CA 5 – La pistola d’acqua (11.4.2010)

Lo strano fenomeno della News precedente si può sperimentare con un comune innaffiatoio (vedi foto) la cui “canna”, con tutta evidenza, corrisponde alla “doccia” di cui era “armato” il nostro secchio.

Senza scomodare gli ardui cimenti sulla caduta dei gravi (solidi, liquidi o aeriformi) delle antiche accademie è evidente che il flusso o vena d’acqua ha una traiettoria parabolica simile a quella dei proiettili sparati da un cannone o da una pistola e, cosa ancora più ovvia, che la “gittata” e la forza di questa elementare “macchina idraulica” si illanguidiscono man mano che diminuisce il “battente”, cioè in pratica con l’esaurirsi dell’acqua nella tanica. Ma, si badi, mentre lo spruzzo della pistola ad acqua con cui i bambini “combattono” d’estate dipende dall’azione di una pompetta, nella “pistola d’acqua” appena descritta il getto, molto più banalmente, dipende dalla sola forza di gravità.

La cosa meno ovvia, ma credo estremamente interessante, di questa spinta semplificazione didattica riguarda invece l’utilizzazione, la regolazione o meglio ancora la “distribuzione” dell’energia idrica del sistema, legata alla massa d’acqua e al suo livello piezometrico o “battente” che dir si voglia. Infatti con la canna (come in figura) l’innaffiatoio si scarica, mettiamo, in 20 sec, mentre segando la canna (o lasciandone un mozzicone), anche se può apparire strano, esce meno acqua e quindi l’erogazione dura di più (mettiamo 30 sec).

Ecco spiegato l’enigma della doccia: il tubo addizionale non può fare miracoli, è solo un’arma, un artificio o una “protesi” escogitata dall’uomo per gestire e regolare (o domare, se si preferisce) secondo i suoi bisogni la forza bruta della natura. In altri termini, quello che si perde in durata si guadagna in forza.

L’autore che più di ogni altro ha sviscerato il problema dei tubi addizionali è Giovanni Poleni nel libro “De Castellis” (1718, edizione latina e 1767, edizione italiana). E mi permetto di aggiungere che, benchè il Poleni abbia tenuto, a Padova, la stessa cattedra di Galileo e lo abbia, almeno a mio sindacabile giudizio, superato nei meriti scientifici, solo quattro gatti in Italia (e dopo i pungoli venuti da oltralpe, anzi d’oltreoceano) conoscono o ancor meno onorano il suo nome.

Ciò forse è dotuto alla perversa “legge del mercato” che quando si pubblica qualcosa, specialmente se lo si fa in maniera umile e chiara, i lettori la percepiscono come banale e risaputa, la considerano di dominio pubblico e se ne appropriano senza tanti scrupoli, citando al più la fonte in qualche “noterella”. Nel caso del Caverni poi, come denunciato con coraggio e onestà da Giorgio Tabarroni, si va addirittura oltre: ci si guarda bene dal citarlo per non compromettere la propria reputazione scientifica!

 

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