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– Prosodia e scienza del linguaggio
Ai testi di Lucidi già da me
pubblicati (Un inedito, Pagina
perduta, Frammenti) o
ripubblicati (Disdegno di Guido, Prosodemi) aggiungo quest’altro importantissimo saggio recuperato dal Belardi, anch’esso di difficile
reperibilità (vedi M. Lucidi, Saggi
linguistici, Napoli 1966).
Per rendersi conto dell'ampiezza
del fenomeno lingua è opportuno considerare due casi limite; da una parte un'interiezione, entità carica di valore espressivo ed
essenziale nell'attuarsi vivo di
ogni singola lingua ma in certo modo estranea al sistema linguistico, anzi
spesso al punto che nella fissazione grafica (si tratti di alfabeto
tradizionale o di trascrizione fonetica) non trova un'adeguata
rappresentazione (Per l’interiezione vedi A. Pagliaro, La parola e l’immagine,
Napoli 1957, pp. 238 e sg., cf. anche p. 207); dall'altra
una formula di alta matematica, entità per eccellenza compiutamente semantica
per la quale, tuttavia, il supporto di una lingua come realtà storica
attuantesi fonicamente è così secondario che nei riguardi del suo essere non è
rilevante in quale lingua (potremmo dire: se v'è
una lingua in cui) debba essere letta. Si tratta di casi limite, è evidente;
nel primo caso non siamo ancora, nel secondo non siamo più nella lingua; però
non esiste lingua senza interiezioni (e fra interiezioni e frasi si ha una
costante permutabilità, un incessante compenetrarsi) e d'altronde
una formula presuppone tutta una serie di postulazioni e di convenzioni, che
non possono assolutamente prescindere dall'espressione
linguistica. In realtà la lingua è un immenso dominio che oscilla costantemente
con infinite variazioni tra questi due poli: l'espressione
pura e la pura relazione, non come un compromesso risultante da essi ma come un
fenomeno peculiarmente omogeneo che li comporta e da cui possono essere
estratti solo nei casi limite. È ciò che fa di essa l'istrumento
più idoneo all'obiettivazione del
pensiero ed è quindi naturale che chi indaghi sulla validità di tale
obiettivazione e sui suoi rapporti con ciò che viene obiettivato, debba, ad un
certo momento, procedere ad una valutazione critica di essa.
L'esigenza di un
criticismo del mezzo di obiettivazione si va, di fatto, sempre più imponendo
all'indagine teoretica e a quella
estetica. Però i risultati rimangono nettamente inferiori a quanto la bontà del
metodo farebbe attendere. Ciò dipende dal fatto che ricerche del genere si
conducono rimanendo ancorati a concezioni circa il fenomeno lingua, che la
linguistica moderna ha ormai riconosciuto nettamente superate e non pertinenti.
Ma se quest'ultima, nel suo
travaglio più che secolare, ha potuto definitivamente chiarire l'insussistenza delle vecchie concezioni, essa è però
ben lungi dall'essersene create
delle nuove veramente valide - e per questo non può fornirle ad altri - su cui
costruire saldamente un suo proprio metodo di scienza autonoma. Il sintomo più
chiaro di questa crisi di oggetto è la questione, oggi più che mai dibattuta,
se le entità linguistiche vadano considerate forma o sostanza. È evidente che,
se una scienza si pone domande del genere, essa non possiede ancora i postulati
idonei ad individuare univocamente il suo campo di indagine e a limitare l'esigenza teorica alla considerazione più redditizia
delle entità che la riguardano.
Nata con la scoperta del metodo comparativo e, elevato questo a
metodo storico (nel senso che danno alla parola i neo grammatici), impegnata
poi nello sforzo colossale di un'indagine
concreta intesa a dare una sistemazione vigorosa ai dati della comparazione, la linguistica
si è, per lungo tempo, limitata ad accettare in sostanza i segni linguistici
così come l'indagine la portava a
considerarli: entità monadiche comportanti un corpo sonoro portatore di
significato. Questa concezione, che potremmo chiamare contenutistica, diviene
palesemente inadeguata quando, dalla sistemazione dei fatti, si vuol passare ad
un'interpretazione dei risultati;
perché per far ciò, siccome il segno linguistico trascende il puro fenomeno
naturale unicamente in virtù della presenza di un significato, è anzitutto
necessario venire in chiaro nell'individuazione
di quel qualcosa cui diamo questo nome, non accontentandosi del valore
indefinito e meramente intuitivo che suggerisce l'uso
corrente della parola; e ciò è impossibile senza ricorrere ad altre scienze -
alla psicologia o ad una sorta di sociologia o, persino, alla filosofia - cioè
senza negare alla linguistica, in sede teorica, quella autonomia che la pratica
della ricerca incontrovertibilmente le assegna. In quest'ordine
di idee persino persino il nome di disciplina storica non appare
sufficientemente giustificata; perché storia comporta l'interpretazione
di eventi come estrinsecazione dell'evolversi
dello spirito umano direttamente e coscientemente esplicantesi in essi; nel
fenomeno lingua, invece, l'esplicazione
diretta e cosciente dell'attività
dell'individuo non si estrinseca in
quel che la linguistica propriamente studio, cioè nell'evoluzione
del significato del segno di per sé considerato (ed è ciò che rende non
pertinente il raffronto con il diritto), ma nella realizzazione dell'atto linguistico che, nella sua puntualità e
irripetibilità, non si può sottrarre alla considerazione di evento singolo. La
difficoltà si aggrava se si passa a considerare il significante; infatti l'evoluzione fonetica - che pure si verifica in
limiti di spazio e di tempo e con modalità irripetibili, come ogni evento
linguistico - per la sua indipendenza, in via di norma, dal valore dei singoli
segni in cui si attua, perde ogni legame con ciò che, salve restando le riserve
testé avanzate, fa pur sempre della linguistica una scienza dell'uomo, e si riduce ad un fenomeno rilevabile, ma, in
generale, non interpretabile; in vista poi della legittimità e dell'opportunità dell'indagine
che esamini un determinato stadio linguistico in sé e per sé indipendentemente
dai rapporti che legano le sue entità con quelli di stadi precedenti - in
quanto tali rapporti ne svelano un aspetto ma non interpretano l'essenza in virtù della quale esso, nel suo
peculiare ambito spaziale e temporale, assolve la funzione che gli compete -
questa concezione semi-intuitiva del segno si rivela incapace a rispondere
anche alle più elementari esigenze di una linguistica così concepita, non
fornendo alcun criterio sicuro che permetta l'individuazione
di entità univoche attraverso l'infinita
varietà delle loro realizzazioni. È appunto tale esigenza che porta il De Saussure, allorché introduce la
sincronia, a considerare la definizione data precedentemente del segno, come l'unione “d’un
signifié, concepte” e “d’un
signifiant, image acoustique”, semplicemente orientativa e provvisoria, “ …une opération qui peut dans une ceratine
mesure être exacte et donner une idée de la réalité”, con la quale però “ …en aucun cas je n’exprime le fait
linguistique dans son essence et dans son ampleur” (Cours de linguistique générale, II ed. p. 162), e ad assumere come
fattore individuativo l'unico
elemento squisitamente linguistico peculiare del segno, la sistematicità in uno
stato sincronico.
Nasce così la nuova concezione, che potremo chiamare formale
del segno come valore puro: significato e significante intesi entrambi come
punti definiti solo relazionalmente, entità puramente differenziali e negative
con la sola caratteristica positiva (discutibile positività) dell'unione di un determinato significante con un
determinato significato. Ma questa interpretazione del segno linguistico si
presenta inadeguata, inaccettabile come base di individuazione e di trattazione
delle vere entità della lingua, perché esclude, in sede teorica, la possibilità
di prendere in considerazione un fenomeno essenziale che la realtà dei fatti
pone all'indagine: l'evolversi del segno attraverso il tempo. In
effetti, se degli enti tra loro relazionabili sono dati di per sé, la relazione
che tra essi intercorre è passibile di perdurare e di divenire, in quanto l'essere di volta in volta quello che essa è
rappresenta soltanto una modalità del suo esistere, il quale ha la sua base di
continuità e di mutabilità nella continuità degli enti e nei fenomeni che in
essi intervengono. Ma, se data è la relazione - sicché l'essere
ciò in base a cui è stata definita è l'unico
suo attributo di esistenza - e gli enti vengono individuati solo come suoi
termini, essa resta inchiodata ad una astratta fissità di essere, fuori di ogni
divenire nel tempo.
Così se, poniamo, sono dati nel tempo A B C tra
loro relazionabili, è pensabile che in un dato momento sussistano ad esempio le
relazioni:
A > B (A maggiore di B)
A = C
e in un momento successivo altre:
A < B (A minore di B)
A = C
ed è legittimo considerare, mettere in rapporto
e valutare, nel loro perdurare e nel loro divenire tali relazioni. Ma se dato è
soltanto:
A > B
A = C
e A, come B e C, è individuato e definito
unicamente in virtù delle relazioni che lo legano a B e C, è palesemente
inammissibile che possa sussistere:
A < B
A = C
o qualunque altra relazione diversa dalla data,
perché altrimenti A cesserebbe, per definizione, di essere A (e se i rilievi
successivi si verificano, ciò dimostra che ad A ed agli altri enti compete un'essenza ed un'individuazione
diversa da quelle date). Al De Saussure,
conscio della problematica in oggetto (Cours,
pp. 16, 19, 20, 23-25, 36, 112, 114, 149-152, 293) è ben presente la
portata di questa difficoltà, anche se condizioni per così dire ambientali
contribuiscano, in certa misura, ad attenuarla, in quanto i fonemi - lasciati,
nonostante i chiari accenni alla possibilità di una considerazione
opposizionale, sostanzialmente allo stadio contenutistico e quindi passibile di
evoluzione - legittimano ancora un'indagine
diacronica nella quale rientrino la fonetica evolutiva e, sia pure con qualche
accomodamento (Ad esempio l'omissione, nel dimostrare la natura sincronica dell'analogia, di un elemento pregiudizievole, decisivo
come la dimenticanza da parte del parlante della forma già esistente, del quale
si riconosce poi appieno l'importanza
parlando di etimologia popolare), l'analogia
e l'agglutinazione, cioè i grandi
protagonisti della linguistica storica del tempo. Infatti questa sparuta diacronia
deve rimanere radicalmente distinta dalla sincronia, l'unica
peculiare sede di tutto ciò che è significativo e grammaticale, e una vera
grammatica storica non ha, in linea teorica, diritto di esistere (Cours, pp. 185, 195, 209); benché, “c’est là, qu’est la véritable difficulté”,
la fonetica non riesca a spiegare il fatto evolutivo nella sua interezza e, una
volta eliminato il fattore fonetico, rimanga “un résidu qui semble justifier l’idée ‘d’une historie de la grammaire’
” (pp. 194-196).
L'intransigenza
saussuriana circa l'inconciliabilità
radicale tra sincronia e diacronia non è dovuta ad un certo amore per il
paradosso o ad un eccesso di rigore, egli non fa che cercare di giustificare
una delle conseguenze delle sue premesse, la meno pregiudizievole, alla quale
si affianca, se non altro, l'esigenza
di reagire alla dannosa confusione facilmente instaurabile tra punto di vista
sincronico e punto di vista diacronico; che anzi, quanto all'altra, l'illegittimità
di una grammatica storica (quella incondizionatamente inammissibile alla quale
a lui stesso vien fatto continuamente di derogare) egli si limita ad
archiviarla senza giustificazione, trincerandosi dietro ragioni didattiche che
non convincono neanche gli editori (Cours,
p. 197); i quali peraltro, avanzano semplicemente l'ipotesi
di una possibilità di giustificazione attraverso la linguistica della "parole", del tutto ignari che non
un sistema coerente rappresentavano quelle lezioni, al quale, per l'esposizione orale ed in fasi successive mancasse,
in sostanza, solo una formulazione controllata, omogenea e definitiva (Cours, pp. 8-10), ma una teoria minata
da un'aporia radicale, che il
maestro, nella coscienza di tale aporia, andava formulando, potremmo dire,
attraverso ripensamenti ad alta voce alla ricerca di una chiarificazione, in
abbozzi provvisori e con lacune, come la mancanza di una trattazione
sistematica della semantica, non del tutto fortuite, nei quali certi
accomodamenti e certe inesattezze non erano soltanto estrinseci (Vedi
particolarmente a proposito del problema centrale pp. 40-43 sulla linguistica
interna e la linguistica esterna; pp. 110-112 sulla mutabilità e immutabilità
del segno; pp. 115-116 su sincronia e diacronia; pp. 158-159 sul valore; p. 250
sulla continuità delle unità diacroniche).
Non a caso, pur rendendosi esatto conto e dell'importanza decisiva della linguistica sincronica
che egli andava instaurando e della “insuffisance
des principe set des méthodes qui caractérisaient la linguistique” (Cours, p. 7), egli nè pubblicò mai
nulla, nè lasciò checchessia che autorizzasse in qualche modo a farlo, e certo
l'adozione del suggerimento di
"…donner tels quels certains
morceaux particuliérment originaux (Cours,
p. 9) avrebbe interpretato assai più fedelmente questo fatto. Un libro come
il Cours, pervaso da cima a fondo
dall'esigenza di individuare e
definire “ …l’objet à la fois intégrale t
concret de la linguistique” (p. 23),
“ …la langue envisajée en elle-même”
(p. 317), e caratterizzato da una
genesi che favorisce dinanzi ad ogni incoerenza la presunzione dell'intervento di fattori esterni, ha forse contribuito
non poco all'inesatta valutazione
dei limiti inerenti ad impostazioni come quella saussuriana. Lo strutturalismo
con l'adozione e l'approfondimento - in virtù della coerente
estensione anche ai fonemi del criterio opposizionale e attraverso una più
avvertita valorizzazione dei rapporti paradigmatici e soprattutto sintagmatici
- di un concetto fecondo e squisitamente linguistico, quale il carattere di
sistematicità del segno, ha colto frutti incontrovertibilmente cospicui per una
più chiara comprensione del meccanismo relazionale di una struttura
linguistica. Ma, eliminato l'elemento
sul quale il De Saussure fondava la
sua superstite diacronia, lo stesso ordine dei fatti, per cui egli non può
convalidare la legittimità di una grammatica storica, inchioda la prassi
strutturalistica ad una indagine di pura relazionalità esclusivamente
sincronica e puntuale costretta, per la sua non aderenza alla natura del
fenomeno, ad affrontare problemi (unicità o non unicità di soluzioni) e ad
adottare metodi e criteri di valutazione (arbitrarietà di scelte, semplicità)
peculiarmente non linguistici, e assillata, già nel rilievo delle entità, da
questioni di forma e sostanza non confacenti ad una scienza particolare o dall'insopprimibilità del fattore semantico nell'applicazione del criterio distribuzionale. Superare
i limiti di questo astratto sincronismo è possibile solo a patto di non
attribuire alla sistematicità il ruolo di elemento individuatore ma
considerarla un carattere, sia pur peculiare, di enti dati di per sè; il che
comporta il riaffacciarsi di tutte le difficoltà inerenti alla concezione
contenutistica, aggravate dal fatto che nel suo ambito l'intrinsecità
del fattore strutturale non trova giustificazione che su un piano strettamente
fisiologico e psicologico.
E in realtà le ricerche in tal senso - assai
poco numerose, per vero, e rivolte quasi esclusivamente al campo fonico, dove
una certa fenomenicità naturale della cosiddetta sostanza dà validità intuitiva
al rilievo empirico - messi da parte i criteri ed i problemi dello
strutturalismo sincronico in nome di una non meglio giustificata esigenza di
maggiore concretezza
propria all'indagine diacronica,
tornano ad assumere le entità e le loro varianti come dati puramente
sostanziali; e se la considerazione della necessità interna delle strutture
rende conto assai meglio delle modalità di sviluppo dei fenomeni, e singoli e
nel loro insieme (non per altro delle cause), non è però altrettanto chiaro su
quali basi questa necessità interna possa trovare un'interpretazione
autonoma in sede linguistica. L'inconciliabilità
tra linguistica tradizionale e strutturalismo innovatore, entrambi palesemente
inadeguati, puntualizza la crisi d'oggetto
che travaglia la linguistica, il vero problema che il De Saussure sapeva di lasciare in eredità alla disciplina; il segno
linguistico (e corrispondentemente il fonema) non presenta nella sostanza, che in
quanto segno gli compete, i requisiti idonei a farne l'entità
chiaramente individuata su cui una scienza specifica indaghi in piena autonomia
e, d'altro canto, la concezione
puramente formale che ne consenta l'unica
caratteristica peculiare, la relazionabilità paradigmatica e sintagmatica,
denuncia, con la sua incongruenza con la realtà del fenomeno, l'assoluta insopprimibilità di quella sostanza.
Questa refrattarietà ad una individuazione pertinente - come del resto la gran
parte delle difficoltà teoriche che anche al di fuori della linguistica
caratterizzano l'assunzione, da
qualunque punto di vista si proceda, del fenomeno lingua ad oggetto specifico d'indagine (perché, si adottino o no i termini
peculiari: segno, significante, significato, la posizione di partenza rimane in
sostanza la stessa) - trova la sua ragion d'essere
nel fatto che il cosiddetto segno
linguistico non è un segno.
Alcune delle osservazioni che seguono su segni e iposemi
ho già avuto occasione di esporre altrove [vedi sopra pp. 8-10, 38-42 e 65-76].
Ho creduto opportuno ripeterle perché si tratta di concetti indispensabili per
l'ulteriore sviluppo dell'indagine e, d'altro
canto, assolutamente estranei all'attuale
patrimonio teorico della linguistica - nè mi risulta che le precedenti
esposizioni abbiano avuto una eco rilevabile. Il solo Martinet, a quanto io
sappia, ha fatto per suo conto (La
double articulation linguistique, in
Recherches structurales = Travaux du Cercle linguistique de Copenhague, V,
1949, pp. 30-37), alcune osservazioni
singolarmente collimanti con le mie vedute sull'analizzabilità
del segno e dell'iposema, le quali
si limitano però a riconoscere la specialità della pertinenza (in presumibile
rapporto con necessità “economiche”) di tale caratteristica al fenomeno lingua,
senza rilevare le conseguenze effettivamente decisive che essa comporta circa
la natura e la peculiare sostanzialità delle entità linguistiche, e che ne
implicano nei riguardi della glossematica conclusioni di ben altra portata che
la rettifica di una definizione. Praticamente, allo stesso stadio di semplice
carattere specifico a presumibile sfondo economico, il concetto della double
articulation torna fugacemente nel Traité
de phonologie diacronique (Economie des changements phonétiques, Berna 1955, pp. 157-158) dove per altro s'insiste maggiormente sull'azione
preservatrice nei riguardi della convenzionalità incontestabile nelle normali
entità linguistiche e assai più limitata negli elementi marginali (vedi anche
pp. 28 sgg.) e prosodici nei quali, appunto, è assente la doppia articolazione.
È indubbio che la concezione delle parole come segni o
simboli, entità di per sè significative, legata ad una consuetudine riflessiva le cui origini
si perdono nei primordi stessi del pensiero speculativo, ci si presenta così
spontanea e immediata da poter dar credito ad una sua legittimità
intuitivamente postulabile. Eppure essa è radicalmente fallace (e destinata
quindi a sfociare in un'astrazione
incompetente del fenomeno concreto e valida solo nel quadro di una riflessione
sterile, avulsa dalla realtà); ed è agevole sincerarsene prendendo lo spunto da
un'asserzione familiare alla
linguistica. Allo stesso instauratore della lingua come sistema di
segni vien fatto di osservare: “Dans la
règle, nous ne parlons pas par signes isolés, mais par groupes de signes, par
masses organisées qui sont elles-mêmes des signes » (Cours, p. 177). Segno cioè la frase, o meglio il
prodotto complessivo del singolo atto linguistico, e segni (linguistici) ad un
tempo le parole; vale a dire gli elementi dal cui insieme il tutto è
costituito. In ciò il De Saussure non
è solo; su questo punto il consenso è generale, anzi normalmente, il
riconoscimento che la qualifica di segno oltreché alla parola, la quale è
appunto in virtù di essa un'entità
linguistica, compete anche alla frase, viene accompagnato dall'esplicita ammissione di una certa più compiuta
aderenza di quest'ultima alle
caratteristiche che tale qualifica comporta. Certo se si considera una parola
come grazie (l'espressione
olofrastica) tutto ciò appare legittimo; essa può benissimo essere messa sullo
stesso piano di una frase, ed è anzi l'equivalente
di un certo tipo e numero di frasi, come ad esempio: Vi ringrazio della vostra gentilezza e simili, e la differenza è
veramente solo d'ordine
quantitativo. Ma, è risaputo, grazie
come altre espressioni del genere (prego,
no, si, ciao, ohibò, ecc.) può essere qualificato “parola” solo dal punto
di vista puramente esteriore dell'unicità
d'accento e dell'inscindibilità della sequenza fonetica, trattandosi
in effetti di uno di quegli elementi marginali che appunto, per la loro natura
autonoma di espressioni olofrastiche, la linguistica considera esponenti di una
classe eccezionale e in sé conchiusa, sostanzialmente estranei al sistema
linguistico.
[a questo punto il testo si interrompe]
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