DA
6 – La “Schola” di Palmeri (29.1.2013)
Sarebbe una mostruosità dico,
anzi un delitto degno del secolo di Attila, e non del nostro, se lungi di
scoprire ciò che resta sepolto dell’antica fabbrica, e di custodirlo con quella
religiosa venerazione che si deve alle opere dei nostri maggiori, si volesse,
erigendovi sopra delle nuove fabbriche, togliere il mezzo e la speranza di
farlo a coloro che, rispettando più di noi le passate cose, volessero scoprire
questi preziosi avanzi. E ciò in quel suolo stesso, ove s’intese una volta un
popolo intero ad esclamare: “Urbem relinquere Termitanos esse honestius, quam pati tolli
ex urbe monumenta majorum” (Sarebbe
più onesto che i termitani lasciassero la città piuttosto che tollerare di far
scomparire dalla città i monumenti degli antichi).
Questo duro monito di Niccolò Palmeri (vedi ritratto, cortesia del Museo Civico di Termini Imerese) si
legge nel Saggio sulle terme e le acque minerali di Termini-Imerese, Napoli 1820, il suo capolavoro da troppo
tempo colpevolmente lasciato a marcire nella polvere delle biblioteche e che ho
utilizzato per la stesura di questa scheda, dedicata a come “realmente” erano le terme di Imera prima
della loro rovina (descritta in DA 5). Non
essendo uno storico, né ancor meno un archeologo questa mia sicurezza, lungi da
essere una sicumera, poggia unicamente sull’autorità che io – a differenza di altri (Gargotta, Romano e forse anche qualche
moderno) – ho da tempo riconosciuto al Palmeri
dopo averne apprezzato l’enorme e soprattutto “sana” dottrina, fatta non di erudizione, ma di vera competenza (il libro citato, per esempio, è anche un
piccolo trattato di fisica e di idraulica). Puntualizzo inoltre che quanto
segue non vuole essere un semplice riassunto storico delle terme o della città
(argomenti relativamente noti e che ho
già trattato nei miei precedenti scritti, in particolare in AG 28),
ma è principalmente funzionale alla costruzione in scala del “presepe didattico” proposto in DA 4.
Per Palmeri (come già per Houel e
De Non, ma a differenza di Gargotta) tutto porta a credere che la fabbrica
delle terme sia un edificio romano: i mattoni adoperati negli archi e negli
epistili (architravi) hanno una
larghezza di due palmi (circa 50 cm),
esattamente come quelli dell’acquedotto Cornelio, la malta utilizzata è
identica e non c’è nessuna ragione per dubitare che questo edificio sia stato
in origine perfettamente circolare e con al centro un gran bacino
circondato da gradini. Si osserva infatti (vedi la planimetria rilevata da Giovanni Fecarrotta
e pubblicata in Gargotta, cit., nonché il corrispondente alzato ricostruito
dallo scrivente sui dati del Palmeri) “che
il condotto espurgatorio corre lungo le fondamenta del muro interno, di forma
circolare, e che nessun architetto avrebbe sicuramente commesso l’errore di
costruire un tal condotto non retto, e di avvicinarlo alle fondamenta, senza
un’indispensabile necessità, qual’era quella che
trovandosi la maggior parte dell’aria interna occupata dal gran bacino, né
permettendo il livello del mare (per mancanza di pendenza – N. d. c.) di farlo sotto allo stesso, non restava altro spazio ove costruirlo,
né altra forma da dargli”. Si osserva ancora “che nel muro interno corrono due file di doccioni che nacquero
sicuramente con la fabbrica; questi ad un certo punto hanno un angolo, corrono
verso il centro e vanno a perdersi in un masso di antica fabbrica che si è
scoperta nello scavare le attuali vasche”.
Per i Romani i bagni non erano
solo un oggetto di piacere, ma una istituzione politica. Ai bagni essi univano
il Ginnasio in modo che passando continuamente dalla fatica (ginnastica, lavoro fisico ma anche mentale,
sudore) al bagno si rendessero più robusti. Tutti i bagni dei romani erano
contornati dalla “Schola”, un
corridoio ove le persone stavano in “ozio”
(nel senso latino del termine, vs negotium) ad aspettare che i primi venuti avessero
terminato di bagnarsi. Palmeri “vede” quindi gli avanzi di un grande “tepidarium” romano e sospetta così che
la sala interna sia stata alta 20 metri
perché Vitruvio dice che il “tepidarium” doveva essere alto quanto era
largo e con la volta a cupola, cioè perfettamente emisferica, in modo che i
raggi calorici ripercossi da tutti i punti tornassero al centro, tanto che Svetonio chiama la sala del bagno caldo
“Sphaeristerium”. Nel centro di
questa volta doveva essere un gran forame rotondo, al quale stava internamente
sospeso un grande scudo di bronzo, che si alzava e abbassava per mezzo di
catene di ferro, per accrescere o diminuire il calore (vedi RE 48).
I romani – continua Palmeri – furono sontuosi prima di essere civilizzati, la
loro architettura era figlia del lusso, cagionato dalla copia dei tesori
dell’universo versati violentemente entro le mura di Roma. Le fabbriche greche
mostrano la piena cognizione delle arti, esse stanno da se senza altro appoggio
che le leggi della statica, senza altra bellezza che la proporzione. Le
fabbriche romane sono magnifiche per l’immensa profusione di opera e di
materiali, ma risentono della poca intelligenza del costruttore. Lo prova
l’avanzo della volta che copriva la “Schola”
di questi bagni di Imera: essa è di “opus
signinum”, dovette essere fatta di getto, è
grossa 2,5 palmi. Così facendo
sovraccaricarono di immenso peso le mura e per riparare a ciò fecero degli
archi a distanza ravvicinata (vedi
incisione di Houel in CA 6), “ma
quanta uggia (tetra molestia, antipatia – N. d. c.) dovevano produrre
questi archi in un corridoio largo appena 2,5 m (la stessa
galleria semicircolare nella quale, si badi, nei primi due “restauri” delle
terme, era stata incondottata l’acqua calda – vedi pianta di Houel in DA 5)! Tutto ciò è lontano dalla imponente
semplicità delle opere greche, in cui non c’è nulla che serva all’ornato a
spese della solidità e nulla che accresca la solidità offendendo l’ornato”.
Per dare qualche idea (solo orientativa!) delle originali terme
di Imera, soprattutto agli artigiani che ne vorranno costruire il modellino, ho
inserito un celebre dipinto di una delle famose terme di Baia (nonché, nell’angolo a sinistra, il
“porticato” o i “finestroni” visibili nell’affresco del nostro La Barbera).
A Baia, anche se meno di Termini Imerese, l’attuale piano di calpestio è alcuni
metri superiore all’antico, per gli interramenti e l’invasione delle acque “occultamente in quelle latebre serpeggianti”,
derivati dai sommovimenti tellurici del 1538
e dai noti bradisismi dei Campi Flegrei che fecero rovinare ogni cosa e persino
variare i livelli altimetrici (pure per
la presenza di vulcani più o meno estinti), come accaduto anche a Torre
Annunziata (Terme Nunziante) e a
Termini (vedi DA 5). Si
aggiunga che tutti questi monumentali impianti termali erano sul lido – quasi delle maestose “rotonde sul mare”
– e che in essi si possono individuare spazi porticati, “ambulationes” circolari, ninfei, concamerazioni, vestiboli,
condotte e intercapedini per il vapore, veri e propri “centri benessere” ante litteram, ecc. Perché nelle terme, in
sostanza, veniva celebrato il culto religioso e terapeutico delle acque: “Ubi thermae, ibi salus”.
Ricapitolando: dopo la rabbia devastatrice
del 1338 dei Francesi che rasero al
suolo, oltre alle terme, il Cornelio, l’anfiteatro e tutti i palazzi pubblici e
privati della città demolendoli con molte macchine da guerra e scaricando le
macerie sul (futuro) largo Impallaria e zone limitrofe, e dopo due o tre secoli “bui”, nel ‘600 la città fu a poco a poco ricostruita (comprese le aree neoformatisi delle due
“Selve”, a destra e a sinistra dei Bagni, nonché buona parte di tutta la
moderna Termini bassa, che prima era mare), come ci testimoniano il Solito ed altri. Le terme invece furono
racconciate alla meno peggio e, dal primitivo splendore, si ridussero a “Bagno dei poveri”, se non addirittura a
quell’orrido e fetido ricetto di miseri diavoli, di luridi barboni e persino di
moribondi che fece esclamare al Palmeri,
col sommo Poeta:
Per me si va nella città dolente;
Per me si va nell’eterno dolore;
Per me si va tra la perduta gente.
Il secondo riconcio (all’inizio dell’800) e soprattutto
l’ultimo (alla fine dell’800, con la
costruzione del Grand Hotel delle Terme) hanno
fortunatamente riparato questa antica e poco nota sconcezza.
Per quanto riguarda invece il
recupero archeologico e culturale delle terme, le parole di Palmeri ricordate all’inizio di questa
nota non hanno avuto eco: “Diffudit sermonem, ubi non est auditus”. Gargotta,
è vero, fece fare uno scavo al centro della fabbrica ma non trovò resti né
del bacino centrale né della volta caduta, forse perché gli avanzi di altre
fabbriche erette e rovinate nello stesso luogo lo fecero disorientare, o anche
perché, per mancanza di fondi, si dovette fermare a circa 3,5 m (le moderne ricerche di Belvedere o di altri, per quel
pochissimo che ne so, sembra che qualcosa abbiano trovato, a quota 4 m, ma non
so se di tali campagne di scavi esistono resoconti pubblici). Patiri, testimone
oculare dei successivi scavi per le fondamenta del Grand
Hotel, dal canto suo ci informa poi che per l’incuria di un regio commissario
fu irreparabilmente (e inutilmente)
distrutto un buon tratto di grosso muro circolare esterno, anteriore alla
caduta di Imera, come già anni prima aveva ripetuto Gregorio Ugdulena.
Anche le ispezioni dei due
acquedotti romani (carico e scarico
dell’acqua termo-minerale) sollecitate da Palmeri furono fatte poco avvedutamente. Il maestro d’acqua che li
esplorava con una face rilevò le pareti rossicce della “capsula” (dietro l’antico e
l’attuale edificio dei Bagni), ossia il ricetto che captava e riuniva le
principali vene della cosiddetta sorgente di sud-ovest dell’acqua calda, ma
poté resistere solo pochi secondi, a causa dell’eccessivo calore e dell’aria
soffocante. Infatti, malgrado il preventivo scarico, l’acqua gli arrivava alle
spalle e sotto i piedi sentiva le polle che schizzavano dal suolo in
tutti i punti.
Mi piace chiudere questo
piccolo tributo a Niccolò Palmeri
ricordando l’invettiva che un termitano illustre, Melchiorre Lo Faso, lanciò all’ostinata indifferenza degli uomini
che, immemori della magistrale “Schola”
del Nostro, ne abbandonarono il
sepolcro nel desolato cimitero dei colerosi di Bevuto: “Sicilia, è questo il premio che serbi ai tuoi più grandi?”
Integrazione 3.3.2013 - Il “Pantheon” di Imera
Nell’eventualità che qualche
artista voglia raccogliere il mio invito a disegnare, dipingere o modellare le “Terme di Imera” (o anche di Himera, visto che torniamo
indietro di qualche millennio!) topograficamente e storicamente da me
ricostruite mi permetto di suggerire loro di ispirarsi al monumentale Pantheon
romano (vedi lo spaccato in calce e gli
esterni su Google), immaginando ovviamente che al centro ci sia una grande
vasca circolare.
Trascurando il monumentale frontone
di ingresso e la “schola” accorpata
all’ambiente centrale per il tramite di colonne e non mediante massicci muri
circolari come ad Imera, per il resto le analogie con Baia o con le terme
romane di Catania sono sorprendenti: calotta all’interno emisferica e all’esterno
più spianata; la mancanza di finestre, eccettuato il grande foro centrale (che nel Pantheon è quasi di 9 m) e,
soprattutto, la perfetta corrispondenza dell’altezza col diametro della base (nel Pantheon sono 43 m, più del doppio che a
Imera).