RE 26 – Il “segreto”
di Quintino (28.11.2011)
Quintino Sella nel 1859 a 32 anni
Toponomastica di Ettore Petrolini (nei pressi del Ministero delle
Finanze)
Trascrivo due passi (pp.
91 e 111 - vedi RE 25) della
Commemorazione fatta da Richelmy dopo 10 anni dalla
morte di Carlo Ignazio Giulio:
“Ho finora aspettato colla
speranza che altri di me più capace e forse più intrinsecamente a lui unito il facesse,
e aspetterei ancora se non mi spingesse il timore che il tempo e i molti
avvenimenti abbiano in alcuni affievolita la
ricordanza di lui per modo che ormai sia vano sperarne una commemorazione più
degna e più completa che non sarà questa mia. Povero Giulio! Avere tanto
giovato agli amici ed ai discepoli, così bene
illustrata la scienza, con tanto amore servito alla patria, essere immaturo
disceso nel sepolcro, e che questo sepolcro abbia sempre a rimaner privo di una
corona, che niuno meglio di te si è meritata?
Non
bastava spingere la creazione delle scuole tecniche, bisognava assolutamente
che Giulio assumesse sopra di sé il carico delle lezioni, ed egli il fece con tutto l’ardore di un uomo che ha coscienza di
compiere così una, sto per dire, santa missione. Forse qualcuno di voi ricorderà il
concorso a quelle lezioni, prima di Geometria, poi di Cinematica e di Meccanica
applicata alle arti, ed ancora risuonerà al suo
orecchio quella limpida voce, e torneranno alla sua mente quella chiara
esposizione, e quei fiori gentili, e quegli esempli semplici e perfino
scherzosi con cui il nostro Professore sapeva rendere amene anche materie più
che prosaiche, sapeva rendere facili ed accessibili a tutti verità che avresti
detto soltanto fatte per gli ingegni più svegliati. Ma ciò che molti di voi
ignoreranno si è che quelle lezioni, quantunque avessero l’apparenza
di essere così spontanee, tuttavia ed appunto perciò costarono immensa fatica al Professore che le dettava”.
I tanti che sicuramente non avranno seguito il mio invito a “leggere” i chiarissimi e sudatissimi
testi di queste lezioni potrebbero, chissà, convincersi del “valore” di Giulio solo leggendo queste poche righe. E in più potranno – come è recentemente successo a chi scrive –
mettere meglio a fuoco, grazie al partecipe ricordo del Richelmy, 1) i veri rapporti tra Giulio e Sella; 2) i punti di contatto delle dottrine di
Sella e Reuleaux sull’attrito adombrati in RE 24.
1) L’accenno
alle sudatissime e seguitissime lezioni di Giulio
– a quelle serali degli anni 1844-46
accorrevano centinaia di studenti lavoratori e moltissimi, pur di ascoltarlo,
rimanevano muti e stipati nei corridoi – fa pensare alle esercitazioni di
linguistica tenute circa un secolo dopo alla Sapienza di Roma da Mario Lucidi, un maestro che aveva veramente a
cuore gli allievi e, a differenza di altri, sapeva farsi amare e soprattutto “capire” da tutti (vedi testimonianze Coccia, Carpitella, D’Anna, ecc. in AG 4). Giulio poi – che, come
ricorda ancora Richelmy, non ebbe mai a soffrire una passione di cui molti son travagliati, l’invidia – tra gli allievi dell’università
apprezzò e valorizzò le straordinarie doti del giovane Sella, lo prese sotto le sue ali e lo formò non solo come
ingegnere, ma anche e forse soprattutto come politico: non solo i pregevoli
lavori sul Regolo calcolatore, sull’Assonometria, sulla Cristallografia, sulla
Metallurgia, ecc. (tutte opere diventate classiche), ma anche le
dottrine economiche del futuro Ministro delle Finanze repetono
la loro origine dagli insegnamenti del Giulio.
Ma Quintino Sella, a
quanto risulta da diversi approfonditi articoli di Attilio Garino-Canina o dal ricchissimo
epistolario curato da G. e M. Quazza (8 volumi, 1980-2010), non fu riconoscente verso il suo “Illustre Maestro” (vedi lettera del 3 giugno 1853) che gli aveva aperto la carriera,
sia scientifica che politica, e alla morte di Giulio non seppe o non volle trovare neanche il tempo del
necrologio che ci si aspettava da lui. Sono certo infatti
che Richelmy, lamentando l’oblio in
cui era stato indegnamente lasciato il suo collega di Università, abbia alluso
principalmente a Quintino Sella. E
tale abbandono, considerato che nei più importanti repertori (ad eccezione di una breve e lodevole scheda
compilativa di Vittorio Marchis sul Dizionario Biografico degli Italiani)
il nome di Giulio non c’è, dura
tuttora.
2) Nel 1874 apparve negli Atti della R.
Accademia dei Lincei un lungo e importante studio sperimentale sull’attrito,
fatto dal Colonnello Pietro Conti,
lavoro che ha innescato una celebre discussione o polemica scientifica tra il Conti e il Richelmy (vedi Atti R.
Accademia delle Scienze di Torino, vol. 11 – 1876, vari articoli).
Conti,
appoggiandosi anche all’“autorità di
Reuleaux” (in auge, lo ricordo,
proprio in quegli anni), sosteneva che le dottrine accreditate sull’attrito
– quelle di Coulomb e Morin – erano
false e avevano anche causato il disastro ferroviario della discesa dei Giovi (per errori nei calcoli dei freni). Richelmy criticava l’eccesso di scrupolo
e le troppe fuorvianti minuzie dei chilometrici dati sperimentali del Conti, stizzito soprattutto dagli
attacchi gratuiti a Coulomb e Morin (prima di gridare Eureka bisogna aver pronto
un solido edificio da sostituire a quello che si vuole abbattere…).
Riferendosi al celebre invito di Reuleaux, invocato da Conti,
a ridare “dignità alla Scienza”
trasferendo “dalle note
al testo” i
lavori di Hirn
o di Sella (e naturalmente anche i suoi…) Richelmy
ribatte che le esperienze di Hirn, Sella o
altri “non sono ancora uscite dalle note precisamente per questa ragione che non
hanno finora dato nulla di positivo da sostituirsi ai numeri di Coulomb e Morin e piglieranno posto nel testo soltanto quando comincino a dare risultati uniformi e ben positivi” (mi sia consentito di annotare a questo
proposito che anch’io, nella RE 23, ho cercato di dare “dignità alla Scienza”, non però
limitandomi a citare le vedute di Reuleaux sull’attrito, ma cercando di
esemplificarle e volgarizzarle).
Nelle parole di Richelmy
si percepisce la saggezza di Giulio:
non possono “fare testo”
teorie allo stato embrionale, e tale di certo era quella di Sella sull’attrito molecolare, che
l’autore in una lettera del 1858 a Schiaparelli
considerava “ancora nella sua infanzia”
e forse per questo motivo non si risolse a pubblicare “in extenso”, dopo averlo letto in
Accademia, il lavoro sul tripsometro, preferendo la soluzione “semipubblica” di un breve estratto (vedi RE 24). Da un passo del Richelmy sulla sua ritrosia a
polemizzare (col Conti) e
sull’intenzione di “destinare le sue
osservazioni a rimanere semplicemente conservate senza pubblicità negli archivi
della nostra accademia” (p. 663)
credo infatti di aver capito – finalmente, ma bene – cosa significa l’espressione “a titolo accademico”.
Ma il
comportamento del nostro Quintino pare
ambiguo. Se il suo intento era solo “fare
dell’accademia”, cioè leggere la Memoria sull’attrito, presentare lo
strumento, destinare il tutto agli archivi per così dire
“segreti” (cioè non pubblici) dell’Accademia e rimandare la pubblicazione a
tempi più maturi, perché lasciar “trapelare”,
anzi promuovere la diffusione solo di quell’estratto del Nuovo Cimento che promette molto ma mantiene poco? Per la risposta
bisogna aspettare il reperimento della Memoria in oggetto (se esiste agli atti, all’epoca non pubblici, dell’Accademia delle
Scienze di Torino) e la sua pubblicazione, quel passaggio capitale
dall’esemplare unico dell’archivio (coperto
da qualche segreto: industriale, scientifico o di semplice tornaconto)
all’opera aperta della biblioteca (vedi
anche PO 33 – La Fiat ad acqua). Solo allora si
potranno mettere a confronto, se ne varrà la pena, le teorie di Sella e di Reuleaux (il cui nome nel
citato epistolario di Sella compare solo in una lettera di “raccomandazione” a Grandis del 1860).
Non mi pare poi, e per concludere, che
ci possano essere dubbi sul comportamento ingrato di Quintino Sella verso il suo mentore Carlo Ignazio Giulio. Il vero scandalo, la vera apostasia non è
mantenere al riparo da occhi indiscreti il frutto del proprio lavoro, ma “secretare” – cioè nascondere, oscurare, insabbiare,
affossare, silenziare, rinnegare, svalutare – per fini ignobili e abusando
del prestigio conseguito, quello del lavoro altrui (vedi anche LU 97).