Fig. 20
Fig. 21
Fig. 22
Se Giuseppe Navarra ha
registrato fedelmente ciò che per tutto il '900,
e con acume finissimo, ha saputo leggere dell’anima della città, e può quindi
essere considerato il “fonoreporter” di
Termini, a Jean Houel (1753 – 1813), il celebre pittore
francese innamorato della Sicilia, che visitò per molti anni e riprese in
centinaia di incisioni o di acquerelli, spetterebbe di diritto il titolo di “fotoreporter” di Termini. Houel,
architetto di formazione e cronista “senza
pregiudizi classicistici” – come ben
sottolineato da Leonardo Sciascia o da Oscar Belvedere – è un “tecnico” che misura e rileva piante (ad esempio quella dei nostri “Bagni vecchi”),
e soprattutto, che correda le sue splendide e realistiche vedute (alla nostra città ne dedicò una decina)
di “schede” di vero e proprio
giornalismo scientifico. Eccone un paio, nella mia traduzione letterale:
“Nella campagna a sud di Termini vi sono i resti di parecchi
acquedotti costruiti negli ultimi tempi dell’impero Romano. Questi acquedotti
che portavano acqua in questa città a volte venivano da molto lontano: presso
la porta di questa città chiamata Porta Palermo si vedono porzioni
considerevoli di uno di questi acquedotti che per arrivare a Termini attraversava una valle molto profonda. Né la
sua costruzione, né quello che ne resta offre qualcosa che mi sembra valga la
pena di essere disegnato.
Entrando nella città di Termini si vedono in una vasta piazza
vicino alla piccola chiesa di S. Giovanni dei pezzi di mura antiche che si
estendono in varie direzioni: si distinguono i tratti degli acquedotti che
facevano capo ad una cisterna di cui ancora si riconosce la cinta, e alcune
parti accessorie prive di caratteri distintivi: si capisce solo che facevano
parte di qualche grande edificio. Per conoscerle bene bisognerebbe fare scavi
considerevoli. Ho disegnato qualche cosa (vedi Fig. 20, n.d.t.), ma questi muri degradati e senza forma non hanno niente di pittoresco,
né utile a chiarire la storia. Non li ho neanche incisi”.
Uno dei meriti precipui della mappa di
Termini del 1720 è forse quello di
gettare luce sui “considerevoli”
ruderi dell’acquedotto, proveniente da una “valle
molto profonda”, che Houel, come abbiamo appena letto, attesta di aver
visto, verso il 1780, accanto a Porta
Palermo. All’inizio le sue parole mi lasciarono perplesso, se non scettico, un
po’ come mi accadde con la veduta-choc
del Saint-Non (vedi cap. 5):
pensavo che avesse confuso con Porta Caccamo e che si riferisse al vallone
Barratina. Poi, quando scoprii, nella Fig. 9,
che Bevuto più (od oltre) che una
collina è una valle estesissima, e che gli archi del Mazzarino, in tempi in cui
la campagna era totalmente sgombra di case (l’insediamento
urbanistico di Porta di Caccamo o del Mazziere verrà due o tre secoli dopo!)
potevano apparire, visti da Nord (e
quindi anche dalla zona di Porta Palermo), sul ciglio di quella grande
vallata (vedi Fig. 8),
riconsiderai la cosa e conclusi che Houel non si era sbagliato.
Guardando con attenzione la Fig. 19 si noteranno, nel punto dove oggi
c’è il “palazzo Avella” (vedi Fig. 18), due quadratini bianchi che, nel
codice della mappa, indicano antiche rovine, cosa che autorizzerebbe a
ipotizzare la presenza, nell’enorme piano di S. Giovanni, di un terzo
nucleo di ruderi oltre a quelli noti oggi dell’anfiteatro e della “Curia”, vestigia poi sparite col già
descritto sbancamento di tutta la zona.
La seconda citazione di Houel è
ancora più preziosa, anche perché è corredata dal bellissimo dipinto della Fig.
20, la chiesetta di S. Giovanni che c’era alla villa Palmeri
fino a circa un secolo fa, e di cui oggi rimane solo il campanile. Le rovine in
primo piano di questo acquarello non sono altro che quelle della cosiddetta “Curia” e che oggi hanno l’aspetto della Fig.
21. Queste rovine, prima che il Romano (forse senza l’approvazione del Palmeri) e i suoi epigoni le
qualificassero appunto come “Curia”,
erano ritenute da vari e fededegni osservatori (Biscari, Houel, Nibby, Capodieci, ecc.) delle opere idrauliche.
Anche il nostro Giuseppe Patiri, che,
con tutto il rispetto, vale più del Romano, non può fare a meno di ignorare il
“meato sotterraneo” (Fig.
21, al centro), quel buco da cui, raccontava mio nonno a noi
nipoti (Fig. 5), uscivano i leoni!
Ebbene, quest’orificio, se si
accettano le plausibilissime interpretazioni di Houel, non era altro che uno
dei condotti idraulici che si diramavano in “varie direzioni” da questa struttura. E per dare un’idea di massima
di cosa intendo presento la Fig. 22, che è un “partitore a sifone”, precisamente quello
di Luigi Aita pubblicato ne “Il Politecnico” (ottobre 1878, vol.10) e reperibile in rete nel sito della Biblioteca
Nazionale Braidense. Ma prima di accennare al funzionamento
tecnico degli impianti idraulici di questo tipo mi sia consentito ipotizzare
qualcosa su quale poteva essere la funzione, nella nostra villa Palmeri, di
questo distributore delle acque o primo “castelletto”
della città.
Ai tempi di Cicerone il
maestoso acquedotto Cornelio portava l’acqua di Brocato fino al “Castello d’acqua” sull’acropoli, ossia
al castelletto terminale o cisterna romana i cui ruderi esistono tuttora in
cima alla nostra Rocca (spero di poter
illustrare in futuro, in un lavoro scientifico, la semplice e grandiosa
soluzione tecnica impiantata dai romani, in età repubblicana a Termini, per
superare dislivelli anche notevoli e andare oltre la teoria dei sifoni rovesci
o dei vasi comunicanti: l’ariete idraulico inventato, o meglio “riscoperto” nel
1796 dal geniale Giuseppe Montgolfier, l’inventore della mongolfiera). Dal
Castello l’acqua, oltre ad essere usata per i bisogni della Fortezza, veniva
ripartita nelle mastodontiche cisterne sottostanti – che, in caso di assedio, permettevano una riserva sufficiente per
migliaia di uomini e per molti mesi (uno di questi serbatoi, mi ha detto
Agostino Navarra, si trova tuttora dove ai miei tempi c’era la caserma dei
vigili del fuoco) – e nel vicino impianto della villa Palmeri, per i
fabbisogni della città.
I quali bisogni, si badi bene,
non si limitavano all’acqua potabile (di
questa ce ne era abbastanza nei pozzi, assicura Navarra), ma includevano
gli usi irrigui, igienici (anche per stemperare l’acqua caldissima
delle nostre terme), architettonico-ornamentali
e soprattutto industriali. Infatti,
come già accennato o meglio “ipotizzato”
nel cap. 7, in tutte le zone basse di Termini
– Mulineddi, Fossula, Mussu ri porcu,
(scilba), S. Ursula, Carricaturi, Funnacu Aranciu, ecc. – doveva fervere
l’attività di quegli opifici “senza i
quali l’impero romano non avrebbe mai potuto raggiungere la sua grandezza”
(Perali), e tutte queste industrie di
“Terme” funzionavano grazie alla forza
motrice idraulica che arrivava loro dalle condotte forzate sotterranee
che partivano dalla villa Palmeri (in
Italia la letteratura sugli opifici ad acqua è scarsa e inadeguata. Si veda
almeno G. E. Rubino, Le fabbriche del Sud. Architettura e
Archeologia del Lavoro, Napoli 2004).