51 – La Meccanografica di Vignini

 

Trascrivo i primi due capitoli di F. Vignini, Al genio italiano è dovuta l’invenzione della macchina per scrivere, Roma 1959, a cui vien fatto riferimento nell’Atomo Il segno tecnificato. L’iposema di Lucidi.

 

 

I – DATTILO-GRAFIA  e  TIPO-GRAFIA

 

La parola composta nominale “dattilo-grafia” (dal greco δάκτυλος = dito e γραφή = scrittura) significa, propriamente, dito-scrittura ovvero “scrittura eseguita con le dita”.

Archeologicamente, esiste, infatti, una scrittura del genere, ed è quella che si rinviene in certe caverne, sulle cui pareti, rese plastiche da alterazioni dovute, probabilmente, all’umidità, l’uomo tracciò, con le dita, i primissimi segni.

Era tale, in antico, l’associazione fra grafia e plasticità del mezzo destinato a ricevere e conservare i segni, che gli indigeni americani incontrati da Humboldt a oriente dell’Orinoco, per spiegare come potessero trovarsi, a straordinarie altezze, sulle rocce delle montagne granitiche fra il villaggio di Urbana e le rive del Caura, rappresentazioni incise del sole, della luna, degli astri e geroglifici indecifrati, dicevano che quei segni erano stati tracciati dagli antenati in un tempo in cui “le pietre erano ancora di tale mollezza che gli uomini poterono solcarveli con le loro dita” (HumboldtVue des Cordillères).

Ma, prima ancora del segno grafico [intendo per impronta un segno ottenuto comprimendo una matrice sul mezzo atto a ricevere l’impronta stessa. Chiamo invece grafico un segno ottenuto comprimendo e muovendo sulla materia scelta una punta solcante (incisione)] sulla creta, nacque quello impresso. L’impronta, anzi, è un fatto naturale, che diede all’uomo l’idea di potersene valere come segnale. Le impronte degli animali sulla neve e sul terreno fangoso sono come tante frecce di direzione che vengono seguite per scovare la preda; gli animali stessi, prima dell’uomo, le sfruttano.

E, dall’impronta su mezzo plastico al grafico su mezzo plastico , il passo è breve. In questa seconda fase, si ha l’inizio vero e proprio della grafia (non semplicemente impressione, ma impressione e moto grafico combinati).

Lasciare, dunque, una traccia, un segnale, un ricordo e, poi, forse, la marca di proprietà o di fabbricazione, furono le necessità prime che indussero l’uomo ad usare il piede, la mano, le dita, le unghie, le bacchette, i bastoncelli, le pietre, ecc., per imprimere e segnare graficamente.

 

Stabilire se l’idea dell’incidere e quella dell’imprimere a mezzo di coloranti siano o meno coeve, non è impresa facile; comunque debbono ambedue ritenersi posteriori a quella dell’imprimere e del segnare su mezzo plastico.

Negli scavi effettuati da Raphael Requeña, trent’anni fa, nella valle del Tacarigua (Aragua-Venezuela), furono rinvenuti dei cilindretti decorati che, secondo il Requeña medesimo, dovevano servire per fare tatuaggi leggeri, ossia decorazioni a stampa (stampa decorativa a cilindro ruotante).

Come si vede, l’idea della rotativa potrebbe essere impugnata dagli eredi dei paleolitici del Venezuela o, per lo meno, dai Sumeri, che, 5000 anni or sono, usavano identici cilindri per stampare documenti, segnare marche di fabbricazione, decorare pareti e tessuti.

L’idea della stampa è vecchia quanto il mondo.

Anche noi occidentali abbiamo gli esempi dei cilindri, dei sigilli (tessere, marchi di fabbrica, marchi su bestiame e su schiavi, marchi su condannati, ecc.); ma i Cinesi stampavano libri, molti e molti secoli prima di noi, facendo uso di clichés incisi su legno a pagina intera (un clichè, cioè, per ogni pagina). Questi libri xilografici furono introdotti in Europa agli inizi del 1400. Di lì a poco, con Gutemberg, siamo al “tipo”, cioè al carattere mobile.

 

Eppure, i caratteri mobili non sono una nostra invenzione. Il famoso “disco di Festo” fu impresso, mediante punzoni tipici (45 in tutto), almeno diciotto secoli avanti Cristo!

Perché siano passati dei millenni per arrivare alla stampa, come da noi oggi è intesa e sviluppata, è un mistero che non può essere spiegato mediante la deficienza di mezzi tecnici. La più semplice logica ci assicura che, con la nascita del primo alfabeto del mondo, avrebbe potuto benissimo sorgere l’arte della stampa. E, forse, c’era: sotto forma di normografi, di mezzi di riporto (caratteristici ed antichissimi i mezzi di riporto dei disegni su stoffe, dei disegni per ricami, per decorazioni, ecc.), di punzoni tipici (monete). Delle stesse radici TIP e PINT, da cui sono sorte la parole τυπος = impronta e punctum = punto (da cui punzone) troviamo l’origine in onomatopee molto antiche indicanti il rumore caratteristico del battere, del coniare, dello scolpire: pin!, pun!, tip!

Sembra, dunque, che una forza ignota abbia voluto impedire il diffondersi della scrittura. Ed è, infatti, con l’umanesimo che sorge la stampa; non, a causa di questa, quello.

 

L’idea della dattilografia come da noi intesa (scrittura mediante pressione del dito su di una leva recante un tipo) avrebbe dovuto, logicamente, precedere quella del carattere mobile, perché una macchina per scrivere non è altro – fondamentalmente – che l’organizzazione meccanica di una serie di punzoni, identici, dal punto di vista strumentale, a quelli usati per imprimere la scrittura pittografia sul disco di Festo (quasi 4000 anni or sono).

Invece, è avvenuto il contrario.

Gutemberg, infatti, e tutti quegli altri che lo seguono, si preoccupano essenzialmente del problema della composizione della pagina destinata alla riproduzione, non già a creare un tipo solo, che possa essere usate quante volte si voglia per scrivere un solo esemplare. A questo scopo era ritenuta più che sufficiente l’opera degli amanuensi.

Ciò dimostra che la tipo-grafia (1438) non nacque dal desiderio di ottenere la chiarezza della lettura, e nemmeno dalla tendenza stenografica, ma dalla necessità di realizzare la molteplicità delle riproduzioni, da una necessità che si potrebbe chiamare, più esattamente, poli-grafica.

 

Perché la concezione dattilografica sia sorta dopo quella tipografica deve, secondo me, vedersi nel desiderio di avere a portata di mano un mezzo per “scrivere in caratteri simili a quelli di stampa”.

Oggi, con tutta questa cartaccia, lordata dalle rotative e dai rotocalchi, che esaspera talvolta lo spirito umano, non si sente più quel sacro senso di “amore” per la pagina stampata che sentivano i nostri nonni e che ancora noi provammo, nella nostra giovinezza, quando un bel libro ci appariva come la sintesi dei miracoli compiuti dal progredire umano; quando il solo odore della tipografia o del giornale fresco riusciva a spronarci alle belle battaglie della mente. Ma chi sa quanti, nel XVI e XVII secolo, pensarono con avidità alla possibilità di costruirsi una piccola tipografia casalinga, non tanto, forse, per avere le molte copie, quanto per possedere il mezzo di scrivere con gli stessi nitidi caratteri delle stamperie. Caratteristica, a questo proposito, la espressione di Vittorio Alfieri, che bramava avere una “piccola stampieruccia a mano” per imprimere i suoi sonetti (1786).

 

 

II    GIOCATTOLI  E  MACCHINE

 

Esiste, oggi, in Italia,, una pubblicazione che deve ritenersi fondamentale in fatto di cultura dattilografica ed è il bellissimo volume di Giuseppe Aliprandi: “Dalla macchina da scrivere al dattiloscritto” [presso l’autore – via Roma, 45 – Padova], che, insieme con il “Manuale ed antologia della dattilografia italiana” costituisce quanto di meglio sia stato scritto, dopo anni e anni di appassionate ricerche, da questo infaticabile studioso.

Dalle opere dell’Aliprandi, come da quelle del Budan [vedi Bibliografia nel citato libro di Aliprandi], attingo le notizie contenute nel presente opuscolo. Aggiungerò alcuni pensieri personali ai dati che delineano le origini della macchina per scrivere: credo doveroso difendere i diritti di priorità dell’Italia in mezzo alle caotiche, imprecise e, spesso, false affermazioni che attribuiscono ora a questa ora a quella nazione il merito di avere, per prima, dato al mondo un mezzo che ha rivoluzionato completamente, in un secolo, la tecnica scrittoria.

 

Aliprandi, seguendo il Budan, distingue la storia delle macchine da scrivere in due grandi periodi: quello dei precursori e quello industriale (dal 1876 in poi). Dal punto di vista costruttivo l’Aliprandi distingue, poi, le macchine in: tipi a una leva e tipi a tastiera multipla; a scrittura cieca ed a scrittura visibile; a mano ed elettriche. A me sembra, però, che, fino ad oggi, nell’esporre le tappe storiche del progresso meccanografico, non si sia sufficientemente insistito sulle caratteristiche fondamentali delle macchine (strumenti o mezzi comunque escogitati a fine grafico) in relazione con la precipuità dello scopo che i varii inventori si prefissero.

È, per esempio, fuori di posto, nella storia della dattilografia, parlare dei dadi del Rampazzetto (a meno che non fossero qualche cosa di meglio di ciò che si dice); classificare fra le macchine per scrivere la Pocket Typewriter o Miniatura (inglese), la Dollar Typewriter (americana), la Volks madre della Discret (tedesche), e così via.

Come pure non è possibile accettare, fra le macchine destinate a chi ci vede (visografiche), quelle costruite per i ciechi (tiflografiche ed estesiografiche), poiché i concetti costruttivi debbono necessariamente differire in relazione con la destinazione dello strumento.

 

La storia della dattilografia è, invece, la storia della macchina per scrivere. E non può chiamarsi macchina se non un congegno in cui, alla chiarezza dei caratteri ottenuti sulla carta, si uniscano i concetti di utilità, di rapidità, di funzionalità. In altre parole, non possono chiamarsi macchine per scrivere delle rotelle, come la Pocket inglese, e neppure le macchine ad un tasto, in cui non esiste la indipendenza dei tipi.

Le macchine ad un tasto sono, infatti, costituite, generalmente, da un supporto (disco, piatta, barra, pettine, cerchio, rullo, ecc.) sul quale sono progressivamente incise o stabilmente applicate, le lettere dell’alfabeto ed i segni grafici supplementari. Il supporto gira su un perno o scorre entro due guide – più o meno automaticamente – fino a presentare alla carta destinata a ricevere l’impronta, la lettera voluta. In questo momento, per mezzo di una leva, si comprime la lettera sul foglio. Per stampare la lettera successiva, è, poi, sempre necessario far scorrere a vuoto, lungo la barra o il cerchio, le lettere intermedie non necessarie. Si possono così avere passaggi a vuoto che impegnano talvolta la totalità delle lettere incise sul supporto. I tipi, in questi congegni, sono, dunque, interdipendenti.

Si tratta, come si vede, di strumenti che hanno lo scopo precipuo di imitare, scimmiottare – a fine eminentemente estetico – la scrittura tipografica: e, spesso, non sono che giocattoli, come tali adoperabili, ma non degni di figurare nella storia della dattilografia.

 

Macchine per scrivere sono, invece, quei congegni nei quali i caratteri, tutti indipendenti fra loro, sono posti a disposizione dell’arbitrio dell’operatore a mezzo di una tastiera multipla; nelle quali, cioè, è totalmente evitata l’operazione della scelta – mediante rotazione o scorrimento del supporto – del carattere da imprimere.

La macchina per scrivere deve rispondere al principio fondamentale della sostituzione vantaggiosa della scrittura a mano; deve, cioè, essere rapida, precisa e (possibilmente) … meno rumorosa delle attuali.

Possono chiamarsi documentazioni dello sforzo creativo della macchina da scrivere aggeggi del tipo Burth (1829), ingranaggi come quelli del Pierrot (1839) o labirinti meccanici del genere =. T. Eddy (1850)?

Si tratta di realizzazioni che richiesero evidentemente tempo, pazienza, astrusità…; ma mancano di ingegno aderente alla realtà. E questo difetto è dimostrato dalla interdipendenza delle leve o dei punzoni.

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