CA 6 – La doccia di Termini (13.4.2010)
Nel
mio “Atomo” su Termini Imerese è riportata una
cartolina “bella époque” che, per
reclamizzare il nuovissimo “Grand
Hotel delle Terme” e attirarvi, per esempio, il bel mondo della
mitica Targa Florio, lo rappresentava in un luogo amenissimo e in riva al mare,
mentre in realtà, come i termitani sanno bene, quello stabilimento distava
dalla spiaggia circa 250 metri (oggi, per interrimenti vari, anche di più).
La
matita del disegnatore tradiva l’eco della grande polemica che, a fine '800, divise i miei concittadini in due
fazioni: quelli che volevano costruire i nuovi “bagni” accanto a quelli vecchi e quelli che invece, per motivi
igienico sanitari e “turistici”,
volevano spostarli in riva al mare.
In questa sede, non potendo dilungarmi come vorrei e come l’argomento merita,
mi limito a poche considerazioni di natura strettamente idraulica (si veda la ricca bibliografia dell’opuscolo
citato e, in particolare, il magistrale e ignorato saggio del 1820 di Niccolò
Palmeri, il più grande ingegno termitano).
L’antichissima
fabbrica romana delle terme, a pianta circolare, era certamente almeno un paio
di metri più bassa dell’attuale (10 m
s.l.m.) e probabilmente si ergeva proprio sul mare, in una piccola
insenatura sotto la torre dei Saccari e le chiese dell’Annunziata e di S.
Orsola. Queste congetture potranno un giorno essere confermate o meno dai
geologi o da qualche appassionato archeologo che richiami l’attenzione del
mondo scientifico sulle antiche terme di Imera – come ha recentemente e meritoriamente fatto Oscar Belvedere per l’acquedotto Cornelio – ma quello che è
certo è che coi secoli il mare si è ritirato e che nel '600 troviamo i nostri bagni dimezzati in una piscina semicircolare
(di cui gli acquarelli e le incisioni di
Houel del 1780 mostrano i due ingressi - vedi immagini), rialzati, come già
detto, di qualche metro, e soprattutto, secondo la testimonianza di Palmeri e dello stesso Houel, degradati in uno stagno
maleodorante in cui stavano continuamente immersi ad oziare tutti gli accattoni
della città.
Sin
dall’antichità le cure termali si dividevano in bagni, stufe e docce (soprattutto sulla cervice, come prescritto
da Galeno) e nell’“antro” o sauna
di sinistra (vedi dettaglio al centro)
queste tre terapie si può dice che coesistevano. “Le docce – scrive Palmeri
- si adoperavano in Termini con un barile
posato sopra due menzole fitte al muro, il quale si tenea costantemente pieno
da due uomini, che con una scala recavano su continuamente l’acqua minerale.
Questa scappava da un piccolo orificio fatto in fondo al barile ove era
adattato un cannello di canna”. La percossa dell’acqua rinvigoriva le forze
del paziente perché comunicava al sangue un moto “straordinario” e obbligava le parti coagulate a sciogliersi e a
liberare gli organi ostruiti o dolenti. In particolare il medico, in base alla
patologia da curare, prescriveva il tipo e le dimensioni della canna adattata
in fondo al barile, onde variare la nebulizzazione dell’aria e il “momento” della percossa.
Nell’estate
del 2008 io stesso ho sperimentato,
non senza sorpresa, che un qualsiasi tubo verticale sul
fondo di un recipiente velocizza enormemente lo scarico dell’acqua (anche fredda, e
non a 41 °C come a Termini) e
ne diminuisce la percossa. Ad esempio un secchio come
quello della News precedente, posto su un terrazzo, si
svuotava nel vuoto in 52 secondi e l’urto dell’acqua sulla mano, 3 metri più in basso, era quasi
doloroso; invece collegando un tubo (di
gomma o di ferro) sullo stesso foro la scarica si esauriva in soli 17 secondi e la percossa (o
“idrochoc”) sulla mano quasi spariva. Si tratta, con tutta evidenza, dello
stesso “effetto sifone” delle
cassette idriche dei nostri water closed,
che infatti scaricano in pochi secondi una ventina di litri d’acqua.
Per
assimilare questi concetti apparentemente banali, ma tuttavia
nuovi, può essere opportuna la distinzione tra tubi di condotta e tubi addizionali (vedi CA 4 e
CA 20).