come esempio
spicciolo basta pensare a quei libri scolastici o taccuini di appunti (spesso fotocopiati da qualche compagno!)
in cui gli studenti, armati di pennarello (e
di scarsa fantasia), evidenziano o sottolineano
assolutamente “tutto”!
Credo che questa “teorica
dell’emergenza” – o anche della
“rilevanza” (o “rivelanza”) nello spazio (risalto, prospettiva) e nel
tempo (risonanza) – sia adombrata
nella testimonianza di Tullio De Mauro
sul suo antico maestro Mario Lucidi (vedi AG 4, p. 23), ma credo anche che, essendo stata raccolta a distanza di
alcuni decenni, la memoria abbia tradito il grande linguista, come del resto da
lui paventato (emergenza come “necessità”
piuttosto che come “eventività”).