Fig.
23
Fig. 24
Fig. 25
Fig.
26
Fig. 27
Fig. 28 Fig.
29
“Le torri d’acqua, dette anche 'castelletti' o 'torri
piezometriche' o ancora 'castella dividicula' costituivano il sistema di
distribuzione idrica utilizzato a Palermo a partire dal XVI secolo circa, fino
ai primi del novecento. Questo antichissimo sistema, molto in uso in Sicilia,
che alcuni ritengono sia di origine araba, mentre altri romana, sfruttando
l’elementare quanto geniale principio dei vasi comunicanti, garantiva, con un
flusso continuo, l’innalzamento dell’acqua, proveniente da una sorgente più
distante, che si trovava ad una certa quota, fino all’equivalente livello
piezometrico sulla sommità della torre; qui l’acqua, veicolata dentro tubi di terracotta
detti “catusi”, si raccoglieva in un’urna da dove, per tracimazione, si
immetteva in tubi di distribuzione secondari che servivano le utenze finali,
traducendosi in vera e propria acqua corrente. … Su ogni torre si potevano
ritrovare, a varie altezze, le urne di più sorgive, il che determinava un
caratteristico groviglio di “incatusati” ascendenti e discendenti…”.
Queste parole (tradotte anche in inglese) sono scritte
in alcuni tabelloni (Fig. 23) del centro storico di Palermo, e
spiegano scultoreamente cosa sono i castelli d’acqua. La mia intenzione era
quella di approfondire questo affascinante tema e occuparmi dei “nostri” castelletti (Figg.
24 e 26), partendo dal libro di G. M. Ciofalo “Le acque
potabili di Termini Imerese” (1871)
e privilegiando gli aspetti tecnici rispetto a quelli storici o architettonici.
Però, più progrediva la ricerca, pur tra mille difficoltà (su cui non sto a tediare), e meno riuscivo a tenerne fuori e la
storia e l’archeologia, soprattutto per colpa (felix culpa!) del più volte elogiato libro del Belvedere, al punto
che mi sono visto costretto, invadendo campi non miei, a scrivere questo
opuscolo di archeologia e di storia, con funzione propedeutica alla “fisica” dei castelletti (la quale dovrà aspettare). In questa
sede perciò mi limito a pochi cenni, anch’essi introduttivi, sui sifoni.
A Termini tutti, persino le
massaie, erano “esperti” di
idraulica, almeno fino a quando, verso la fine del '900 (e non all’inizio, come
a Palermo), non fu “ammodernata”
la distribuzione idrica della città. Io invece, termitano doc e in più fisico, non sapevo nulla né di “troppopieno”, né di “pili”
(serbatoi), né, ancor meno, di “sifoni”! Debbo al capo fontaniere del Comune di Termini, Giuseppe Torina (Fig. 27), la
chiara e semplice spiegazione del funzionamento dei “famigerati” sifoni dei nostri castelletti.
Consideriamo il castelletto di
piazza Gancia (Fig. 24).
Dalla sorgente (o altro castello)
l’acqua, da un tubo centrale, arriva nella vasca circolare (Fig.
25) in cima alla torre. Qui essa si ripartisce – non per “pressione”, ma per semplice
“caduta” e in modo “democratico” – nei 32
canaletti (svasature) a bordo vasca,
a cui afferiscono altrettanti tubi di discesa. Se si mette un tubetto a ∩
(vedi Fig. 27) riempito d’acqua, ossia
un “sifone”, a cavallo tra la vasca e
uno dei tubi di discesa, in questo entrerà più acqua.
Il castelletto “La Masa” (Fig. 26),
sito in via Genova, intitolato al nostro eroe cittadino, era il più grande di
Termini e aveva ben 99 appresamenti,
tra cui quelli di mio nonno e del mio bisnonno, come si legge in un prezioso
brogliaccio o taccuino di servizio di un fontaniere dell’epoca (Fig.
28, n. 14 e 16
rispettivamente) che ho potuto esaminare per cortesia del geometra
dell’ufficio tecnico comunale Aldo Neglia.
In un angolo invece della scheda tecnica (Fig. 29) di tale
castelletto “La Masa”, anch’essa
religiosamente conservata in archivio, si legge quest’eloquente appunto
manoscritto: “evitare i sifoni”.
Ma i sifoni sono ovunque, a
cominciare da quelli di lavandini, “tazze”
e pozzetti sifonati che, come si sa, servono a bloccare la puzza degli
scarichi. A Termini, però, in più, ve ne sono di speciali: il sifone “Barratina” (v. cap. 7);
il sifone “Tre Pietre” (o “Tre scogli”) in località Balata, vicino Brocato (casa Consales); il sifone-partitore “Houel” della villa Palmeri (v. cap. 9); e poi gli stessi castelletti che,
come “vasi comunicanti”, non sono che
sifoni invertiti o “rovesci”, come
usano dire gli archeologi, per definire le “condotte
forzate” (sic) che sostituiscono
i ponti (e che i Romani conoscevano
benissimo!). Il sifone “Torina”
appena descritto, invece, è un sifone per così dire “diritto”, come quelle canne o “sucarole”
per travasare il vino dalle damigiane. E sono questi, si badi, i sifoni “veri” della fisica, che vanno innescati,
che devono restare a tenuta ermetica, ecc.
Quanto al “sifone intermedio” del Mazzarino, e alle gravi incongruenze altimetriche
finalmente messe in luce dal Belvedere (p.
71), si tratta di un problema apertissimo che coinvolge non solo l’“acqua” dei sifoni, diritti o rovesci che
siano, ma anche l’“aria” (o l’odore…) che questa riesce o meno a
trascinare nel suo moto quando, come diceva scherzosamente mio padre, “intrombandosi per lo catuso va a finire nei
peli”.