1.5 –
Telegrafia (1993 – 2003)
Potrei considerare il
1993 come uno spartiacque tra i miei propedeutici e acerbi studi formativi e le
ricerche pienamente scientifiche, tuttora in corso, riguardanti la lingua
telegrafica Morse o “telegrafese”.
Purtroppo questa “maturità” l’ho raggiunta solo a 50 anni suonati per cui mi è
difficile, e forse precluso, conciliare l’esperienza metodologica acquisita con
il dispendio energetico o il “sudore” che la memoria, la concentrazione, lo
studio, la lettura, il peregrinare per biblioteche, ecc. comportano.
Se nell’ultimo decennio
sono arrivati alla mia attenzione e sono stati memorizzati (almeno nel mio computer!)
circa 2500 articoli o trattati sulla telegrafia (Morse e no) e la sua storia, la mia produzione, ovvero quello che è
“uscito” dalla mia testa (e dal computer di cui sopra!), è molto povera cosa.
Si riduce alle nove proposizioni un po’ sibilline scritte nel 1994[1] e all’accenno (p. 39) nella lettera ad Antonelli dell’inizio del 2003
riportata in questo opuscolo, oltre al riferimento, anch’esso criptico, del
decimo[2] punto chiave della mia (citata e incompleta) rassegna di meccanica
grafica. Qui, anticipando gli intenti delle mie ricerche, aggiungerò qualcosa
di più chiaro [3].
Per i motivi già detti
mi limiterò a enunciare tre postulati,
che non pretendo siano accettati come atto di fede[5] e che intendo invece,
in un prossimo futuro, come già detto, suffragare con inoppugnabili fatti
sperimentali e verifiche strumentali.
Primo. I “morsisti” nel gergo telegrafico italiano venivano
distinti in “orecchisti” e “zonisti”, a seconda se “ricevevano”[6] a udito col solo
ticchettio delle macchine telegrafiche o del sounder[7], senza guardare la
strisciolina di carta o “zona” su cui
venivano segnati i punti e le linee Morse, oppure se sapevano “ricevere” a
vista, cioè dalla zona[8]. In genere le due
specializzazioni non coesistevano e, inoltre, la maggior parte dei morsisti
riceveva “fregandosene” della zona, che erano costretti a usare solo per
documentazione[9]. Ebbene, nella
ricezione a udito[10] i telegrafisti molto esperti[11] non ricevono più a
punti e linee, ma unicamente col suono, con
Secondo. In tal caso[13]
Terzo.
Per chiarire un po’
meglio questo terzo fondamentale postulato consideriamo una lamina[19] o “linguetta” metallica
L che, sotto l’azione di campi
magnetici e/o molle, oscilla e urta nel finecorsa destro V
Il
movimento oscillatorio della linguetta, che rappresenta l’ambiente articolatorio del sistema, ha frequenza
diciamo “bassa” (ottica, gestuale,
infrasonica); invece i suoni prodotti dagli urti chiaramente costituiscono
l’ambiente fonetico, a frequenza
“alta”. L’oscillazione della linguetta nel punto
Morse è fluente e le battute danno
suoni netti, puliti, franchi (senza alcun
invischiamento o attrito fisiofisico).
Nel caso della linea Morse
l’oscillazione è, per così dire, incatramata,
c’è “attaccamento”, in particolare attaccamento
di attacco all’inizio dell’attrazione (right-stroke), dovuto all’impigliarsi della leva contro il suo
ostacolo (con conseguente “dibattimento”
acustico); e attaccamento di stacco alla fine del segnale (cioè
dell’attrazione) dovuto allo “sfilacciamento
di strappo” e alle vibrazioni “scomposte”
della leva oscillante al momento della “liberazione” (detent o scappamento)
dalla morsa elettromagnetica, derivanti dall’isteresi (magnetica, meccanica e acustica) e che producono un
secondo dibattimento (di-battito) acustico (controcolpo, left-stroke).
Anche per quanto riguarda
lo sviluppo cronologico delle mie idee basteranno pochi cenni. Nel
La svolta del 93 fu
quindi quella di abbandonare fonetica e fonologia e studiare i colpi dei
campanelli (tapping, tiptologia, urti,
acumetria); abbandonare l’elettronica e tornare all’elettromeccanica, ai
relè (a Corino, a Gradenigo) e, ancora più indietro,
ai sounder[22]. In questo cambio di
rotta mi fecero da guida i libri del Du
Moncel[23]!
Nel 1995 fondai Gli Atomi, la mia collana editoriale.
Nel 2001 Gli Atomi on line. Qualche
cenno sulle mie ricerche degli ultimi 4 anni si può trovare in Bitnick News[24].
[2] L’assimilazione del tasto telegrafico (e del
“pennino” della stampante Morse) alla penna (vedi AG 11).
[3] La monografia sperimentale
sulla lingua telegrafica che ho in cantiere potrà vedere la luce solo tra
qualche anno, se le forze e le circostanze me lo permetteranno.
[4] Condotti in America soprattutto durante la seconda
guerra mondiale sotto la spinta della necessità di reclutamento e addestramento
di personale specializzato nelle comunicazioni.
[5] A prescindere da quanto si dirà più avanti sulla “fiducia” del lettore (vedi § 2.2).
[6] Si noti che in America ricevere (o leggere) il Morse
si dice to copy.
[7] Si prescinde, per chiarezza didattica, dagli altri
metodi di produzione dei segnali Morse. Per il sounder o parleur vedi Gaeta, Cronoscopio,
cit.
[8] Con una distinzione non di poco conto, e cioè della
lettura della banda di carta mentre viene scritta oppure della lettura della
banda già scritta (tirata fuori, ad esempio per un controllo, da qualche
archivio).
[9] Nel Morse americano, tranne i primissimi anni (o mesi), non si è mai usata la zona.
[10] E forse anche in quella ottica, se mai sono esistiti
valentissimi zonisti, cosa che
dubito.
[11] Forse anche Gustavo
Lucidi, padre del grande linguista, era un buon telegrafista, come molti ferrovieri.
De
Mauro, Scuola
romana, cit., lo ricorda come un semplice frenatore, agli inizi del 900. Quando i freni pneumatici non
esistevano, questo operaio, che stava in una guardiola negli ultimi carri del
treno, doveva frenare i ceppi delle
ruote in base alle segnalazioni a fischi (quasi
di tipo Morse) del macchinista.
[12] Su questo ritengo doveroso esprimere il mio debito a Peppino Palumbo, radiotelegrafista proveniente dalla “telegrafia coi
fili”, in quanto aveva lavorato alle poste, e su vari sistemi (morsista, hughista, baudista e forse anche
sul Wheatstone automatico). Mi
insegnò una cosa fondamentale, e che non credo di aver ritrovato nei trattati:
la rigidezza del polso nella manipolazione del tasto non solo tradisce il
telegrafista incapace, ma uniforma la “calligrafia” telegrafica appiattendo le
differenze individuali.
[13] E solo in tal caso, si badi, e non certo nel Morse da
boy scout!
[14] Il discorso sarebbe lungo, si può glissare dicendo
che la mano del telegrafista non scrive,
ma parla.
[15] Si potrebbe però anche dire che i telegrafisti sono
tutti “analfabeti” (perché la scrittura, fatta
di punti e linee, nel Morse è
diventata per così dire invisibile,
come la tensività di Lucidi).
[16] V. anche D.
Finley, Morse Code: Breaking the Barrier. The Koch method. MFJ, 1997; W. G.
Pierpont, The Art & Skill of Radio-Telegraphy,
1997 (su internet).
[17] Forse, con più esattezza, si potrebbe avvicinarla
alle lingue dei missionari, a quella dei windtalkers,
alle lingue fischiate, ai tamburi parlanti africani (che veicolano modelli o
pattern di pitch significativi).
[18] Un inedito di Mario Lucidi (a cura di A. Gaeta), cit. “Lucidi da molti anni attendeva a ricercare i rapporti tra la fonetica articolatoria
e quella acustica e a stabilire una normazione dei modi con cui il tono integra
la funzionalità del sistema nelle lingue moderne” (Pagliaro, Ricordo,
cit.)
[19] Per esempio di un comune sounder o parleur (vedi Gaeta, Cronoscopio,
cit.)
[20] I segni della
lingua sono, per così dire, tangibili; la scrittura può fissarli in immagini
convenzionali, mentre sarebbe impossibile fotografare in tutti i loro dettagli
gli atti della parole; la produzione
fonica di una parola, per quanto piccola comporta un’infinità di movimenti
muscolari estremamente difficili da conoscere e raffigurare (F. De Saussure, Cours, p.
25). I progressi dell’elettroacustica
del XX secolo hanno fatto invece erroneamente credere che tutti i dettagli
fonetici si possano fissare e riprodurre.
[21] A. Innocenzi, Celere scrittura e rapida lettura, Roma 1963 (p. 81). Si badi che la scorrevolezza
non ha niente a che vedere con la velocità
(cfr. Boni, che riprende studi sulla
brevità apparente di J.P.A. Martin).
[22] Scelta non azzardata ove si pensi che l’altoparlante
non gestisce elettroni senza massa ma particelle d’aria abbastanza “pesanti” e
che, come i neuroni (che trasmettono
dispacci, in modo spedito o stentato, tra le stazioni
telegrafiche del nostro corpo), soggiacciono alla buccoliana “legge del tempo”.
[23] In particolare i 4
volumi T. Du Moncel, Exposé des
applications de l’électricité, Paris 1873 (varie ed.)
[24] Le seconde edizioni (rispettivamente del 1852 e 1865) dei Trattati di telegrafia del Moigno e del Blavier, che promettono di essere ancora più interessanti
delle prime (1849 e 1857) e che
contavo di studiare quest’estate, hanno dovuto cedere il passo alla prioritaria
stesura di questo instant book.