84 – Il disdegno di Mario
Metto a disposizione dei
lettori delle Morse News questo dimenticato e insuperato saggio di Mario
Lucidi nel cinquantenario della pubblicazione (Cultura Neolatina, XIV, 1954).
Ancora sul “disdegno”
di Guido
1 - I nuovi orientamenti metodologici che presenta il
recente libro di A. Pagliaro, Saggi di
Critica Semantica[1] meriterebbero, dal punto di vista
puramente teorico, specie rispetto al contributo decisivo che sono destinati a
portare nel chiarimento dei rapporti tra linguistica e filologia, una
trattazione e una considerazione ben più vasta di quella che ha riservato loro
la critica, in generale favorevolissima, ma quasi esclusivamente intenta a
mettere in risalto la bontà dei risultati raggiunti nell
E i risultati cui giunge sono così
importanti e, spesso, definitivi, da rappresentare non solo la prova migliore
della bontà delle sue premesse, ma anche, indipendentemente da ogni altra
considerazione, notevolissimi contributi di critica letteraria e di ermeneutica
dei testi. Gli argomenti trattati appartengono ai campi più diversi, dai
primordi della letteratura greca a quelli della letteratura italiana, e si
passa da questioni di amplissimo respiro a ricerche particolari; ma il metodo è
rigorosamente uno: il contesto assunto come insostituibile base di indagine e
l'interpretazione fatta scaturire non da intuizioni, sia pure felici, ma da
dimostrazioni rigorose, determinando cioè l'esatta individualità dei valori
sintattici e semantici delle forme che compaiono nel contesto attraverso il
vaglio scrupoloso del loro funzionamento nell'ambito del sistema cui
appartengono e del loro particolare realizzarsi, come entità di tale sistema,
nel contesto medesimo. Con ciò l
Questo è il caso, ad esempio, per citare uno solo degli
argomenti di più largo respiro, del saggio Aedi e Rapsodi, nel quale dall
Talvolta sembra che l
2 - Il Pagliaro aderisce anzitutto all
Nell
Offre lo spunto, a questo modo di intendere, la presenza,
nella locuzione ebbe a disdegno,
della preposizione a anziché di in, normale in Dante, in questo ed
analoghi costrutti (avere in disdegno,
odio, ira, grado, oblio ecc.) i quali, appunto in correlazione al valore
basilare di in, hanno quasi
costantemente il valore di un
Tale integrazione peraltro sembra potersi inquadrare meglio,
e non come unica alternativa, nell
L
Ora, a noi moderni, così proclivi al rilievo delle reazioni
psicologiche e abituati a lasciare tanto posto all
Peraltro l
3 - Per superare queste difficoltà conviene partire dall
Quanto alla prima circostanza, al nesso ebbe a disdegno, si è visto, il carattere di locuzione
prevalentemente estimativa consente di assumere oltre al valore aoristico anche
quello durativo; sicché la frase è veramente ambigua prestandosi a due
interpretazioni ben distinte ed entrambe soddisfacenti: da una parte quella
proposta dal Pagliaro con ellissi di un verbo deducibile da mena e con cui complemento di direzione dipendente da tale verbo; ma accanto
ad essa anche quella più semplice e diretta senza ellissi e con cui complemento
oggetto in immediata dipendenza da ebbe a
disdegno ( = che Guido vostro disprezzò).
Circa il secondo fattore, la cui importanza già rilevata è
tanto maggiore nel caso nostro, sia in generale per l
e s
fate i saper che ‘l feci che pensava
già nell
Cioè la sorpresa dinanzi alla rivelazione, implicita nelle
parole di Cavalcante, che questi non conosceva lo stato attuale delle cose
terrene, è stata tale da fargli dimenticare, lasciandolo assorto nella
riflessione su questa strana, inattesa realtà, il dovere di cancellare subito
il terribile, ingiustificato sospetto; ed egli stesso considera ciò alla
stregua di una colpa (“come di mia colpa compunto…”).
E
Così la risposta di Dante non rimane incomprensibile per
Cavalcante; ed il suo sospetto non nasce da una parola intesa isolatamente, ma
da un vero equivoco connaturato con la funzionalità stessa dell'episodio;
d'altro canto l'interpretazione del Pagliaro ha trovato quella giustificazione
formale che era venuta meno; inoltre l'oscurità delle parole di dante si è
rivelata solo presunta: il poeta, dal suo punto di vista, non è e non può
attendersi di essere oscuro.
4 - Quanto siamo venuti considerando circa la diversa
situazione psicologica tra i due interlocutori serve a chiarir meglio anche la
prima parte del loro dialogo: e in realtà è innegabile una certa discrepanza di
tono tra le parole di dante e quelle di Cavalcante. Come epicureo e miscredente,
questi non può indovinare il motivo, per così dire esoterico, del viaggio di Dante: un
viaggio così eccezionale non può rappresentare che l
Insomma Dante è portato ad intendere la domanda press
È appunto a questo modo di intendere la domanda che Dante
intona la sua risposta dedicandola quasi esclusivamente a chiarire lo stato
delle cose e riservando solo alla fine un compendioso cenno al presunto movente
occasionale o, più esattamente, ad un particolare atteggiamento di Guido, come
precedente della sua non partecipazione a quel viaggio. Ora, la qualifica piena si adatta molto bene al carattere
di polemica dottrinale che assumono le parole di Dante, ed anzi la sua presenza
appare pienamente giustificata qualora si osservi come la risposta controbatta,
rigorosamente punto per punto
Vegna ver noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Donde appare esplicitamente che l
Nella domanda di Cavalcante spicca un
Dunque, la risposta di Dante ci si
rivela davvero nella sua singolare “pienezza”:
… da me stesso non vegno.
Colui che attende là, per qui, mi mena,
forse, cui Guido vostro ebbe a disdegno.
L'interpunzione scrupolosa è necessaria a mettere in risalto
il valore pregnante
di riscontri polemici che hanno le singole forme nel dettato espressamente
compendioso e avvertito. Dante dice: ciò che ha reso possibile il mio viaggio
non è l'altezza d'ingegno, come voi mostrate di credere; io non vado ma sono
menato da colui che attende là, e sono menato non per l'Inferno, ma solo
attraverso l'Inferno, per raggiungere, se chi ha reso possibile questo viaggio
lo permetterà, la meta a cui Guido vostro sdegnò di esser menato.
5 - Ora, gli indizi che la nuova interpretazione permette al
Pagliaro di trarre dalle parole di Dante circa l
Con questo significato stanno perfettamente a posto sulla
bocca di uno dei seguaci di Epicuro, “che l
Tale contrasto peraltro non sembra si possa riferire al
periodo caratterizzato dalla “donna gentile”[13], simbolo della filosofia, il
periodo cioè specifico del Convivio;
perché in questa fase evolutiva dell
Ma Dante non è uomo da ancorarsi definitivamente a un simile
compromesso (ed è qui che quanto apprendiamo dal nostro episodio s
A parte queste considerazioni che trascendono l
Ora qui cade in acconcio una breve osservazione. Quanto
siamo venuti accertando si riflette anche sul complesso del Canto in cui l
Ma tornando a quello che era il nostro proposito
sostanziale, l'approfondimento dell'interpretazione, ci sembra che l'organicità
stessa dei risultati possa in qualche misura testimoniare della loro bontà: in
ogni modo, quali che essi siano, e quale che sia il contributo che ci ha
permesso di portare il fatto che abbiamo tenuto presente la diversità di
situazione dei due interlocutori, intenzionalmente sfruttata da Dante, rimane
al Pagliaro il merito precipuo di aver messo l'esame del testo sulla giusta
via.
[1] Messina-Firenze, D’Anna, 1952, pp. XVI-380
(Bibl. di cultura contemporanea, XL). Veramente titolo più adeguato per il vol.
potrebbe essere "Saggi di linguistica de
la parole". In realtà, dopo che il De Saussure postulò accanto alle
due linguistiche della langue quella
della parole, nonostante vaghi
accenni ad essa, nessuno ha sino ad ora trovato modo di applicarla seriamente.
Eppure, se la linguistica della parole
ha il compito di studiare il lato individuale della lingua, e con ciò non si
vuole intendere gli elementi contingenti che accompagnano il singolo atto
linguistico (ché di questo non si può fare una scienza glottologica), è chiaro
che essa di altro non può occuparsi se non di come la libertà espressiva di un
dato individuo esplicantesi in un dato atto linguistico abbia trovato la sua
realizzazione nel sistema linguistico corrispondente; e questo appunto fa, e
nel modo più egregio, il Pagliaro.
[2] Singolarmente poco perspicuo mi
sembra l'accenno (p. VIII) ad un esame del rapporto tra significante e
significato come verifica della legittimità dell'intendere. E in realtà si può
parlare di rapporto solo quando si mettano in corrispondenza due entità già di
per sé definite (e infatti nell'enunciazione saussuriana dell'arbitrarietà del
rapporto tra significante e significato, quest'ultimo, ancora a questo punto
del Cours, è identificato col concept), il che non è al caso nostro,
perché, se il significante è un dato nel vero senso della parola, il
significato, invece, è qualcosa d'irrepetibile che non può essere posto di per
sé a confronto col significante, ma inerire in esso come suo attributo: tutt'al
più si potrebbe parlare, dato un certo significante, di rapporto tra
significato nell'intenzione del parlante, significato nell'intendere
dell'ascoltatore e, forse, anche nella normale funzione del sistema. Qualunque
intendere, peraltro, presuppone di necessità da parte dell'ascoltatore o del
lettore una vera e propria valutazione, anche se per lo più inconscia, dei
singoli dati semantici nei confronti, da un lato, del sistema linguistico e,
dall'altro, delle rimanenti unità che vengono a costituire la frase: solo che
questa valutazione può risultare più o meno sviata da elementi perturbatori o,
comunque, contingenti; e oserei dire che il vero compito della critica
semantica (v. n. 1) è appunto quello di sgombrare il terreno da questi
elementi, ponendosi nelle condizioni dell'ascoltatore ideale di un determinato
contesto riferito ad un determinato momento di funzionalità.
[3] Se infatti Dante non avesse inteso
così, osserva giustamente il Pagliaro, avrebbe certamente detto cui forse,
come appunto pochi versi prima alla qual
forse: tanto più che in un caso e nell'altro non esistono ragioni metriche
che possano far preferire l'uno o l'altro ordine.
[4] Il che concorda perfettamente con l'impostazione
di questa parte del viaggio dantesco, in cui Beatrice è sempre presente come
meta alla quale si guarda con trepidazione e speranza: anzi sotto questo
aspetto, osserva il Pagliaro, il forse
non solo non fa più difficoltà e si giustifica, ma conforta anche l'ipotesi
appunto come sintomo di tale trepidazione, che anche altrove analogamente si
manifesta: Inf. XV 89-90 "E
serbolo a chiosar con altro testo A donna che saprà, se a lei arrivo". E a
questo proposito vorrei citare anche Purg.
XXIII 118 ss., in cui Dante, dando a Forese notizie sul suo viaggio, dopo aver
detto che Virgilio l'ha “menato” per l'Inferno e poi su per il Purgatorio,
aggiunge (127-28): "Tanto dice di farmi sua compagna Che io sarò là dove
fia Beatrice" - dove nell'indicare Beatrice come meta del suo viaggio,
sotto la guida di Virgilio, il poeta, benché ormai così vicino a tale meta,
così leggero e fiducioso, si esprime con un prudente dice circa la parte di viaggio non ancora percorsa e che lo separa
da Beatrice, e torna a insistervi (130): "Virgilio è questi che così mi
dice".
[5] Sia lo spirito sia la lettera di
buona parte di questo saggio sono evidentemente sfuggiti a E. Taddeo nella sua rec. al vol. e più
esattamente ai saggi riguardanti la letteratura italiana, in La rassegna della letteratura italiana,
XVIII, 1954, p. 78 ss. Egli, dopo aver esposto l'interpretazione del Pagliaro
(la quale peraltro non mi pare rappresenti solo una piccola variante rispetto a
quella che si limita a riconoscere in cui
un riferimento a Beatrice, come sembra suggerire il semplice “soltanto anziché cui = ad eam quam…” con cui viene
introdotta) come quella mediante la quale si supera la difficoltà del
preterito, aggiunge (p. 82): “Infatti, prosegue il P., il nesso avere a in Dante ha un valore più puntuale
e aoristico che non durativo” [fin qui d'accordo…] e non può essere seguito da
complemento oggetto di persona. Al contrario..." Il P. non prosegue,
ma premette
(cosa non del tutto irrilevante agli effetti metodologici, specie in vista di
quanto osserva a proposito il Taddeo a p. 79) e non afferma minimamente, come
si è visto, che il nesso avere a non
può essere seguito da complemento oggetto di persona - anzi gli esempi che egli
adduce hanno tutti complemento oggetto, il cui non essere di persona non è
davvero necessità intrinseca o che interessi: che elli ebbe a vicino di Inf. XXV 30 non ha certo la sua ragion
d'essere nel fatto che il relativo si riferisce ad un aggregato di buoi e non
di uomini. È perlomeno singolare questo respingere un'ipotesi col controbattere
un asserto che nessuno sostiene, e contro il quale non può evidentemente
mancare la documentazione, specie quando, rigettando l'ellissi, ma accogliendo,
per il preterito, il valore aoristico, si finisce in sostanza, senza parere e
senza accorgersene, per riaccettarla (perché l'ellissi è implicita nella
correlazione che il valore puntualizzante comporta): esso fa il paio, per vie
del tutto diverse, con la piccola deroga che il Taddeo sente il bisogno di fare
alla limitazione che si è posto (p. 80) per aggiungere: " non possiamo
però tacere che i due [saggi] virgiliani non riescono a persuaderci” (uno dei
“due virgiliani”, che invano si sforzano a tale persuasione, è quel modello di
acume e chiarezza in cui s’interpreta la frase tacitae per amica silentia lunae).
[6] V. ad es. Purg. XXIV 37-39; Par. XV 39-42; Inf. IX 8.
[7] Cfr. Purg. XIV 87 “Là ‘v’è mestier di consorte divieto?”, e
corrispondentemente Purg. XV 44 s.
“Che volse dir lo spirto di Romagna, E divieto e consorte menzionando?”; Par. VI 88 s. e VII 20 s.; Par. X 96 “U’ ben s’impingua se non si
vaneggia”, 114 “A veder tanto non surse il secondo”, e XI 25 s. “Ove dinanzi
dissi ‘U’ ben s’impingua” E là u’ dissi “Non surse il secondo”, e ancora 138 s.
“E vedrai il corregger che argomenta “U ben s’impingua, se non si vaneggia” e
XIII 46 s. “E però miri a ciò ch’io dissi suso, Quando narrai che non ebbe il
secondo”.
[8] Che almeno sulla conoscenza del
fatto che il figlio fosse ancora in vita Dante non nutrisse dubbi, lo dimostra
irrefutabilmente, come si è già rilevato, la sua sorpresa quando dalle parole
dell'altro è costretto a riconoscere il contrario. Sicché, vale la pena
osservarlo incidentalmente, per il
poeta, al momento del dialogo, le lacrime del povero padre vanno attribuite
solo al dolore di non vedere il figlio e non anche all'angoscia per
l'eventualità di una brutta notizia.
[9] “Ov’è questa giustizia che ‘l
condanna? Ov’è la colpa sua se ei non crede?”. Un valore intermedio ha ov’è in Purg. IX 86 “ov’è la scorta?”, mentre
una vera e propria domanda, come la nostra, nelle intenzioni però di
Cavalcante, abbiamo in Par. XXXI 64
“E ov’è Ella?”.
[10] Il tono che viene ad assumere la
domanda è in certo modo lo stesso che in Purg.
XXIII 79 ss.:
Se prima fu la possa in te finita
Di peccar più. Che sorvenisse l’ora
Del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
come se’ tu quassù venuto ancora?
O anche Purg. XI 127-132.
[11] Pagliaro,
cit., p. 370 ss.
[12] B. Nardi,
Dante e la cultura medievale. 2° ed.,
Bari, Laterza, 1949, p. 127 ss.
[13] Pagliaro,
cit., p. 370.
[14] Si veda per queste considerazioni Nardi, cit., p. 47 ss.
[15] Conv.
III xv 2-4.
[16] Conv.
III xv 8-10; v. anche IV xiii 6-9.
[17] È evidente che il rifacimento, se
c'è stato, deve riferirsi alla parte che ha inizio dal cap. XXXIX: è di qui,
infatti, che s’incomincia a vedere la Donna gentile sotto la nuova luce
sfavorevole. Nei capp. prec., XXXV-XXXVIII, siamo in un’atmosfera ben diversa:
l’amore di Beatrice non rinnegato, ma messo ormai da parte dinanzi al trionfare
della Donna gentile: la stessa atmosfera del secondo libro del Convivio (v. partic. II ii 1-5; II x 4);
salvo che, proprio alla fine della parte narrativa del cap. XXXVIII, si
aggiunge inaspettatamente e in pieno contrasto con quanto precede, a proposito
del pensiero della Donna gentile, “…che peraltro era vilissimo”: espressione
che sembra volutamente contraddire all’altra “…che era virtuosissimo”, usata
esattamente allo stesso proposito proprio in Convivio II ii 5, luogo singolarmente analogo a Vita nuova XXXVIII. Vien fatto di
pensare che si tratti di un'aggiunta intenzionalmente palese per rinnegare la
posizione rappresentata dal Convivio
e ormai superata quando si procede al rifacimento.