RE 18 – Opifici sul Castello? (30.10.2011)

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Alla particolare attenzione del

Chiar. Prof. Oscar Belvedere

Ordinario di Topografia antica

Università di Palermo

Il lungo canale declive del Castello di Termini Imerese (vedi RE 13), ritenuto finora un “caricatore” a funi per approvvigionare via mare la Roccaforte o un semplice scivolo per imbarcare grano, potrebbe essere stato invece “una condotta forzata” (a pelo libero – vedi PO 25 e CA 14) per azionare macine e/o altri opifici idraulici del Castello.

Dico subito, e a chiare lettere, che questa è solo una “ipotesi di lavoro” che potrebbe essere suffragata o meno dopo la localizzazione delle botole e/o delle cisterne “fantasma” del Castello (vedi RE 4), l’esame dettagliato del “Plano del Castillo de Terminy”, del 1700, pubblicato nell’Atlante storico della Sicilia di L. Dufour (1992) e il cui originale è conservato a Madrid, e soprattutto l’attenta ispezione dell’edificio da cui si diparte il canale in questione (vedi foto a destra, cortesia di Rosario Nicchitta).

A quanto si può desumere dalle immagini della RE 13 questo locale, sottostante al teatro all’aperto e al ritrovo Kalòs, deve essere molto vasto (circa 25 x 10 x 5 m). Alcuni storici invece che “granaio” lo ritengono un carcere, ma non c’è nulla di certo a causa della rigorosissima segretezza militare borbonica (vedi De Nervo, citato in AG 28). Fino a quando non è stata completata la circonvallazione del Belvedere (anni ’60) dai termitani era chiamato la “casa dei cani”, perché vi si rinchiudevano (o forse ammazzavano, buttandoli nel sottostante precipizio di circa 70 m) i cani randagi della città.

Molti storici, tra cui Patiri 1910 (citato in AG 28), parlano di scavi al Belvedere che hanno portato alla luce tratti dei “doccioni” dell’acquedotto Cornelio e quantità abnormi di “manufatti litici” (pietre, “corna”, microselci di pochi centimetri o addirittura millimetri) interpretati come “gioielli preistorici” (sic) fabbricati nella cosiddetta “officina paleolitica del Castello”. È più probabile invece, come anche ipotizzato nelle pubblicazioni accennate, che tali pietruzze scheggiate e sfaccettate siano state resti di lavorazione di scalpellini o meglio, come ipotizzo, semplice pietrisco da costruzione ottenuto triturando la roccia delle cave o “pirriere” di cui tutta la zona era ricca.

Nella menzionata “mappa di Madrid” sono segnati due locali (F, la “casa dei cani” e K, un edificio più in basso, verso il basso Forte) nella cui legenda, quasi illeggibile, compare forse la parola “Almazara”, che significa frantoio, cioè una macina che poteva servire, si badi, non solo per granaglie e olive (come i “trappeti” di Termini e Brucato, ammontanti a circa 60, a inizio ‘900, come attestato in Navarra, citato in AG 28), ma anche per polverifici (fabbriche di polvere da sparo) e per “pestare” o sminuzzare sommacco, pietrame e quant’altro (vedi, per esempio, Papacino 1773, citato in PO 6).

Per il funzionamento di opifici idraulici con caduta d’acqua “in uscita” e non “in entrata” rimando ai miei scritti di idraulica (passim) e ai mulini in cima alle montagne di moltissime raffigurazioni medioevali, come il disegno del Trattato di Leonardo sul “Moto e misura delle acque” (edizione Arconati-Cardinali, Fig. 198) riportato in questa News.

 

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