3.1 - I numeri di Lucidi

 

 

                      Scusi, forse ho sbagliato. Questo che interno è?

                      Cinquantanove.

Il dialogo telefonico di mezzo secolo fa tra Mario Lucidi e Roberto Vacca, testimoniato da quest’ultimo nelle uniche, preziose e troppo scarne pagine esistenti sulla scoperta della tensività dei numeri[1] non fu proprio questo, ma ho ritenuto di semplificarlo per evitare interferenze tra il fenomeno base e quelli concomitanti.

                      Quanti anni hai?

                      Che ore sono?

                      Come si dice venticinque in persiano?

                      Come lo hai pronunciato trentatre?

Domande di questo tipo Lucidi soleva farle, spesso all’improvviso, ai suoi conoscenti, specie a quelli occasionali, non prevenuti circa la sua “fissazione” per i numeri[2]. Il geniale linguista non dava i numeri, voleva semplicemente controllare se la risposta numerica ottenuta in tutti questi casi era caratterizzata dal fatto di essere una frase compiuta, e non un iposema[3]. Il “cinquantanove” di Vacca, anche se tonalmente poteva essere proferito con infinite sfumature – fastidio, cortesia, dubbio, ecc. – però era sempre una espressione olofrastica, cioè una risposta completa, una frase a ogni effetto equivalente a “questo interno è il cinquantanove”.

Quella sera Lucidi incontrò Vacca e gli disse:

                      Oggi, quando ti ho telefonato in ufficio, hai risposto dicendo il numero del tuo telefono interno. Ripetilo.

                      Cinquantanove.

Stavolta l’orecchio finissimo di Lucidi in questa parola non colse nessuna valenza semantica. Cinquantanove significava 59 e basta, non sottintendeva niente, era un iposema detto, ripetuto (proprio come richiesto) macchinalmente, a memoria[4].

Per definire questa nuova grandezza scoperta da Lucidi e da lui chiamata tensività consideriamo il famoso meccanismo della lingua di Saussure come costituito da un treno di ingranaggi di tipo leonardesco in cui ogni ruota rappresenti le unità, decine, centinaia, ecc. del sistema di notazione posizionale (cifrazione araba):

 

 

Questo rotismo o articolazione può girare in due modi: senza attrito e con attrito. Nel primo modo funziona la buccoliana memoria organica, la pronuncia è fluente, non impacciata dal significato e le parole, attinte da quello scrigno senza fondo che è l’inconscio[5] (dove sono serbate in modo organico, regolare, settato) sono estense. Nel secondo modo funziona la memoria psichica, la pronuncia è impercettibilmente stentata, disturbata, frenata da interferenze (risonanze, consonanze, ridondanze e turbolenze) semantiche e le parole sono intense, attualizzate, coscientizzate, cioè messe in primo piano nella ribalta della coscienza, nel fuoco dell’attenzione o nella vigilanza del parlante. In genere per “frenare” si intende semplicemente un rallentare, un diminuire la velocità[6], invece nel caso della tensività articolatoria scoperta da Lucidi si tratta di vero e proprio attrito fisiofisico, in tutto paragonabile a quello già descritto della linea Morse (vedi § 1.5 - Telegrafia)[7].

Il cinquantanove detto da Vacca al telefono era intenso, quello ripetuto estenso.

 

Un’altra testimonianza di tensività numerica ci viene dallo stupefacente gioco tipo morra fatto una sera, sempre di cinquant’anni fa, all’Istituto Lucidi di Roma[8]. Alcuni alunni “gettavano” un numero con le dita (quindi da zero a dieci) e Lucidi, che non vedeva le mani ma sentiva solo il numero annunciato contemporaneamente, “indovinava” se il numero detto corrispondeva a quello gettato, in altre parole se il giocatore diceva la verità o mentiva. In realtà anche qui la sua sensibilità percettiva gli permetteva di cogliere il prosodema tensività: se il giocatore, mettiamo, gettava 3 e diceva tre la pronuncia era intensa, quel tre stava per “ho buttato tre”; se invece il giocatore, mentendo, diceva cinque, tale sequenza fonica non aveva nessun valore (semantico), era una parola fluente, tirata via, pro forma, in una parola estensa.

Una volta definita ed esemplificata la tensività con l’aiuto della pressività Morse possiamo forse comprendere meglio le parole dello stesso Lucidi[9], secondo cui la tensività deriva, probabilmente, dalla diversa distribuzione dell’energia articolatoria: l’intensa sarebbe “più energica, frenata e breve (puntiforme), l’estensa “meno energica, assolutamente non resistente e piuttosto prolungata[10]. Secondo queste parole il parallelo da me introdotto estensa = punto Morse, intensa = linea Morse  sembrerebbe insostenibile, perché è la linea che è più lunga del punto, non viceversa.

Ma forse la confusione è dovuta alla coesistenza dell’ambiente articolatorio (non immediatamente rivelabile dai sensi normali[11]) con l’ambiente fonetico – “la cui sopravvalutata influenza costituisce uno dei maggiori ostacoli all'apprezzamento dei fatti prosodici” – che può aver sviato il pur avvertito Lucidi. Questi infatti aggiunge: “In questa prima esplorazione di un campo ancora nuovo io ho dovuto di necessità procedere ad orecchio perché essendo le variabili tanto numerose e accompagnandosi costantemente a quelle essenziali tutte quelle particolari, dovute a singoli fatti di realizzazione, qualunque analisi strumentale, nella sua fedeltà meccanica e indiscriminante, avrebbe dato risultati non valutabili. Sicché è stato anzitutto necessario isolare le singole variabili in modo intuitivo, con la conseguenza di una certa inevitabile imprecisione e soggettività nel valutarne l'effettiva consistenza fisiofisica. Ora bisognerà incominciare a sottoporre i risultati ad analisi strumentale, sia per avere idee chiare sulla consistenza dei singoli prosodemi, sia per sgomberare il terreno da errori che prevedibilmente mi sarà stato impossibile evitare. La cosa è divenuta ormai possibile perché le nozioni acquisite permettono di orientare l'analisi strumentale isolando i singoli fatti[12].

A prescindere da queste incertezze fisiofisiche, che solo una mirata verifica strumentale potrà dirimere, vediamo – sempre con le parole di Lucidi – quali sono i capisaldi linguistici su cui poggia l’edificio della tensività (almeno quella numerica).

“La tensività è il prosodema fondamentale che garantisce la relazione lineare nel sema. Un iposema può essere sottratto alla tensività solo pronunciandolo isolato e senza pensarlo o facente parte di una frase o equivalente ad essa. Il tipo di espressione in cui la tensività è l'unico prosodema è la numerazione cardinale fatta partendo da zero, appunto perché siamo in un campo relazionale puro, dove non intervengono ancora nessi logici e si ha soltanto la relazione lineare della numerazione. Lo zero e tutti i pari sono intensi, i dispari estensi (asserzione). Formulando la sequenza ordinale zeresimo, primo, ecc., zeresimo è estenso, primo è intenso e così via (constatazione)”.

L’altro caposaldo[13] è quello che a buon diritto si deve chiamare effetto Lucidi: “Quando si riferisce il pensiero altrui (o si ripete a memoria), si notifica ciò invertendo la tensività di tutti i prosodemi”.

L’effetto Lucidi dà luogo a insidiosissime continue inversioni e lo scopritore ne dà moltissimi esempi: nel formulare le predette serie cardinale e ordinale bisogna evitare di pronunciarle come se si ripetesse a memoria, perché altrimenti si ha un risultato opposto; per rendersi conto qui, come in tutti gli esempi che porterò, della prosodia bisogna naturalmente abituarsi non a leggere ma a recitare, e recitare nel vero senso della parola, cioè non riferendo semplicemente a memoria, ma dicendo con la convinzione sentita di aver capito fino in fondo; la frase va letta di per sé, e non come facente corpo del periodo in cui l'abbiamo posta, altrimenti le tensioni si invertono; ecc.

Può darsi che quella specie di gioco o scioglilingua che facevamo da bambini di dire il più velocemente possibile la serie dei numeri pari e quella dei numeri dispari sia connesso con la tensività. Se proviamo a rifarlo ci accorgiamo che due, quattro, sei, otto, ecc. riusciamo a dirli più facilmente e velocemente di uno, tre, cinque, sette, nove, ecc. È evidente che i pari sono connessi più dei dispari con i calcoli matematici[14] e quindi sono più mnemonici, meglio conservati (tabulati, impaginati) nella memoria (organica) e per questo riescono più  maneggevoli o …boccaggevoli.

La discriminazione più corretta però non deve essere semplicemente quella tra pari e dispari, ma quella tra numeri composti e numeri primi. E qui mi limito a citare l’esempio più famoso (e più strano) portato da Lucidi: tredici medici / sedici medici. Morfologicamente, foneticamente (e anche tonalmente, nelle infinite realizzazioni) l’iposema tredici differisce dall’iposema sedici, è evidente. Tra le due parole c’è però una differenza più sostanziale (nel senso proprio di questa parola!), una differenza prosodica, fisiofisica, articolatoria.

Sedici è numero composto, risultato di prodotti, emesso chissà quante volte da quella “macchina” cerebrale (della memoria organica) le cui rotelle sono ben oliate e pervie. L’iposema sedici ha così un alto tasso di sistematicità, di organizzazione, è una vera cifra, è più consolidato dalla scrittura[15], e corrisponde al polo scritto (formula) del lucidiano dominio linguistico già menzionato[16]. In sintesi è estenso.

Tredici invece è numero primo, indivisibile, meno ordinario, più straordinario, più eventivo, più “scomposto”. La singolarità dei numeri primi richiama di più l’attenzione, e la coscienza del parlante, e dell’ascoltatore, ne sente maggiormente il valore semantico. L’iposema tredici pertanto è detto meno macchinalmente e più in tempo reale, non è una cifra o vuota formula, ma è per così dire de-cifrato, compreso e si colloca nel polo orale (interiezione) del dominio linguistico. In sintesi è intenso.

La tensività della parola sedici/tredici influenza anche l’atteggiamento prosodico dell’iposema seguente medici, ma, sia per la trappola continuamente in agguato dell’effetto Lucidi, sia per questioni di contesto (costruzione diretta, indiretta, ecc.), si hanno continue inversioni/oscillazioni della tensività praticamente incontrollabili. “Ciò potrebbe indurre a credere che la prosodia si riduca ad un complesso di segnalazioni vaghe ed approssimate, sommerse nell'inestricabile pània dell'arbitrio individuale. Ma il fatto è, al contrario, la conseguenza dell'assoluta coerente fedeltà dei prosodemi all'effettivo valore del sema[17].

Un’altra complicazione[18] potrebbe essere quella di coloro che, dotati di cambio marcia cerebrale più o meno sincronizzato, “senza rendersene conto ragionano in base 12 invece che in base 10, ma è meglio procedere a piccoli passi e non mettere troppa carne al fuoco. Soprattutto è necessario affrontare i singoli problemi armati degli strumenti della linguistica generale messici a disposizione dal genio di  Mario Lucidi, a cominciare dall’ardua questione della “repetibilità[19] o analizzabilità del segno[20].

 

 



[1] R. Vacca, Esempi di avvenire, Milano, 1965 (L’informazione tonale, p. 133 e 150). Il mio citato lavoro sulla lingua bistabile tra i molti difetti, e i pochi pregi, ha quello gravissimo – spero giustificato dallo stato delle mie conoscenze di quindici anni fa – di parlare di tensività senza mai nominarla e tanto meno definirla. Inoltre in quel lavoro provvisorio alludevo a questa grandezza scoperta da Lucidi in modo troppo generico e vago. In questa sede invece mi limito a discutere la tensività dei numeri.

[2] Vedi Gaeta, Interviste, cit.

[3] Si chiama iposema, come sanno i linguisti, una parola desemantizzata, priva di significato.

[4] Per evitare rischi di impantanamento circoscriveremo i nostri rilievi in un settore molto ristretto della linguistica e cioè, come già detto, a quello dei numeri, come se fossimo solo compositori musicali di canzonette, e non anche parolieri. Inoltre, per capire bene che una parola – ad esempio la parola rosa – può avere uno, nessuno o centomila significati, vedi Anatomia della rosa in Gaeta, Miscellanea, cit.

[5] Buccola, ben prima, e forse meglio di Freud, ha scoperto che molti atti che ci sembrano coscienti in realtà sono meccanici, incoscienti.

[6] Ad esempio nella interpretazione usuale della celebre lapide trilingue nel cortile Maqueda del Palazzo Reale di Palermo: Il re normanno Ruggiero, avendo avuto lo scettro da Dio, frena il corso della fluida sostanza, distribuendo scevra di errori la cognizione delle ore del tempo.

[7] Il contributo del Morse non si limita alla luce gettata sulla tensività, ma probabilmente permetterà anche la discriminazione strumentale (della pressività) delle intense e delle estense. Esperimenti in questa direzione, messi da tempo in cantiere (ad esempio il collaudo di un guanto telegrafico fatto il 14.5.2003 con la cortese collaborazione del capostazione Domenico Brasacchio), lasciano ben sperare.

[8] Vedi testimonianza Di Rienzo in Gaeta, Interviste, cit.

[9] Prosodemi, tensività e tensione, a cura di T. De Mauro (?), Ricerche linguistiche, V, 1962, ristampato in Lucidi, Saggi linguistici, cit.

[10] Lucidi, per brevità, usa il segno  ¯  per l’estensa, e il segno  ˚  per l’intensa.

[11] Afasici, sordomuti e altri minorati sono forse più sensibili a queste variabili fisiofisiche.

[12] Loc. cit. L’influenza dell’ambiente fonetico su quello fisiofisico è minore nella lingua bisbigliata.

[13] Proseguendo nella lettura dei testi lucidiani si incontrano, si può dire in ogni frase, innumerevoli altri capisaldi, punti fermi, scoperte, regole, eccezioni, ecc. In questa sede non ne terremo conto sia perché non siamo linguisti, sia perché abbiamo limitato il nostro studio, come già ripetuto, alla tensività dei numeri.

[14] Lucidi sosteneva che questi fenomeni sono più marcati in quelle persone che in vita loro hanno fatto una buona quantità di operazioni aritmetiche e specialmente moltiplicazioni. Vedi Vacca, cit.

[15] Cfr. De Saussure, solidarietà sintagmatica, meccanismo della lingua, ecc.

[17] Vedi A. Gaeta (a cura di), Un inedito di Mario Lucidi, Rassegna italiana di linguistica applicata, XXV, 1992, 1.

[18] Vedi Vacca, cit. e R. Vacca, Dio e il computer, Milano 1984, dove ritorna il curioso problema della primarietà dei numeri duecentosessantasette e trecentosessantasette (p. 137).

[19] Meglio: della più o meno facile ripetibilità.

[20] Più esattamente dell’iposema, controfigura (dummy) del segno irripetibile (o tabù).