Fig. 16
Fig. 17
Fig. 18
Fig. 19
Fino al XVII secolo andare da Messina a Palermo era più facile
via mare. Per via terra al più si poteva percorrere, presumo solo a cavallo,
senza diligenze o carretti, la via consolare interna Messina-Montagne, mentre la carrabile Messina-Marine, l’odierna SS
113, cominciava ad essere concepita solo in quegli anni. Il problema
maggiore per le strade litoranee era costituito dai molti fiumi impossibili da
attraversare senza ponti, specie in inverno. Su questo argomento rimando ai
resoconti dei viaggiatori stranieri, o ai moderni lavori di Tuzet, Palmeri, Uggeri, ecc. sulla
viabilità nel Regno di Sicilia.
Dalla mappa di Termini del 1720
(Fig. 9) sappiamo che la “strada di Ceffalù” passava per il Fondaco Arancio (una “secolare” stazione di posta), attraversava il ruscelletto “Scamacio” (Scamaccio), valicava il torrente “Baretina” (Barratina)
vicino ad un mulino ad acqua, su un diruto ponte Normanno (non segnato), si inerpicava diritta fino al Mazzarino (vedi cap. 5) e poi, costeggiando la valle di
Bevuto, scendeva nel “piano delle Marine” fino ad incontrare il S. Leonardo, un fiume “vero”, anzi il suo estuario, spesso
impossibile da guadare a piedi o a cavallo, e sul quale, nei secoli, erano
stati costruiti diversi ponti, tutti prima o poi crollati per le piene o per le
fondamenta sul terreno sabbioso. Nella mappa si vedono bene un viadotto molto
lungo (circa 100 m) su cinque piloni
e i ruderi, circa 1,5 km
a monte, di un altro ponte, sicuramente quello di cui rimane ancor oggi una
bella spalliera, descrittami da Agostino Navarra.
Pochi anni dopo, nel 1725, l’architetto Agatino Daidone sostituì al viadotto un ponte arditissimo – tuttora in piedi, anche se chiuso al
traffico – rappresentato nella Fig. 16, bellissima
incisione che ho trovato, su segnalazione del Navarra (p. 34), in Storia del Commercio
– Navigazione, 1890, p. 240 del Reuleaux,
un autore a me ben noto (da lui ho
imparato molto su telodinamica e trasmissione elettrica dell’energia, v. ME 34).
Per due secoli questo ponte ha assicurato il collegamento carrabile con Trabia
(prima via Bragone, poi attraverso la
sbancata collina Patara) e Palermo; nelle sue vicinanze, racconta Navarra,
c’era una stazione di servizio “gemella”
del Fondaco Arancio.
Nella Fig. 12
si individuano tutti e tre i superbi ponti di Termini: il Sicilia, dell’autostrada A19; il Figurella, già diruto; e il S.
Leonardo, che Giuseppe Navarra definì “perpetuo”.
Cercherò ora di immaginare e
descrivere, aiutandomi con la Fig. 17, come poteva
essere nel '700 la piazza principale
(“a chiazza”) di Termini Alta. La
foto (da internet) deve essere
abbastanza recente perché c’è una pianta piuttosto misera al posto del
gigantesco albero che arrivava all’altezza della terrazza della mia casa (via a destra) e le cui radici gonfiavano
l’asfalto della curva della via Stesicoro, la strada per Termini Bassa (a destra). Sullo sfondo si vede il
campanile della Matrice e quel poco che resta della nostra imponente Roccaforte.
A sinistra, infine, l’antichissima chiesa del Monte, il Pantheon cittadino, la
cui soglia ci servirà come riferimento altimetrico.
Quando entrò in funzione il
ponte S. Leonardo la via Stesicoro e questa stessa piazza non esistevano (si controlli la mappa del 1720) e il traffico continuava
all’esterno delle mura. Sotto la spinta fatale del progresso si rese carrabile
(con una serpentina) – e degna, per così dire, del nome di
“consolare” dell’attuale toponomastica – l’erta strada della Barratina (che i termitani impropriamente chiamiamo
“Cavallacci”) e si cominciò a pensare seriamente a collegare la parte bassa
a quella alta della città con una rotabile all’altezza, è il caso di dire, del
magnifico ponte del Daidone sul S. Leonardo.
I lavori, credo progettati dal Marvuglia, si rivelarono faraonici,
comportarono tagli di intere colline e vari sbancamenti, per livellare strade e
addolcire pendenze. Solo dopo molti decenni, verso il 1792, il nuovo “stradone”,
intitolato al poeta imerese Stesicoro, riuscì a valicare la rupe che “aveva inceppato i romani” (Navarra, p. 36). Durante questi lavori
si disegnò il nuovo assetto cittadino, nacquero nuove vie e le vecchie case
furono abbattute o furono munite di gradinate di accesso, come nel caso della
chiese del Monte e di S. Andrea, dei palazzi Inguaggiato e Villaurea, o di una
antica panelleria, contigua a casa Candioto, fortunatamente sottratta alle
ruspe, o al piccone.
Poiché le case della nostra “chiazza” sono tutte “moderne” bisogna immaginare che questo
piano, due secoli fa, era rialzato mediamente di un paio di metri. A beneficio
dei termitani distratti, e rimandando al Navarra per i dettagli, elenco gli
sbancamenti principali: S. Lucia, via
Mazzini, via Inguaggiato, via Jannelli, via Vittorio Amedeo, via Cavallacci,
piazza Matrice, piazza S. Antonio, piazza Gancia, piazza S. Carlo, ecc.
Esaminiamo ora in dettaglio la
zona intorno a Porta Palermo (vedi foto di copertina) mettendo in
confronto sinottico la vecchia pianta del Castiglia
del 1836
(Fig.
18) con la mappa di Berlino del 1720 (Fig.
19). Per i termitani basteranno poche indicazioni:
A – strada per Palermo (rispetto
al 1720 allargata e carrozzabile);
B – case private (l’attuale
condominio del palazzo Avella);
C – scalinata di ingresso della villa Palmeri (piano S. Giovanni);
D – ruderi dell’anfiteatro romano;
E – la cosiddetta Curia (forse
un partitore idraulico romano, vedi cap. 9);
F – piazza Umberto I (la
“chiazza” della città, che nel 1720
non esisteva);
G – piazza Gancia;
H – via Stesicoro (nel 1720
al suo posto c’erano solo giardini).
La piazza della Matrice (cioè la “Piazza della città” della Fig.
19, da non confondere con
la predetta “chiazza” Umberto I) è unita a Porta Palermo con la via che
oggi si chiama Garibaldi (in ricordo del
discorso tenutovi nel 1862, dal palazzo Inguaggiato, dall’eroe dei Due Mondi)
ed è in
lieve pendenza, e che prima invece si chiamava “strada Badia” (per la chiesa
S. Marco adiacente ai citati ruderi dell’anfiteatro romano) ed era quasi
orizzontale fino alla porta Palermo, da dove cominciava una piuttosto
ripida discesa verso il piano Giancaniglia, dove oggi c’è il cimitero.
Da questo punto fino ai “Mulineddi” (circa 200 m), nella già descritta piana del S. Leonardo, la strada
era ancora più ripida, e fu proprio lì che si fece il primo massiccio
sbancamento, allungando la strada di un paio di curve e diminuendone la
pendenza.
È probabile che la porta di
Palermo sia stata simile a quella di Messina (che ho usato nel collage di copertina, con qualche licenza), con i
piloni in arenaria, ma è certo che i giardini che si vedono alla sua sinistra (Fig.
19) dovevano essere alla stessa altezza del “Quartiere spagnolo” - il lungo casermone che poi fu intitolato al
Generale La Masa e che oggi ospita uffici comunali - e della villa pubblica
che mezzo secolo dopo sarà intitolata al nostro geniale Niccolò Palmeri. Per tale ragione via Monachelle e i giardini contigui dovevano trovarsi su terrazze
o terrapieni, mentre le mura di cinta a destra della porta (entrando a Termini), e oggi non più
esistenti, dovevano essere al tutto simmetriche rispetto a quelle di sinistra,
tuttora esistenti e in ottimo stato.
Gli sbancamenti del 1792 ovviamente interessarono anche (forse soprattutto) questo versante della
città e quindi per moderare ed uniformare la pendenza di tutta la strada dalla
Matrice al Camposanto (circa 1 km) si
sventrò l’intera zona e si demolì la porta di Palermo, che fu ricostruita ex novo, in stile diverso (vedi copertina), nello stesso punto ma circa 4 m più in basso. Il dislivello tra la
strada Badia abbassata e la villa Palmeri risultò grosso modo di 3 m e quello col convento di S. Marco (poi Liceo Ugdulena e Biblioteca Liciniana)
di circa 2 m, e si rimediò con le
scalinate tuttora esistenti. Per molti anni invece, come documenta una foto
d’epoca, la porta principale della chiesa di S. Marco rimase “in aria”, e chiusa, per mancanza di
gradini. Gli studenti dell’epoca, come chi scrive, ricorderanno senz’altro
anche un edificio semidiroccato e rialzato sul piano stradale, in cui, durante
la ricreazione, si andava a giocare a nascondino.
Per gli sbancamenti, di molta
minore entità, fatti a Termini Bassa nella stessa epoca rimando a quanto ne
scrive Navarra nel suo splendido libro “Termini
com’era”.