41 – Glass arm (braccio di vetro)

 

 

Facendo una ricerca in rete sul “glass arm”, la denominazione gergale della “paralisi del telegrafista” di cui ci stiamo occupando in varie riprese (vedi, in particolare, News 6 e News 40),  si  incontrano un sacco di siti dove viene menzionato il libro di Matt Christopher “Catcher with a Glass Arm”. Sicuramente deve essere un racconto per ragazzi molto noto, ambientato nel mondo dello sport. 

Purtroppo io non conosco le regole del calcio, figuriamoci quelle del baseball! Che cosa fa esattamente il catcher? In che consiste il disturbo “braccio di vetro” che gli è capitato? Non può lanciare? Non può rilanciare? Non può afferrare? Sbaglia traiettoria? Gli si spezza il braccio, come se andasse in “frantumi”?

Io spero che qualche lettore di questa News, curioso come me ma con qualche esperienza di baseball, possa aiutarmi a “capire” i sicuri rapporti col crampo del telegrafista e il vero significato dell’espressione “glass arm”, sicuramente notissima a tutti i ragazzini americani.

 

Intervento di Lorenzi (17.6.04)

Ringrazia della newsletter, sempre puntuale ed interessante, e manda un interessantissimo trafiletto di Vittorio Zucconi apparso su La Repubblica del 3/2/1997.

 

Nel 1992 il dottor Dennis Ross, neurologo, mentre stava visitando un ospedale di veterani di guerra sentì uno strano, ritmico tip-tap, provenire dal letto di un paziente, un uomo di settant’anni, colpito da ictus cerebrale e reso completamente afasico, privo di parola, dal suo male. Per caso il dottor Ross conosceva l’alfabeto Morse, per aver servito lunghi anni in marina come infermiere durante la guerra. E quando alcuni infermieri intervennero per far smettere quel malato che disturbava l’intera corsia con quel ticchettio, lui gridò “Fermatevi, quell’uomo sta cercando di parlare”. Il paziente era un ex radiotelegrafista e dal giorno del suo ricovero tentava inutilmente di comunicare con il mondo con il cucchiaio della minestra battuto sulle sponde del suo letto. Cominciò così tra lui e il dottor Ross un dialogo intenso, fittissimo (“era un chiacchierone terribile” disse poi il medico che raccontò la storia per l’almanacco della società Benjamin Franklyn) e salutare che aiutò il paziente a migliorare e a riprendere le sue funzioni normali. Da allora la società americana sta studiando la possibilità di insegnare ai malati che hanno perso la parola il Morse. Stanno reclutando gli ultimi, vecchi telegrafisti ancora vivi, per insegnare l’alfabeto ai medici, prima che scompaia con loro il pigolio che ha salvato la vita ai naufraghi dei mari, potrà salvare ancora le vite di chi affonda nel silenzio della malattia.

 

Intervento di Gaeta (2.7.04)

Ho finalmente letto quest’articolo di Zucconi sulla fine del Morse. Ne riporto un altro brano: “Gli artisti del punto e linea – nel gergo della marineria chiamati batti-rame [ma più esattamente brasspounder, pesta-ottone] – riconoscevano il tocco sul [sic] martelletto come gli amanti della musica sanno riconoscere il tocco dell’artista.

 

Intervento di Cavina (3.7.04)

L'articolo di Zucconi mi fa ricordare che il compianto collega Elio/ik4yau, nel periodo di coma (11 mesi circa prima del decesso) nel quale non riusciva né a muoversi né a parlare, con una leggera pressione delle sue dita al mio polso riusciva a comunicare in CW. Gradiva brevi registrazioni in Morse con l'utilizzo di codici e abbreviazioni in uso nella marina mercantile (di cui era stato R/O). Le ascoltava con interesse quando lo andavo a trovare. Grazie a ciò, sapevamo con certezza che intendeva le nostre conversazioni e, quindi, che la funzione cerebrale era ancora attiva.

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