Mezzojuso: il dramma, il crimine, la leggenda
Quando
la Sicilia accolse i Greco-Albanesi lo spirito della Magna Grecia, temprato
dall'indole latina, ricevette un nuovo flusso vitale e fiorirono le colonie, che
più che chiudersi nei loro limiti angusti parteciparono e si immedesimarono
alla vita dell'isola pur sempre restando orgogliosi della loro origine antica.
E così, tra le altre, ecco Mezzojuso! Non molto lontano da Palermo, nascosto e
quasi adagiato sul fianco di un monte, questo piccolo borgo, dopo il breve
viaggio, ti si para d'innanzi, festoso
ed amico, suscitandoti una gioia simile a quella che viene dalla contemplazione
di un presepe. Man mano che ti accosti e cominci a distinguere nettamente uomini
e cose tu sei colpito da un senso di pace profonda e di semplicità naturale che
t'inonda l'animo, quasi la rivelazione di un segreto. E se ti avviene di
domandare il nome di Gabriele Buccola per via, anche a colui che cavalcando un
mulo scende al lavoro per la campagna o al piccolo pastorello che
giocherellando per la radura fa la guardia alle vacche, il sorriso cordiale che
fiorisce come una corolla carnosa sulla bocca dell'interpellato, ti fulmina per
la prontezza della risposta, e un senso di distacco ti prende e ti strappa dal
presente vissuto per tuffarti in un passato lontano ove senti aleggiare i numi
di Grecia. A Mezzojuso, pur nella povertà contenuta dell'ambiente, senti che
qualcosa di antico e di grande vive e palpita ancora in quell'unica piazzetta
ospitale con le due cattedrali, la greca e la latina, a testimonianza quasi
della fusione spirituale avvenuta e con la lapide che commemora al mondo colui
che "acquistatasi riverenza ed amore colla sapienza degli scritti, per
tutta l'Italia e fuori, rese memorabile il luogo natio".
Queste
parole, tratte, con qualche libertà, dai citati appunti del Bruno, rendono bene,
nel loro lirismo, i sentimenti che anch’io ho provato durante due sopralluoghi
a Mezzojuso, alla ricerca di testimonianze su Gabriele Buccola, o quanto meno,
di ciò che in paese si tramanda su di lui. Sono convinto infatti che la
relazione tra Gabriele e il suo paese sia molto più profonda di quanto si
potrebbe pensare. Se Mezzojuso non ne avesse coltivato il ricordo il nome di
Buccola sarebbe del tutto ignorato, come del tutto ignorata, nel merito, è la
sua produzione scientifica. Lo stesso Convegno del 1986, più volte citato,
senz’altro meritorio anche se ben lungi dall’essere riparatorio dei torti degli
uomini e della Storia verso Gabriele Buccola, non è stato promosso da
Istituzioni accademiche, ma da Mezzojuso, anche se all’Università di Palermo
che l’ha organizzato e ai valenti studiosi che vi hanno partecipato va dato
atto dell’impegno profuso.
Ma
prima di riferire sulle mie trasferte a Mezzojuso desidero fare un cenno a ciò
che, all’inizio della mia ricerca su Buccola, mi capitò di leggere, o forse
rileggere, in un interessante libro, “La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e
ipnotismo nell’Ottocento italiano” [Gallini 135], nel capitolo Il dramma di Mezzojuso. Con mio vivo disappunto in quelle pagine
non si parlava della drammatica fine di Buccola, come per me era lecito
supporre e sperare, ma di alcuni allucinanti fatti accaduti a Mezzojuso nel
1890, senza alcun riferimento, almeno esplicito e diretto, con la vita o la
morte del grande alienista mezzojusano avvenuta pochi anni prima.
In
breve si trattava di questo. Una donna, indemoniata e intrisa di superstizione
e misticismo, durante un raptus di follia “sacra” uccide il fratello, anch’esso
con tare ereditarie gravissime, strappandogli l’organo genitale e ostentandolo
ad una folla in trance, forse non
meno pazza dei protagonisti del dramma. “L’origine di questo delitto è una
psicosi epidemica che ha fulmineamente pervaso tutta una famiglia e tutto un
paese”[1],
un paese che, in pieno medioevo a fine ottocento, rimane preda di suggestioni
collettive: temporali interpretati come il diluvio universale, bestie
indemoniate, segni premonitori, espiazioni per i peccati sessuali, ecc.
Molto
probabilmente questo accade perché a Mezzojuso la compresenza di due riti,
quello greco e quello latino, nutre gli abitanti con una doppia razione di
liturgia e di pratiche religiose e porta ad un eccesso morboso di religiosità[2].
Mezzojuso ricorda anche l’instabilità dei paesi ordinati a tribù e retti dai
sacerdoti, i cui abitanti, guidati dal volere di Dio, levano le tende al venir
meno dei mezzi di sussistenza, tant’è vero che l’emigrazione è maggiore della
media nazionale[3].
Casi di pazzia si registrano poi nelle famiglie chiuse a riccio, essendo
abbastanza diffusa l’usanza di sposarsi tra parenti.
Ma
da questi dati di fatto si può dedurre l’equazione Mezzojuso = paese dei pazzi? Certamente no, penserei piuttosto ad
un humus di arretratezza culturale in cui facilmente alligna la primordiale
fantasia dei popoli primitivi feconda di
errori, la quale in certi casi può anche tralignare nella follia e nella
delinquenza.
Anche
il nostro Buccola visse e si formò in questo clima, anche lui fu contagiato dal
“virus” della pazzia, ma, per così dire, da quello benigno, nel senso che egli,
conoscendone la genesi come nessun altro, dedicò tutte le sue forze e forse
sacrificò la sua vita per debellarla.
Un
altro fatto di cronaca particolarmente efferato che voglio rapidamente
accennare perché, sia pure molto indirettamente, ci riporta anch’esso a
Buccola, è il famoso massacro di
Villarbasse, che potremmo anche intitolare Il crimine di Mezzojuso.
Nel 1946, dopo la
guerra, alcuni sbandati mezzojusani trucidarono dieci persone a Villarbasse,
vicino Torino. La cattura, il processo e la loro fucilazione, l’ultima condanna
a morte eseguita in Italia, conquistò le prime pagine dei giornali[4].
Nelle cronache si parlava spesso di antropologia criminale, di menti
diaboliche, di tabe ereditarie ed anche, per uno degli assassini che aveva
preso l’identità di un altro, di gialli romanzeschi alla Mattia Pascal, tirando
in ballo Pirandello
oltre a Lombroso.
Un vecchio di
Mezzojuso, Carmelo Bisulca,
mi ha raccontato che in quel periodo il paese brulicava di giornalisti, per lo
più piemontesi, che nei loro servizi facevano di ogni erba un fascio dipingendo
a tinte fosche tutto Mezzojuso e tutta la Sicilia. La popolazione, peraltro
unanime nel condannare i concittadini autori dei misfatti, non ne poteva più e
un certo maestro Cavati
rispose per le rime con un articolo sul Giornale di Sicilia: “Sebbene questi mezzojusari si sono
macchiati, ricordatevi che Gabriele Buccola era di Mezzojuso e voi l’avete
tradito e avvelenato!”. La storia dell’avvelenamento, che avevo già sentito
(vedi oltre), poteva essere interessante e così controllai. Il giornale diceva:
A Mezzojuso si tiene a far sapere e
rilevare che ben altri vincoli, che non siano quelli del delitto e del sangue
di dieci innocenti, devono intercorrere tra Torino e Mezzojuso. Se Mezzojuso
infatti ha dato per caso e per sventura i natali a questa fosca combutta di
delinquenti da tutti ripudiata, ha dato altresì i natali a quel celebre
scienziato e umanista che risponde al nome glorioso di Gabriele Buccola, morto
a Torino nel 1885, e che nella capitale piemontese fu onorato ed illustre per
aver ottenuto con sommo prestigio la cattedra universitaria. E Torino
riconoscente al suo nome intitolò un ospedale ed eresse un monumento[5].
Il giornale non rinfacciava (né poteva rinfacciare) nessun avvelenamento, ciò
nonostante la memoria non aveva tradito il caro Bisulca, perché senza
dubbio, anche per le testimonianze da me raccolte in seguito, in quelle righe,
dettate da un moto di orgoglio, il popolo leggeva soprattutto l’accusa ai
torinesi “falsi e cortesi” di un delitto ancora più grave, l’assassinio dello
“scienziato mondiale” mezzojusaro che tanto bene aveva fatto a Torino. E la
miglior prova che il sottinteso aveva colto nel segno, sempre nell’accorato e
partecipe ricordo del Bisulca, fu che il giorno dopo i giornalisti, per la
vergogna, sparirono dal paese.
Dopo queste due
digressioni, tristi ma funzionali allo scopo, passiamo a quello che ci
interessa più da vicino, La leggenda di
Mezzojuso, secondo la quale Buccola
fu ucciso dai potenti perché voleva levare in maniera diversa la malattia alle
persone sofferenti. La professoressa Gori
Savellini
mi ha raccontato di aver ascoltato, al Convegno di Mezzojuso, anche una
canzoncina popolare su questa leggenda e di essersi rammaricata, e ovviamente
io con lei, di non averla ritrovata negli atti del Convegno (CB),
dove Di Miceli [126], banalizzando un po' la storia, si
limita ad accennare all’“invidia” degli intellettuali per i metodi terapeutici
di Buccola di scoperchiare il cervello e togliere i “vermi” della pazzia.
Il primo sentore di
una leggenda fiorita su Buccola lo ebbi quando, giunto nella chiesa di S.
Domenico, il Pantheon di Palermo, un custode a cui avevo chiesto dove si
trovava la tomba di Buccola mi chiese in siciliano stretto: Ma cu, chiddu chi hannu avvilinatu? Il custode, tale Francesco Perniciaro,
che era originario proprio di Mezzojuso, aggiunse che al paese si era sempre
detto così, specificando anche i motivi dell’avvelenamento: perché guariva i
pazzi tagliandone la fronte e perché, come Falcone[6],
stava arrivando dove non doveva arrivare.
A Mezzojuso ebbi poi
conferma della diceria ed anzi ne sentii delle altre che credo utile, anzi
necessario riportare perché anche le dicerie, per il fatto stesso che sono nate
ed esistono, si devono considerare come fenomeni da studiare scientificamente,
dopo essere state raccolte e
catalogate con metodi per quanto possibile statistici e un po’, aggiungerei,
anche buccoliani, e con l’intento di estrapolarne successivamente, se
possibile, quei fatti che, come
appunto diceva il Nostro, costituiscono la vera ricchezza della scienza. Per
maggiore chiarezza e a scanso di fraintendimenti ribadisco che, sulla scorta
degli elementi da me finora raccolti, io non credo alla storia
dell’avvelenamento di Buccola - tranne che in senso traslato, come “veleni” iniettati
nel suo animo - ma ritengo assolutamente non scientifico, anzi deleterio e per
dir meglio morboso, che in un lavoro serio su Buccola la cosa venga sottaciuta.
Ecco dunque alcune
testimonianze, il più possibile testuali, per lo più raccolte nel 1994 a
Mezzojuso, anche grazie alla collaborazione del papàs Pietro Lascari:
1.
Molti paesani sono restii a parlare, ma unicamente perché hanno paura che i
giornalisti travisino,
come una
volta capitò
con uno del giornale
(anticomunista?) ABC.
I Buccola erano ricchi e dotti. La loro era una casa di ricchi. Gabriele ha
avuto una formazione diversa perché al seminario albanese ha studiato Basilio e gli altri padri orientali. Nella
cultura orientale, a differenza di quella occidentale, non c’è dualità tra
corpo e anima, che sono invece due aspetti di un’unica sostanza. Solo Gemelli ha continuato la psicologia sperimentale
di Buccola, specie nei contatti con la cultura tedesca. Non esclude che le
carte di Buccola siano state usate per incartare e vendere il sapone molle come
gli è capitato di vedere per altre carte rare degli archivi parrocchiali.
Gabriele era sgobbone. A differenza di Galvani non si limitava a studiare i nervi
periferici delle rane, ma ne studiava la parte interna, il cuore e il cervello (Lascari)[7];
2.
In tutto il mondo non c’è uno scienziato come Buccola. L’hanno tradito. Ne
sapeva di più di chi per la carica occupata avrebbe dovuto saperne più di lui. In
un convegno a Berlino il presidente disse: che devo dire io, che questo ne sa
più di tutti? A Berlino c’è un ospedale chiamato Gabriele Buccola. I
piemontesi, falsi e cortesi, cominciarono a dare il veleno (nel caffè) a questo
meridionale. Lui se ne accorse e bruciò tutto. Forse alla fine morì anche
avvelenato. Coi fili elettrici in testa si diventa stonati. Buccola non apriva
il cranio per levare il male, ma per trovare il virus della pazzia, questa era
la scienza sua che faceva rimanere tutti a bocca spalancata! I pazzi devono
diventare tutti normali, doveva levare il virus, ma non poté farlo perché
l’hanno tradito. Fatelo voi se siete capaci! Come, io mi metto a fare del bene
e voi mi avvelenate? Anche Vincenzo Bellini fu avvelenato dagli amici. Agli animali,
quando escono pazzi, in testa trovano un verme. Chi è pazzo è scemo, ha perso
la memoria (Bisulca)[8];
3.
Buccola era ricco. Fece un intervenuto su una ragazza malata, le aprì il
cranio, tolse gli insetti che le facevano male e l’ha guarita. Non volle
niente: l’ho fatto per esperimento. Dopo poco tempo l’hanno avvelenato. I suoi
stessi amici lo hanno avvelenato. Gli mettevano bastoni tra le ruote per non
farlo andare avanti. Dopo il Congresso di Berlino si accorse di essere stato
avvelenato e che stava morendo e allora bruciò i manoscritti: io no, ma gli
altri neanche! I piemontesi falsi e bugiardi. Sempre avvelenato dicono, pazzo
no. Studiava la pazzia delle pecore a causa del caldo, che hanno dei microbi
nel cervello. Nella primavera veniva al paese e apriva il cervello alle pecore.
Ai contadini diceva: vedrete che un giorno io avrò ragione. La famiglia Buccola
si trasferì a Palermo, per questo tante cose non si sanno. Il Municipio nel
1919 è andato a fuoco.... (forse si sono perse carte);
4.
All’Università o al liceo bocciarono Buccola, allora lui chiese giustizia al
Provveditore di Roma: il professore che mi ha esaminato deve fare esami con
me. I compiti vennero giudicati uguali,
ma Buccola fece notare che l’altro aveva dieci errori mentre il suo era puro.
Poi se ne andò a Bologna. Un francese, ricchissimo, aveva girato tutti i medici
del mondo, era disperato per la sua figlia. Buccola la guarì e dopo 8 giorni i
colleghi l’avvelenarono;
5.
Tutti i Buccola erano greci. Tanto ricchi non erano. Gabriele ebbe una delle 3
borse di studio per i ragazzi promettenti (che si avviavano al sacerdozio).
Tutti sono orgogliosi di Gabriele Buccola. Tante persone che hanno studiato
hanno dato molto lustro al paese[9]. Nella proprietà dei Buccola,
Manciacuti, c’era un fiume. Gabriele prendeva le giurane (rane)
e le legava con le gambe, vive, tutte a
filo, in faccia al sole a catena. “Dottore, che cosa deve fare?”. E Gabriele,
sorridente: “Eh, Francesco, non puoi sapere che virtù hanno questi animali...” [10];
6.
A Berlino videro che era troppo bravo e lo hanno trasferito a Milano, ma anche
lì era di troppo perché voleva scoperchiare il cervello, dove c’era una specie
di verme, un microbo che mangiava a “mirudda” (midollo). A Milano avevano
“timurezza” che diventasse qualcuno e forse lo hanno avvelenato. Buccola vide
che non era accolto, che non riceveva simpatia e allora cominciò a bruciare i
suoi libri per non dare insegnamento agli altri. Le carte che non andavano bene
le ha lasciate, quelle buone le ha bruciate tutte. Dopo che lui ha bruciato
tutto hanno tentato di avvelenarlo[11];
7.
Buccola era un fenomeno. Era troppo bravo. L’hanno ammazzato perché levava il
lavoro agli altri, per invidia. Faceva i miracoli. Sembrava folle, però levava
i vermi e guariva. Il verme mangia dentro la testa, levandolo non mangia più.
Ad esempio un animale che entra dentro un orecchio e fa impazzire. A Torino,
quando ha fatto il militare, al Valentino ha visto una statua con la “scrittura”
di Buccola.
Inoltre,
ancora più alla rinfusa, ecco altre opinioni o notizie vaghissime:
I manoscritti o sono stati trafugati o li hanno nascosti.
Buccola fu emarginato. Mafia del mondo accademico. In Italia non gli hanno
fatto vincere il concorso e allora se n’è dovuto andare all’estero. Non gli
diedero il tempo di pubblicare delle scoperte importantissime. Fu avvelenato
per gelosie accademiche, ad un pranzo ufficiale, perché troppo bravo, faceva
ombra ai maestri. Gli misero una polverina velenosa in mezzo ai libri. I
colleghi si sono appropriati dei suoi lavori scientifici. Lavorava con un
tedesco che aveva inventato una scatola cranica, quando questo morì Buccola non
poté andare avanti. Buccola si può considerare il Bisaglia dell'800. Nessuno ha saputo proseguire
gli studi che ha fatto lui. Anche quello di Agrigento (Pirandello) era come Buccola. I parenti hanno tenuto
segreti, o come reliquie, i libri scritti da lui. La madre li fece mettere
nella tomba. Buccola era uno stregone, aveva un vaccino, faceva miracoli.
Questi
elementi, è ovvio, sono troppo scarsi, incerti e contraddittori per ricostruire
la figura di Buccola, però hanno un fascino che può dare lo spunto, come lo ha
dato a me, per fare approfondite ricerche e controlli rigorosi. Non sono
chiacchiere di paese perché le chiacchiere si estinguono e non si radicano per
un secolo e più. Preferisco considerarli alla stregua del mito e della fiaba,
che, quanto meno, dopo Propp,
hanno acquistato valore scientifico e cittadinanza accademica.
In
questa sede mi limito ad un solo commento. Se la vox populi sembra concorde per l’avvelenamento, o tentato
avvelenamento, è altrettanto unanime nell’escludere quella “pazzia” di Buccola
che mi è parso invece di cogliere in certe allusioni o in esplicite
dichiarazioni di alcuni saputi accademici (“aveva
gli occhi allucinati, a forza di stare coi pazzi divenne pure lui pazzo”),
probabilmente ignari che i loro pregiudizi sono sorti e si sono radicati in
modo perfettamente analogo e parallelo alla leggenda
di Buccola fiorita e attecchita sul versante opposto, a Mezzojuso.
[1]Sighele
S., Bianchi
A.G., Ferrero
G., Il mondo criminale italiano,
Milano 1895, in cui sono descritti altri particolari dell’agghiacciante
vicenda.
[2]A
Mezzojuso anche gli ignoranti sono molto colti sugli argomenti sacri. Op .cit. p.37
[3]Op. cit., p. 40.
[4]Si
veda, ad es., Il Giornale di Sicilia
27.3, 29.3, 31.3, 2.4, 3.4, 14.4, 16.4.1946.
[5]L’uccisione
del brigante Lala nella gola di
Pizzo delle Case. Il Giornale di Sicilia
16.4.1946
[6]C’è
da tener presente che qualche mese prima c’era stata la bomba al giudice
Falcone e che i funerali si erano svolti proprio a S. Domenico.
[7]E’
evidente che in questa, come nelle altre testimonianze, sono da addebitare
unicamente a me gli eventuali travisamenti del pensiero espresso dagli
intervistati.
[8]Carmelo
Bisulca, simpatico
personaggio, un po' sordo, ad unanime giudizio dei compaesani è il più
informato archivio vivente del paese. Mi ha raccontato anche i fatti di
Villarbasse, di cui ho già accennato e poche altre cose sui discendenti di
Buccola trapiantatisi prima a Palermo e poi in alta Italia, nel “continente”. A
lui, a padre Lascari, a Pietro Di
Marco e ai tanti altri
che non posso citare, anche perché non ne conosco il nome, va il mio grazie.
[9]Alcuni
uomini illustri di Mezzojuso sono citati in
Di Miceli [126].
[10]Padre
Lascari, presente
all’intervista, ha aggiunto che nel periodo estivo dall’Università di Palermo
in quella località vengono a prendere i rospi per fare ricerche sul cancro.
Pare che questi animali, come i pescecani, non lo contraggono.
[11]Il
discorso poi cade sul famoso capraio che aveva scoperto un siero contro il
cancro.