25 – La parola perfezionata

 

La parola telegrafia, in senso lato, dovrebbe essere sinonimo di comunicazione, e come tale non sarebbe un’invenzione umana, ma un dono che la Provvidenza ha fatto non solo agli uomini (parola), ma a tutti gli esseri viventi (versi degli animali). Con questo alto concetto si apre la seconda edizione (Parigi, 1852) del monumentale Traité de Télégraphie Électrique del dottissimo abate Moigno, il secondo e più importante lavoro, dopo la prima edizione del 1849 (vedi frontespizio), che inquadra la telegrafia – non solo quella elettrica e, ancor meno, non solo quella di Morse (che all’epoca appena si affacciava in Europa, assieme ad una miriade di altri sistemi) – dal punto di vista storico, da quello tecnico e anche da quello linguistico.

Gli studi di telelinguistica, cioè del Morse insito o nascosto nella lingua comune, come ampiamente specificato altrove nei miei scritti, presuppongono la conoscenza, almeno sommaria, dell’evoluzione storica dei sistemi di comunicazione e un po’ di elettrotecnica, o almeno di terminologia telegrafica. Con questo bagaglio propedeutico si potrà accedere agevolmente a considerazioni di carattere linguistico, a cominciare dalle seguenti, tutte mutuate dal citato Moigno.

I segni telegrafici potevano riprodurre il pensiero in vari modi:

1) rappresentando delle frasi convenute prima (come i geroglifici);

2) rappresentando le lettere dell’alfabeto;

3) con numeri che rappresentino o lettere o parole o frasi (doppio vocabolario).

Il primo metodo non può esprimere pensieri imprevisti (idee nuove), però è semplice. I fratelli Chappe (di cui uno era seminarista) lo hanno adottato per i nominativi e i segnali di servizio (urgenza, chiuso per nebbia, ecc.). Il secondo metodo è il più esaustivo, perché permette di comunicare tutte le idee, ma è “antitelegrafico” perché richiede tempi enormi, mentre, lo ripetiamo, anche al tempo dei Chappe lo specifico e l’urgenza della telegrafia era l’istantaneità della comunicazione. Il terzo è quello più praticabile, mediante i famosi vocabolari.

Ci sarebbe anche un modo sillabico di comunicazione, il cui solo vantaggio rispetto a quello letterale è un numero di movimenti un po’ inferiore. Questi movimenti, com’è noto, i Chappe li ottenevano variando le posizioni (verticale, orizzontale, inclinata a destra e a sinistra) delle loro aste. Riservando 92 segni ad altrettanti numeri ed altrettante pagine del vocabolario, ognuna con 92 parole, si potevano trasmettere 8464 parole (il primo segnale del telegrafo era la pagina, il secondo il numero in questa). Nelle macchine telegrafiche poi i movimenti potevano essere semplici o composti: nei primi i segnali sono del tutto indipendenti gli uni dagli altri; negli altri un errore si ripercuote in tutta la corrispondenza successiva.

Anche se scarta il metodo letterale Moigno ha chiarissimo il nocciolo del problema. “L’arte della telegrafia ha lo scopo di studiare le forze e i fenomeni della natura per raggiungere quella comunicazione rapida a distanza che la Provvidenza non ci ha dato. La scrittura fissa il suono fuggitivo che colpisce l’orecchio e lo strappa al volo rapido del tempo: il problema è dunque trasportare i nostri pensieri ad ogni distanza con la più grande velocità possibile. Astraendo dalla distanza la parola sarebbe la più completa soluzione del problema. La telegrafia esige una parola perfezionata, cioè che si faccia sentire a tutte le distanze. Sarebbe evidentemente allontanarsi dalla perfezione sostituire alla parola un linguaggio scritto o figurato, più o meno simile a quello col quale ci facciamo comprendere dagli idioti e dai muti; mentre invece si sarà raggiunta la perfezione solo quando si sarà conservata nella comunicazione a distanza quella proprietà capitale che ci rende attenti nostro malgrado. A prima vista il problema sembra irto di difficoltà, perché la parola ha a sua disposizione un grandissimo numero di articolazioni o di suoni diversi, e può così esprimere tutto con un piccolo numero di combinazioni. Come imitarla? Quasi tutti gli studi di telegrafia si sono incagliati in questa difficoltà” (loc. cit., p. 2).

Moigno intuisce anche l’importanza del rumore associato alla scintilla dei telegrafi elettrostatici: agendo sull’orecchio rendeva spontaneamente attenti gli operatori e soddisfaceva la condizione essenziale di tutta la telegrafia, cosa che invece mancava ai muti e neri segnali di Chappe che non svegliavano l’attenzione e potevano solo essere letti sullo sfondo chiaro del cielo (luce e nebbia permettendo…).

Il Morse fonetico, come sappiamo (vedi, in particolare, le osservazioni di Charlier in Lucidi News 22), si rivelerà una “imitazione della parola” così perfetta da quasi annullare i confini tra telegrafia e telefonia. Ma in quella telegrafia pionieristica non ci si ponevano problemi linguistici che comportassero “operazioni dello spirito” per comprendere, scrivere o ripetere i segnali. Anzi, si badi molto bene, per i bisogni del servizio erano bastevoli, se non più indicati, uomini di mediocre intelligenza.

Lo stesso Morse, per evitare di dover stimare o misurare con la mano o col pensiero la durata della pressione da esercitare sul tasto, vagheggiò una tavola coi segni precomposti, che si sarebbero potuti trasmettere con una semplice passata di stilo. Mentre Bain, antesignano della telegrafia automatica, ebbe addirittura l’idea, a prima vista ancora più felice, di precomporre l’intero dispaccio, abolendo la necessità della presenza e della vigilanza degli operatori. Moigno, dal canto suo, ritenne invece che le linee e gli spazi di molteplici lunghezze del Morse comportavano gravi inconvenienti, e semmai avrebbe dato la preferenza all’alfabeto di Steinheil che usava un solo punto e una sola linea (senza che nessun segnale comprenda più di 4 elementi).

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