Interviste[1] su Mario Lucidi a:
Ascioni, Virginia
(9.10.85; 31.10.85;
15.11.85; 26.11.85; 27.3.86; 10.6.86; 24.3.87)
Mario era un carissimo
amico. Che cosa bella che lei stia riprendendo i suoi studi! Che peccato che nessuno abbia capito la
genialità di Mario! Se potessi dare una bricioletta, ma temo che la mia testa
non sia più...[2]
Non potrò essere all'altezza, molte cose le ho dimenticate. Dalla sua voce
capisco che la posso considerare con amicizia. Ho studiato violino a Santa
Cecilia con Zuccarini. Ho un dono di natura, un orecchio eccessivo, per sentire
le sfumature. Il mio rapporto con Mario è stato del tutto singolare: ero
soggiogata e gli ubbidivo, ma sia i miei che la madre e la cognata di Mario ci
ostacolavano. Mario era pacioccone[3],
generoso e altruista. Durante il lavoro mi stancavo, lui mi rimproverava di non
essere abbastanza attenta, presa, ma poi mi portava a mangiare la pizza o nei
migliori caffè. Pensi se ci incontravamo adesso io e Mario, in questa età
matura mia, che peccato...
Le faccio ascoltare le
registrazioni dei suoi antichi esperimenti con Mario, ma non le suscitano né
ricordi né emozioni. Decido allora di sottoporle ex novo le frasi-test, per
così dire, di Lucidi (Che turno hai/fai? Di notte; Non capisco una frase; il
passero vola; il bambino s’impaurì; Spera spera; zero-uno-due; tredici medici /
sedici medici; ecc., v. bibliogr.) che riesce ad analizzare così
come tantissimi anni fa era stata abituata da Mario. Per ovvi motivi posso
riportare, e in modo purtroppo molto disorganico, solo alcune delle sue
riflessioni sui molti esperimenti fatti.
Nota benissimo la
differenza in "notte" e parla di lunghezza; la "o" è
trascinata dalla domanda. Poi dice che è importante l'INTERESSE che si mette
nelle parole: ad esempio in "non capisco una frase" c'è il senso di
fastidio; invece in "non capisco una parola" si insiste su
"pisco". A seconda del tono cambia il senso. Che cosa fanno? Corrono!
Frasi fredde, lineari, falsate (senza interesse) di contro a parole
"vere" come "il nostro canto ARRIVA (= è la verità!) al
Signore". Lei si crea la scena nella mente come le insegnava Mario. Il
passero vola può essere detto come una "notizia" oppure come
cosa importante (è quel
passero che vola). Importanza dei "piani", dei livelli, dei gesti
e - forse - delle note musicali.
Il passero vola, il
pesce guizza, l'azione dell'animale si dice con sveltezza/legato: non è
troncato per niente (vola, guizza): è unito; ma se mi
riferisco al passerotto malconcio: il passero vo-la (va sul
"vo"), io penso che questo lo penseranno tutti.
I fratelli hanno
ucciso i fratelli: non vorrei essere suggestionata, deve cambiare il senso...
Allora il bambino/cavallo si impaurì e si mise a correre: cambia il tono del "s'impaurì", va su, in una
tonalità più alta nel caso del cavallo; a me mi va più su, non lo capisco
perché. Allora l'asino si impaurì: non posso dare importanza a questo...,
possibile? Col cavallo vado su, lei lo sente? Vediamo ora pensando all'asino: voglio cercare di mandarlo su
nell'intonazione del cavallo, per vedere se mi ci va: no, è forzata, non ci va:
non lo so, forse l'asino rimane una tonalità a mezz'asta, diciamo così, come se
quello fosse un DO e l'altro fosse un LA
(quello del cavallo). Non vorrei che mi lascio suggestionare... Quando sarò
sola lo dirò; la differenza tra animali e persone .. è strano, è strano ed interessante.
Spera spera: quel
cervello (di Mario) cosa andava a pensare..., che
continuo mulino che aveva dentro quella testa... Se la frase non finisce si
deve capire lo stesso, questo lo sentiamo pure noi. Il verbo ha una tonalità
più bassa, più legata, più unito: non
può essere il cognome. Certo, i verbi si pronunciano in modo diverso dai nomi.
L'“importanza” si nota anche quando si legge (freddino) perché nelle parole, nei verbi c'è tutto... Mi diceva:
l’importante è pensare tuttounverbo. Si riferiva al fatto
dell'intonazione e questo significa che il verbo si può dire tutto corrente,
tutto unito, tutto grigio, e questo vale sia per i verbi sia per le parole. Se
lui fosse qui gli direi: senti, adesso stai zitto tu, adesso parlo io; tutto un
verbo, tutto di filato, come un treno, ossia senza alti e bassi, senza
ondulature: a seconda di come si danno queste ondulazioni cambia il senso della
parola. Il verbo è tuttounito perché tutto uniforme, quando uno lo dice che si sbriga, che deve
essere conciso, che lo deve dire tutto, tutto di filato senza fermarsi, sempre
con la stessa intonazione; quando
invece ci sono ondulazioni e si va su/giù il senso cambia (e così nelle
parole). Io credo che la sua idea era questa... invece forse io stavo distratta
e allora come li dicevo li dicevo; certo se camminavamo insieme eravamo arrivati a qualcosa di costruttivo. Che
delitto che hanno fatto se c'erano i nastri e li hanno buttati... Perché Mario
ha scritto così poco?
Zero - uno - due - tre
- quattro - cinque : il quattro se ne è andato su per conto suo, in alto.
Tredici medici / sedici medici: non lo voglio fare apposta, non mi voglio
suggestionare... sedicimedici mi si unisce tutta insieme. Per fare un confronto
bisogna dare lo stesso tono generale alle due frasi (ad esempio: stupore) oppure dette piene senza
particolare espressione. Dopo averle ripetute quasi bisbigliate: si, il tono mi è cambiato, certo che è cambiato, mi cambia.. tredici medici mi
pare che venga più lineare, frase tutta
uniforme, tutta su una tonalità, tutta unita, come tutta una parola: "mihannovisitatotredicimedici";
attenzione a non dare la sfumatura di
significato “16 medici e pure di più”. Bisogna stare attenti a fare mente
locale, come diceva lui, a riflettere bene, dirlo con lo stesso tono, perché se
no non ha valore. Ho inteso che c'è qualche cosa, bisogna afferrarlo. Sedici mi
sale, mi va più su, con un'altra tonalità e si stacca da medici; mentre l'altro è tutto su una tonalità,
uniforme, lineare, mi sembra...
Dopo qualche mese mi
telefona dicendo di aver trovato un quaderno con degli esercizi di suo pugno,
scritti sotto dettatura di Mario. Anche con questi facciamo esperimenti, ma ne
parlerò in un prossimo fascicolo degli Atomi.
Un giorno mi lesse
questo brano di una vecchia lettera della sorella Renata:
“Non devi avere alcun
rimorso di non essergli stata abbastanza vicina o di non aver fatto abbastanza per il suo lavoro. Tu
gli hai dato per anni la gioia della tua bellezza, della tua tenerezza, della
tua compagnia. Voi sarete, come diceva quel libro del quale non ricordo il
titolo, sposi senza nozze, uniti non col corpo, ma con lo spirito, così come si
uniscono le palme nel deserto, non con le radici ma con la chioma, come si uniscono
gli astri del firmamento, non con la materia ma con la luce”. E' poetico, è
bello...
Facciamo molti
esperimenti sui numeri, del tipo morra (v. De
Rienzo, più avanti). I suoi
ricordi sono vaghissimi, anzi assenti del tutto. La sensibilità percettiva però,
al solito, e compatibilmente con la sua non giovane età, le è rimasta. Dicendo
"tre" mentre si butta un altro numero, non quello equivalente alle
dita della mano, le sembra, dice, che il tono “vada su”. Risultati più positivi
forse li raggiungiamo con le parole/menzogna: nominare un oggetto presente o
meno nella stanza dove ci troviamo (uso le parole “bottiglia” e “bilancia”).
Come valore di parola
io rimango confusa perché ESTENSO ci viene in mente di dire che è una cosa che
si prolunga e ha poco valore; INTENSO è una cosa che ha più valore...
Senz'altro l'estenso è quello più morbido, sono sicura. Adesso mi veniva il dubbio: ma come sarebbe, se è estenso si
diluisce, finisce il valore, non ha più
la sua intensità. E invece quell'altro (quello non vero) anche in queste cose è
più concentrato, più "chiuso", più troncato, più... come si può dire? non vorrei sbagliare... non può venire dal mio cervello
un "giudizio" così. Come significato di parola, mamma mia... il suo
cervello, il cervello di Mario... il giudizio staccato dall'intenso sembra
giusto. Certo... più importante è
quello estenso..., è diluito ma è più importante; però quando lei lo mette in
confronto con la parola “intenso”, uno dice: allora è più importante
quell'altro, ... più forte, più concentrato.
Non mi ingarbugli,
pensi bene, giusto quello che deve pensare, io poverella come faccio? Bottiglia,
dichiarando di non pensarci e poi ancora bottiglia dichiarando di
pensarci. Lo sento che c'è la differenza nel "ti", nel primo caso non ha valore il
"ti", quando non ci pensa, è intensa, non è prolungata. Per esempio,
se io ci dovessi pensare farei "botttiglia", se io la guardo e dico
bottiglia ...iglia; invece se sto pensando ad un'altra cosa "bottiglia"
concisa, magari più marcata, più chiusa, come avevo detto prima. Si autodomanda e risponde: Quella che
cos’è? Bottiglia.
Ma non può dare
estremo valore alle mie parole. Io sentendo col mio orecchio soprattutto,
perché io adesso questo fatto dell'intensa me la sento così bene per conto mio
perché se dico... "bilancia", ma guardo a quello là, e penso a
quello, allora non ha valore
"ancia". "Bilancia": è più forte, si sbriga di più, in modo
che chiude, conci(so), tirato via, mi
sembra, quasi affrettato. Mario mi perdoni, non lo so se è così.
Ballarani,
Bruna (15.1.86)
Suo padre si era
rivolto ad un professore sacerdote per delle ripetizioni private di matematica
alla figlia e questi aveva presentato, come un mostro, il giovane laureando
Mario Lucidi. Nella loro cerchia c'era più che altro Raul, il più piccolo dei
tre fratelli Lucidi, che era anche lui matricola. Anche Raul vedeva male, ma
chi era stato più colpito era Mario: non solo non vedeva bene, ma aveva un
occhio proprio bianco. La natura però aveva compensato questa infelicità con
l’eccezionale intelligenza. Mario era amico di Margherita Guarducci e di una
coppia di studenti che poi si sono sposati e hanno pubblicato parecchi libri: i
Giomini[4].
Loro potrebbero dirmi molte cose. Qualche volta con loro, qualche volta da solo
Mario veniva alle audizioni all'Adriano. Anche durante i primi anni del suo
insegnamento non ebbe più contatti con lui, ma con Raul perché facevano la
stessa trafila di concorsi per l'abilitazione e per la cattedra. Si ricorda
così bene, malgrado 50 anni, proprio perché Mario era un "mostro":
aveva una andatura sbilenca, forse per la scoliosi di tutti quelli che stanno
molto tempo a tavolino. Era molto attratto dalle donne, e non si stupisce del
suo successo perché si dimenticava la sua menomazione di fronte al fascino che
emanava da questa personalità così ricca interiormente, con una capacità poi di
immagazzinare, una memoria straordinaria. La sua cultura era senza limiti
perché spaziava dal ramo classico a quello scientifico. Almeno ai suoi occhi di
ragazzina non c'era argomento che ignorava: un pozzo di scienza, una
intelligenza prodigiosa. Non si ricorda di esperimenti fonetici. L'unica
pupilla da cui riusciva a vedere le immagini era mobilissima e tuttavia lui
fissando una persona riusciva a delineare, a dire: "Lei è fatta
così....". Lei non riusciva a persuadersi come potesse fare. Per il
concorso a cattedre invece prese delle lezioni da Walter. Raul ottenne un posto
alla radio come speaker di rumeno, grazie al prof. Isopescu. Un giorno d'estate
era al mare e aprendo il giornale vide il necrologio di Mario. Non molto tempo
dopo allo stesso modo seppe della morte di Raul.
Barducci,
Italo (4.12.85)
Dice di ricordare
Mario Lucidi, quasi cieco (a proposito delle voci dell'Amazzonia). Gli sembra
di vederne la fisionomia. Forse stavano a piazzale delle Scienze ed era
presente Piero Bordoni[5],
il figlio di Ugo, o l’ing. Manfredi..., che però si mostrava più scettico di
lui. Indi mi racconta cose molto interessanti, ma quasi certamente non
riguardanti Lucidi (la precisione dei ritmi degli Indios, gli studi di Gemelli,
la distorsione di fase, analfabeti che conoscevano mezzo Orlando Furioso a
memoria, gli studi statistici sulle formanti, ecc.).
Bausani, Alessandro[6] (1.3.85)
Dava ripetizioni di
matematica nella scuola di Walter Lucidi. Mario, al contrario di lui che a
volte non riesce a trovare una citazione, aveva una memoria fuori dal comune e
si interessava di mnemotecnica, sapeva scrivere e leggere con lente di
ingrandimento. Lui più che leggergli gli traduceva dal tedesco; gli amici lo
ritenevano molto intelligente, ma anche un "fissato", uno strambo.
Ricorda, chissà perché, i diversi modi di pronunciare la località Madonna
Nicola (all'Argentario). Chiedeva spesso: "Come si dice tale numero in
persiano, in ebraico, ecc." e pare che le opposizioni fonetiche c'erano
anche in quelle lingue. Scherzavano sempre su: "Come lo hai pronunciato 33
?". Usava per esperimenti la nipote Flavia. Lucidi era un pomicione e non
aveva molta stima degli orientalisti.
Lo frequentò
soprattutto negli anni 40, insegnò anche nella scuola di Walter e di Raul.
Abitava in via Borghi, al colle Oppio, nello stesso palazzo dei Vacca. Lucidi
veniva e gli faceva piacere farsi leggere poesie. Ricorda qualche discussione
tra Foscolo e Leopardi, sui sempiterni calli... Con Sandro si
divertivano con frasi ambigue come "mi camuffo" (mica m’uffo!). Era
burlone, allegro, molto simpatico. La signora Vacca, ancora viva (circa 94
anni), si ricorda tutto. Era un po’ storpio e goffo, piegato su un fianco, la
spina dorsale storta, camminava come un orso, anche se non era un orso.
Catalogava Sandro come irresponsabile. Degli esperimenti coi numeri non ricorda
niente. Faceva il gioco del 15. Forse parlavano anche di musica gregoriana e
medioevale, su quando vi fu il passaggio dalla metrica quantitativa a quella
accentuativa.
Belardi, Walter (24.2.84; 22.4.85)
Pubblicò tutto ciò che
riuscì a decifrare, e non ha più niente (manoscritti, nastri). Nessuno si è più
occupato di Lucidi. Alla mia domanda se c'era qualche altro lavoro di Lucidi,
risponde che c'è il saggio su Cavalcanti. Gli faccio notare che nel
libro in onore di Lucidi da lui curato nel 1966 c’è il saggio “Ancora sul
disdegno di Guido”. Stupito, risponde che gli sembrava di non averlo
pubblicato perché Pagliaro non voleva[7].
Non ha mai utilizzato
nastri. Gli sono stati dati dei fogli, non ricorda da chi, e li ha molto
corretti, e con moltissima fatica, nella forma; intere righe saltate. Ha una
copia della tesi di laurea sul gioco iranico degli scacchi, che fu utilizzata
anche da Pagliaro. In un prossimo libro in memoria di Pagliaro forse ne
parlerà. Accenna alla correptio giambica in Plauto. I
"riccioletti" erano metafore visive per far capire agli altri come
egli intendeva la circolarità delle vocali. Ricorda gli estenuanti lavori
di sfrondatura del saggio sull'accento
persiano compiuti assieme e per conto di Lucidi, perché Pagliaro lo aveva
giudicato troppo lungo per essere
pubblicato. Quando, nel ‘66, riunì gli scritti di Lucidi, Pagliaro si
sorprese che avesse scritto tanto, infatti gli rimproverava, e aspramente, di
non pubblicare niente. Negli ultimi tempi tra Lucidi e Pagliaro c’erano
contrasti, gelosie tra cattedratici. Lo considera un maestro, come Pagliaro.
L’accento di Lucidi era prettamente romanesco, era una pasta d'uomo e ingenuo.
Era donnaiolo, diceva che la sessualità l'aveva rovinato. Dice che si
commuoverebbe ad ascoltare i nastri di Lucidi. Le vocali non le percepiamo per
abitudine psicologica; concorda che i
prosodemi si avvertirebbero se se ne avesse la consapevolezza, ma essi
variano nel tempo e nello spazio enormemente. Quando ribatto che Lucidi ne
trovò delle costanti risponde che alla tensività non ha mai fatto molto
affidamento. Mi disegna un triangolo delle vocali in cui vi sono infiniti gradi
di apertura; mi parla del sonograph, ma io dico che la discriminazione dovrebbe essere netta, alla
Lucidi; accenno anche all'irrisolto problema della quantità. Non gli risulta
che alcuno abbia scritto su Lucidi. I linguisti internazionali ignorano l'italiano.
Accenno ad alcune frasi analizzate da Lucidi. Mi parla del "calare"
delle vocali. Ogni lingua e dialetto si comporta in maniera diversissima.
Ha conosciuto molto bene
Mario, come Italo Cubeddu. Lucidi è stato suo professore di matematica e fisica
(la glottologia l’insegnava all'Università). Lucidi aveva anticipato l'epoca
moderna perché lavorava moltissimo con i registratori magnetici. Sul pensiero
scientifico di Mario non può essermi utile, ma casualmente ha parlato con il
suo amico Fiorentino che si ricorda tutta la polemica che Lucidi ha fatto con
De Saussure (cosa che lui non sapeva). Nel ‘43 smise di studiare dopo il
diploma ginnasiale, ma nel ‘45 decise di riprendere gli studi e tramite comuni
amici venne a sapere di questi professori molto seri, che davano lezioni
private nella loro casa di via Poliziano. La prima "scuola" vera e
propria, l’Istituto Lucidi, con banchi e presidenza, la fecero a via Aosta e
poi la trasferirono a S. Giovanni in Laterano. Walter faceva le materie
letterarie, Mario matematica e fisica - che poi era un genio anche a
glottologia è un altro discorso... Filosofia la faceva Randone, che stava pure
lui come Raul alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed era cugino di Salvo
Randone. Poi c'era una certa Piroli che insegnava a Perugia e aveva una
farmacia a Roma e una Bonifazi che insegnava Storia dell'arte. Rimase piuttosto
convinto del tipo di studio: molto serio, fece 3 anni in uno, come Angela
Ciufoli che parlava solo russo (anche con Togliatti) e in un anno fece 8 anni
di latino, 5 di greco, ecc. Walter era il pater familias, mentre Mario era un
amico a cui piaceva giocare a carte, a scopone. Si ricordava tutte le carte
uscite. Siccome lui (Buratti) non sapeva giocare (pareggio, spareggio, ecc.) ed
era negato per la matematica, era la sua disperazione, l'ha cacciato via....
Una volta, con due biglietti del tram, gli spiegò come erano organizzati: la
serie, il numero, ecc.; un'altra volta spiegò come era organizzata la rete dei
trasporti: i numeri non sono dati a caso, ma ad orologio. Si partiva dal numero
1 che parte, tuttora, da ponte Milvio... Era capace di fare una somma a memoria
di 10 numeri e poi te li diceva tutti partendo dall'ultimo e risalendo al
primo. Non ha potuto avere un grosso rapporto con Lucidi perché, come tutte le
persone molto intelligenti, lui era anche un selettivo: lui non era alla sua
altezza, mentre un certo Franco Scriattoli era molto intelligente... Presero la
licenza liceale nel ‘47. Facevano un giornale che si chiamava
"Gioventù", di cui lui era direttore, battuto a macchina in copia
unica (non esistevano fotocopiatrici...). Era una scuola molto esaltante.
Quando lavorava alla
Ponti De Laurentis un giorno Dino gli disse che Silvana (Mangano) era una
pigra, ci voleva qualcuno che passasse qualche pomeriggio a raccontarle cos'era
il mondo greco, al che Buratti suggerì quel genio che era Mario Lucidi, che
così contribuì al film Ulisse. Dopo, i contatti si diradarono, perché il
lavoro al cinema lo assorbiva molto. Alla Presidenza del Consiglio c'era anche
il fratello di Cubeddu, oltre a Raul e Randone. Italo lo ha conosciuto perché
bazzicava col fratello: fecero delle recite insieme... Un giorno Mario gli
raccontò del suo strano rapporto con le donne. La madre gli diceva sempre: tu
sei brutto, ma chi te se prende, mentre lui invece, chissà per quale strano
caso, piaceva alle donne. Una assistente era partita per lui. Divertito
raccontava che, malgrado lui non vedesse un c... , questa aveva comprato un
paio di mutandine nuove solo per lui! Era un uomo fuori dalla norma. Qualunque
cosa avevi bisogno, telefonavi a lui e te la diceva. Riusciva a leggere,
faticosamente, con una lente. Non hanno mai parlato di musica. Non cantava.
Aveva una brutta voce, chioccia. Memoria fenomenale. A proposito di prosodia mi
racconta che già nel ‘50 Lucidi trafficava con 3 o 4 registratori. Gli diceva:
noi abbiamo sempre sbagliato nel leggere la Divina Commedia, perché
l'intonazione è un'altra, cambiando l'intonazione cambia il significato. E gli
fece un esempio. Noi diciamo: "Ed ecco verso noi venir per nave un
vecchio, bianco per antico pelo, gridando “Guai a voi anime prave”".
Invece la pausa deve andare dopo "bianco": le parole gli escono dalla
bocca circondata dalla barba e dai baffi. Chissà poi quante altre cose gli avrà
detto, ma questo lo ha colpito...
Si ricorda che ad una
lezione di glottologia Lucidi chiese ad una ragazza "come si dice battaglia
in francese?" E quella: "Bataille", ma lui la corresse con
un'altra intonazione, sottolineando una sonorità che, detta dalla ragazza, non
era venuta fuori. Una cosa fenomenale era anche per gli orari dei professori,
risolveva tutti gli incastri, e tutto a memoria. Mi mostra come camminava (oscillando).
Stravedeva per la nipote Flavia (Iaia). Ricorda la tata, la vecchia donna di
servizio dei Lucidi, affezionatissima, lo chiamava Signorino. Una volta
Mario distrattamente uscì di casa senza i pantaloni: "Signorino,
Signorino...".
Mi riparla di
Fiorentino, che stava a via La Spezia (ora sta a Rimini) e che ricorda la
polemica, le pagine contro De Saussure...
Durante la guerra
Mario ha diretto una stazione radio, e lì ha conosciuto Bausani, Santa Maria
(che Buratti conosce...), Filippani (non lo conosce).
Anche Raul morì di
ictus cerebrale. Lui stava sempre a casa di Walter, mentre Fiorentino andava a
casa di Mario. Può darsi che abbia fatto esperimenti con Carlo D'Angelo. Moglie
pianista polacca di Randone. Faceva tanti giochi di matematica, ma non li
ricorda.
Non si stupirebbe se
Mario si fosse messo con una donna sposata...: l'intelligenza allo stato puro
ha il mondo a sua disposizione. Vedeva solo ombre, ma non aveva mai osato
chiedere dettagli sulla sua menomazione, sul suo radar...
Cardona, Giorgio Raimondo
(30.4.85)
Non ha conosciuto
Lucidi, ma è al corrente delle sue ricerche e scoperte di prosodia ("che
turno fai", ecc.), anche se onestamente non ha capito. Non crede che
esista bibliografia altrimenti Belardi sarebbe stato informato. Esclude che
Lucidi possa aver avuto notizia degli studi del maestro ginevrino sui paragrammi
(ipogrammi) editi negli anni ‘70 e che egli ritiene non opera senile, né
tanto meno apocrifa (ha tradotto "Le parole sotto le parole" che
doveva essere pubblicato da Adelphi); Saussure teneva più di tutto a questi
studi, e ne scrisse a Pascoli. Pochi giorni prima era rimasto colpito
dall'anagramma nascosto "aquilone" nel primo verso della poesia di
Pascoli, su Tuttilibri (La Stampa, 13.4.85). Se scriverò cose su Lucidi spera
che glielo farò sapere.
L'esame di glottologia
l'ha dato con Pagliaro e con Lucidi. Il primo era di valore, ma freddo,
arroccato nelle sue posizioni di intellettuale, Lucidi invece sapeva attirarsi
gli affetti, amava il contatto con gli studenti e appianava le loro difficoltà.
Pagliaro tranquillamente citava dalla cattedra testi sanscriti a gente del
primo anno che lo guardava allibita. Verso il 1960 Lucidi venne a trovarlo in
RAI, ma non per fare esperimenti, come ricordava De Mauro: in RAI lui si è
sempre occupato di varietà, gli apparati tecnici di fonologia sono a Torino.
Forse De Mauro si è confuso con suo fratello Alberto, che dirige il centro
cibernetico per la lingua russa, o con l'etnomusicologo Diego Carpitella. Era
appena finito il Musichiere. Ricorda che Lucidi era entusiasta di Telematch,
come quiz non puramente mnemonico
(i mimi, l'oggetto misterioso, il gioco del poker) e che gli propose un
gioco fonetico, molto nebuloso, assolutamente irrealizzabile in TV: far dire a
gente presa dal vivo delle frasi con intonazioni diverse e poi dare dei premi.
Ma era un’idea velleitaria, refrattaria al gioco, impossibile da regolamentare.
Cercava di tirargli fuori con le tenaglie un qualche apparato mentale che gli
permettesse di associarlo a quello che è l'enorme campo del varietà, dello
spettacolo leggero, umoristico, che è il gioco di parole, ma Lucidi non sapeva
portargli nemmeno un esempio e continuava a dire 16 medici, 13 medici...
e qualche altra bizzarria sul numero 7 o sulle 27 civette... Il servizio varietà era capeggiato da
Vittorio Cravetto, un uomo geniale, poeta, pittore, battutista. Quando gli
portò Lucidi rimase esterrefatto dalle sue teorie e disse che avrebbe dovuto
chiamarsi Oscuri, non Lucidi! La cosa così decadde, anche perché poco tempo
dopo Lucidi morì. Gli viene da pensare che gli studi prosodici di Lucidi
possano connettersi a quel fenomeno del napoletano per cui l'aggettivo
femminile ha un suono e il maschile un altro (scapricciatello). Tutti
gli studenti lo giudicavano un po’ matto, mentre De Mauro, che era partito per
le sue ricerche, lo capiva. Quando gli parlò delle strane teorie di Lucidi
pensava che sghignazzasse, invece gli disse che si trattava di cose serissime.
Se Lucidi fosse rimasto nel campo della ricerca teorica pura forse sarebbe
arrivato a qualche cosa.
Tornando dalla Russia
nel ‘45, frequentò la scuola di Walter Lucidi. Ha un ricordo incancellabile di
Mario, gli chiedeva spessissimo delle parole russe, per cercare di ricollegarle
al ceppo indoeuropeo. Ridendo, le diceva che non conosceva la Russia, ma solo
Byron. Era imbevuta di stalinismo, aveva letto un saggio di Stalin sulla
linguistica, era convinta che fosse una cosa geniale, apparsa prima del congresso
del ‘52, l'anno prima che Stalin morisse. Ogni relatore dalla tribuna del
congresso elogiava questa geniale opera di Stalin. La lesse a Lucidi e lui
disse che non era affatto questa cosa geniale, e litigarono perfino per questo,
cosa insolita perché in genere i rapporti erano cordialissimi. Era un uomo
assolutamente fuori del comune, una memoria prodigiosa, collaborava in maniera
molto stretta col prof. Pagliaro, che, se fosse vivo, mi potrebbe dare una
miniera di notizie. Malgrado i suoi difetti fisici aveva un suo fascino ed
aveva delle donne, un individuo in ebollizione, sempre fantasioso, non era un
individuo chiuso, topo di biblioteca. Aveva molta simpatia per lei, la
considerava non stupida, era interessato alla sua biografia, 13 anni in Russia,
era comunista (mentre Mario non lo era). I 15 allievi del Lucidi erano sfollati
per la guerra e in ritardo negli studi, ma lei e Tonino Buratti erano diversi.
Si ricorda anche di Nino Fiorentino, sia pure vagamente.
Lo ebbe, come assistente
e non come insegnante, dal ‘47 al ‘53; dopo lo frequentò ancora,
saltuariamente. Insieme al prof. Giovanni D'Anna lo accompagnavano a casa e lui
offriva loro qualcosa al bar. Si dedicava molto agli studenti, teneva due o tre
corsi invece di uno, benché fare lezione fosse pesante. Profonda umanità,
disponibilità estrema. Riusciva a scrivere alla lavagna e chiedeva agli alunni
di controllare. Aveva molto sofferto. Una volta alla Biblioteca Nazionale, al
Collegio Romano, dovendo consultare un libro di Plauto nella Taubneriana, che
era posta in un ballatoio troppo alto, lo aiutò lui. Pensa che avesse avuto
esperienze umane deludenti. Aveva ironia corrosiva, prosaica e smagata, in
particolare sul rapporto uomo/donna. Ripeteva spesso che le donne erano facilmente
trascinabili. In campo sentimentale mostrava disimpegno, non romanticizzare
troppo. Salivava molto: quando pronunciava metteva la mano davanti alla bocca,
non ha mai capito perché. Forse non ebbe mai l'incarico universitario. Era
assistente assieme a Belardi. Accenna, velatamente, a qualche plagio delle sue
idee. Anna Morpurgo fu quella che lo seguì di più e lo volle rappresentato da
De Mauro come testimone di nozze. Belardi pubblicò gli scritti minori di
Lucidi, il libro maggiore non potè uscire... Crede che De Mauro abbia
tentato di ricostruirlo anche attraverso nastri magnetici.
E’ stata allieva di
Lucidi e ha conosciuto bene la famiglia. Anche sua figlia si chiama Flavia
Romana. Mario diceva Ragazzi, fate caciara piano! La matematica l'ha
capita grazie a Lucidi. Atmosfera gaia, goliardica. Si, metteva la mano davanti
alla bocca, per l'alito, perché fumava. Gli anni erano intorno al '47. Entrambi
i fratelli tenevano molto al parlar bene. La moglie di Walter era un po’ più
severa. Ricorda una festicciola, in cui Flavia partecipò vestita da damina.
Corradini, Marcello (Muscletone)
(22.12.85; 15.1.86)
Dice di essere
vecchio, ma lucido, perché l'enigmistica è un elisir di lunga vita. Si è
ricordato di Lucidi leggendo il Tototono e ha chiesto di me ad un amico
enigmista (Favolino). Ha conosciuto tutti i fratelli Lucidi, 40 anni fa.
Concorda che Mario era un genio, conosceva il sanscrito. Fisicamente era un
Quasimodo di Notre Dame, ma era di una simpatia unica. Lo conosceva benissimo
una certa Ballarani a cui Mario aveva dato delle lezioni. Cercherà di
rintracciarla. Lucidi si interessava agli esempi di enigmistica che lui gli
portava. Ricorda una specie di rebus sulla parola "crittografia": un
gatto di nome C che "grafia" invece di graffiare. Aveva parecchio
umorismo. Aveva un occhio completamente bianco. Crede che avesse preso una
cattedra di rumeno. Gli dico che Mario morì all'improvviso senza avere il tempo
di mettere ordine nei lavori che aveva in corso. Se avesse saputo che un giorno
questi dati sarebbero stati importanti li avrebbe appuntati! Non era uno di
quelli che ti fanno pesare il suo genio, era aperto, di una simpatia unica.
Anelava di sapere, si incuriosiva di tutto. Si dilettava in tutti i campi dello
scibile umano. Se lo ricorda come un Ungaretti, con un grosso testone
carducciano e la maschera, la mutria da Ungaretti. Era veramente un genio.
Arrivava prima e più in profondità degli altri, in tutto.
Corsini, Gaetano (25.11.85; 15.12.85)
Allora studiava musica
(composizione, pianoforte e violino), ma ha interrotto a causa della guerra. Lo
ha conosciuto nel '47, come alunno, poi lo vide spesso fino al ‘51, quasi tutti
i giorni. Andò in Spagna per lavoro; al ritorno, nel ‘63, seppe che era morto...
Raul era pignolissimo nello scopone scientifico: ricordava tutte le
carte uscite, il compagno che capitava con lui era una vittima. Tutti e tre i
Lucidi avevano qualcosa in più. Lui li ha conosciuti quando stavano dietro al
Brancaccio. Ricorda Oscarino, Buratti, Fiorentino e Sergio Bruschi. Li aiutò
nel trasloco a via Aosta. Gli curava qualche spettacolino, tipo filodrammatica
(Pensaci Giacomino, Uno in trincea) con alunni e ex alunni, facevano le
prove nella stessa scuola, poi affittavano un teatro: una espressione culturale
in un istituto di cultura. Cinque anni fa gli telefonarono per una cena di ex
alunni: c'era Walter, Anna, e tanti altri. Colpa di Mario se si faceva rubare
le idee dai cattedratici: era ingenuo, pacioccone, e pensava che i suoi
interlocutori fossero onesti come lui. Invece il mondo è al contrario! Dopo un
breve colloquio Mario catalogava una persona, ma tuttavia qualche volta restava
fregato dalla sua ingenuità. Aveva una memoria sbalorditiva: si era creato un metro,
un metodo per sopperire agli handicap. Si faceva leggere un intero
articolo di giornale e quasi "leggeva" con le orecchie: si ricordava
che verso il decimo rigo....; voleva lette le virgole e i punti e se si leggeva
velocemente capiva lo stesso. Aveva una memoria formidabile, faceva calcoli
spaventosi all’istante. Lo ha sempre considerato un genio soprattutto nel campo
della glottologia. Ha letto bene il Tototono, dice che è vero. Mario
insegnava matematica e faceva scrivere un'espressione alla lavagna: anche se
era complessa lui seguiva lo stesso tutto lo sviluppo, anche se non vedeva la
lavagna. Aveva una fotografia e correggeva gli errori: una parentesi tonda, una
y. Per lui è sempre stato un mistero come abbia potuto farsi
quell'altissima cultura che possedeva. Rimaneva colpito anche dal fattore
umano: non solo riusciva a capire se una persona valeva, se era sincero, ecc.
ma, nelle sue possibilità, lo aiutava a superare qualsiasi problema. Si
spaccava in quattro, prendeva a cuore, era umano. Si interessava veramente, non
a parole. Era un uomo completo. Era brutto a vedersi, grosso, dondolante, gli
occhi glieli avevano massacrati con l'operazione. Crede di ricordare l'Ascione,
ma solo come amica di Mario. Aveva successo con le donne, proprio per la sua
cultura. Degli esperimenti degli ultimi anni non sa niente. Inquadrava
l'individuo nella sua casella. Ascoltavano alla radio le radiocronache di
Niccolò Carosio, i quasi gol. Ricorda i supplì mangiati con lui alla
rosticceria Catena, a porta S. Giovanni. Walter e Mario erano legatissimi. Raul
lavorava al Notturno dall'Italia, in tutte le lingue. Conferma che tutti non
volevano che Mario si sposasse: quando qualche amicizia femminile diventava
pericolosa tutti i parenti cercavano di farlo desistere, lo sfottevano... Mariolina
e l'altro fratello di Oscar sapevano più retroscena. Mario fumava tantissimo.
Secondo lui nei parenti c'era una forma di egoismo: lo volevano proteggere da
umiliazioni da parte dei passanti, ma anche non volevano perderlo. Affetto
appiccicaticcio della madre. Il tono è molto importante nella recitazione: se
la battuta non è nella tonalità giusta viene fuori una stecca. Dislivello
tra la tua battuta e la mia. Fa notare che il valore di "non capisco"
è molto diverso in un contesto del tipo "ma non capisco come questo
individuo...". In recitazione si fanno parecchi esercizi: una frase si
ripete con i più vari stati d'animo. Alcune parole possono essere dette in
maniera intensiva, con l'intenzione, oppure svagata, buttata là, tirata via.
Una volta lui voleva musicare La figlia di Iorio di D'Annunzio, che è in
versi: Mario allora gli disse "Perché non mi leggi qualche verso?" e
poiché lui li leggeva bene, Mario si beava nel sentirlo, glieli faceva leggere
anche in classe. Può darsi che allora lui iniziava a scoprire... Una volta
Mario gli presentò De Mauro, di sfuggita. Pensa che nella crittofonia del
"capisco" premettere il "non" aiuterebbe. Un musicista
professionista capisce una nota anche isolata. Nei conservatori per prendere il
diploma di solfeggio c'è l'esame di dettato (sol maggiore, do minore, ecc.).
La musicalità delle parole è troppo soggettiva. Pensa che il parlare sia più
semplice del cantare. Un attore che recita però deve usare il diaframma, come
lo usa il cantante. Nel canto bisogna mettere più attenzione, quando invece si
parla si è anche autorizzati a stonare, non succede niente. La stecca è un
rumore sgradevole. I suoni piacevoli accarezzano l'orecchio. Vi può essere la
stonatura pulita (cioè che non è adatta al contesto), oppure vi è la stonatura
sgraziata, tipo stecca. Mario non cantava, gli piaceva la musica classica alla
radio, però non andava ai concerti. Gli piaceva la musica forte di Beethoven.
Cubeddu, Italo (13.5.85, 23.5.85)
Ha frequentato Lucidi
soprattutto nel ‘47, fino al ‘54 (tranne una parentesi in Germania) e sempre
più di rado, fino agli ultimi anni. Era un fratello maggiore, contatto quasi
quotidiano. Mario gli raccontava quello che andava facendo sulla prosodia, ma
lui non era interessato. Ricorda benissimo come è nato l'articolo sull'arbitraire
du signe, il suo scrittarello contro Benveniste, coinvolgendo poi tutti,
Bolelli,... perché gli ha fatto da amanuense. Aveva coniato questo termine, l'iposema,
che poi è rimasto. Questa ricerca dell'iposema lui l'ha vissuta, però ricorda
delle cose sparse. Forse De Mauro l’ha ripresa. Aveva un formidabile cervello
matematico. Degli esperimenti sui numeri primi ha ricordi frammentari, che
dovrebbe fare affiorare. Spesso li poneva alla prova, cioè faceva leggere, ad
esempio un verso, e poi faceva delle considerazioni. Dava molta importanza al
fatto che si dicesse "fra" o "tra". Altre considerazioni
anche sul modo di lettura di versi di Dante... Lui lavora in campi
completamente diversi e quindi non era e non è in grado di giudicare queste scoperte
di fonetica. Potrebbe tornargli in mente qualche brandello di discussione, ma
bisognerebbe sollecitare i suoi ricordi con esempi, con spunti. A volte ci
interrogava, prova a dire questo, prova a recitare questo verso.
Stimolato dalla mia
telefonata, si è riguardato quel fascicolo sui prosodemi curato da De Mauro,
con il ricordo di Pagliaro. Vuole informazioni per procurarsi i "Saggi
linguistici" curati da Belardi. Ebbe un piccolo incarico all'Istituto del
fratello maggiore. Non sa più nulla di Walter, non ha avuto il coraggio di
riannodare... Aveva un fratello coetaneo di Mario e di Raul, che morì nel ‘65.
Il famoso articolo L'equivoco... l'ha manualmente redatto lui, non
tutto, fino ad un certo punto. Ha un ricordo, anche visivo, molto preciso: Eravamo
all'istituto di glottologia, e una mattina Mario interruppe improvvisamente la
dettatura perché aveva capito, gli erano balenate le ragioni dell'equivoco di
Benveniste. Nell'articolo c'è una pagina in cui vengono addotte le ragioni per
cui Benveniste avrebbe dato... Il pronome "il" che figura in quel
famoso passo di Saussure, secondo Benveniste si riferiva a "segno
linguistico" e non a "significante" come invece Lucidi sostiene.
Mi ricordo questa scena perché improvvisamente... Lucidi, anche se avesse potuto
scrivere da sé, non dettava nulla che non fosse già perfettamente costruito
nella sua testa. Era un uomo tarchiato, massiccio con una curiosa andatura
molto simpatica, dondolante, un po’ claudicante. La scena era questa: camminava
intorno al tavolo costruendo a voce alta questo suo articolo; a un certo punto
si interrompe, viene da me improvvisamente. Io, stupito, non avevo capito
nulla: "Basta, chiudiamo tutto... Niente, ci rivediamo un'altra
volta", perché aveva capito, e da lì poi è nato, nel titolo,
"l'equivoco" fondato anche su un equivoco di lettura sbagliata di
Benveniste.
Lucidi è stato uno dei
primi a leggere Saussure in Italia, a farlo venire di moda. Non crede che nel
‘48-’49 fossero in molti a leggerlo, del gran pubblico. Un altro libro di cui
gli parlava con entusiasmo erano i "Grundzuge der Phonologie" di Trubetzkoj,
che ritorna continuamente anche nell'articolo sull'iposema. Lo interessava per
le considerazioni di carattere teorico più generali: sgombrare la linguistica
da problemi che con la linguistica nulla hanno a che fare: problemi filosofici,
rapporto tra parola e cosa (pensiero / parola / cosa); meglio dare autonomia
alla linguistica, liberandola da problemi che linguistici non sono: questa
autonomia la linguistica la può conquistare proprio muovendo da principi e
proposizioni per sé evidenti, da postulati proprio come in matematica (cfr. la
fine dell'iposema). Ecco c'era proprio questo "modello" che gli
funzionava nella testa. E Pagliaro, di cui ha riletto il "ricordo",
sottolinea molto questa naturale mentalità matematica, questo grande amore per
la matematica. Questa predilezione per la matematica emergeva anche dalle
conversazioni, parlavano di giochi, di Russel. Le classiche difficoltà, i
sofismi che risalgono agli scettici. Era pienamente interessato a questi giochi
linguistici e logici a un tempo: paradosso del mentitore, paradosso del
barbiere (che fa la barba agli altri ma non a se stesso). Aveva un grandissimo
amore per la poesia, aiutato da una memoria straordinaria. Dante lo conosceva a
menadito. Pagliaro ha ben evidenziato, nel suo commosso ricordo, anche l'enorme
interesse che aveva per ogni campo del sapere. Il desiderio di autonomia per la
sua scienza, la linguistica, non significava in nessun modo una chiusura dentro
un terreno ristretto, circoscritto. Aveva anche grossi interessi di carattere
politico, anche questo Pagliaro lo dice, ed è molto vero e molto giusto.
Ricordo una sua battuta sui comunisti: il loro destino era simile a quello dei
primi cristiani, il rifiuto del comunismo, la lotta, l'avversione (era l'epoca
del maccartismo): era un fenomeno tra i più grossi... Non vorrebbe etichettarlo
politicamente, leggeva due giornali di corrente diversa. Non era certamente un
conservatore, ma guardava con molto interesse il fenomeno del comunismo. Non se
la sente di definirlo ateo, una volta gli disse questo, che si potrebbe anche
citare: "Io non so nulla, mi pare di sapere una cosa però: non siamo fatti
a caso" Questa può essere una fede filosofica, più che religiosa. Era
tutto il suo "credo" per quanto riguardava un rapporto con una
trascendenza. Molto divertito, una volta gli raccontò di una donna del popolo
che aveva chiesto una messa in suffragio, e poiché vi erano tariffe
differenziate, questa donna insisteva per sapere che tipo di vantaggio ne
avrebbe tratto l'animo del defunto. Il prete era imbarazzato, la donna era
invece era sicura... Aveva una certa diffidenza per la speculazione filosofica.
Lui imparò - durante la sua opera di amanuense - come si scrive, come si fanno
le note (glielo insegnava), quanto può apparire a chi profano non è, quanto può
essere cattiva una nota quando si dice vedi..., ma vedi anche...
L'insulto maggiore che si può in questa forma accademica formulare è: "E
per puro scrupolo di citazione...".
A parte queste
divertite sciocchezze, il modo di impiantare un saggio, di costruirlo, il tipo
di ricerca, il tipo di letture... ha molto imparato... Evitare discorsi
inutili, le digressioni, andare subito al dunque, il tenere fermo il filo del
discorso, dire le cose invece che perdersi con le parole... Nei suoi scritti
non c'è nulla di superfluo, non c'è nessuna civetteria. Se lui (Cubeddu) resta
fedele a questo stile lo deve a Lucidi. Aveva la testa un po’ leonina,
interessante. Era divertente stare con lui, all'osteria. Tuttavia un ritratto
dovrebbe essere molto sobrio, senza troppi aneddoti, ed estremamente rigoroso.
Lucidi era tutt'altro che "accademico". Forse Pagliaro ha ripreso le
teorie dell'iposema...
Quel tipo di
razionalità dei giochi matematici, per lui era la razionalità. In fondo
per lui la glottologia non era quella di un Pagliaro, era routine... Il suo
interesse era la matematica. Vuolo ha insegnato a Messina assieme a Cubeddu. La
storia del "micamuffo": si trattava di un'amica (di cui non dava
connotati). Che stai dicendo? Non esiste il verbo "uffarsi"! Pare che
la poveretta non capisse. Una cosa simile nel verso del Carducci "Chinato
ai ruderi del foro" non gli funzionava nella testa. Spesso faceva delle
domande senza dare spiegazioni. La questione dell'iposema non era di semplice
nomenclatura, gli serviva per costruire... Problema della convenzionalità del
linguaggio o meno...
“L'iposema sta a
designare (il linguaggio non è perfetto) l'elemento
primo, il dato primo immediato su cui lavora il linguista, che ha questa
caratteristica della funzionalità, cioè di non essere per sé significante,
tuttavia di avere una natura tale per cui può funzionare soltanto all'interno
di una unità significante che però è la frase. A differenza di ogni altro
segno... gli è rimasto per sempre nella testa: il segno linguistico ha questo
di caratteristico rispetto a qualunque altro segno: è analizzabile. E il
risultato dell'analisi è funzionale al significato del tutto. Faceva l'esempio:
se io spezzo un segnale stradale (che trasmette, comunica un comando, un divieto, ecc.) non ottengo nulla che...;
non è analizzabile, funziona solo come un tutto e i suoi elementi sono ... un
pezzo di latta, ecc. ; mentre invece il
segno linguistico è analizzabile in elementi che entrano poi in quel segno e
sono funzionali all'espressione linguistica..
e come entrano in quel segno entrano in altri segni, cioè morfemi,
fonemi, ecc.; sono tutti elementi in
cui è analizzabile il segno linguistico, che hanno questo di caratteristico,
entrare con una loro funzione.
Il rapporto tra parti e tutto è un rapporto
funzionale, non è un rapporto di
estrinseca composizione o somma che poi possa essere divisa.
Non sa aiutarmi per
rintracciare la donna di Lucidi. Non gli pare che Lucidi si possa considerare
uno strutturalista. lo scopo perseguito e raggiunto con l'iposema è stato -
ripete - quello di sgomberare il campo dai problemi non linguistici, e questa
conquista non se l'è mai perduta, ed è stata quella che gli ha consentito di
andare avanti sulla strada delle ricerche posteriori. Esclude una interruzione
nel pensiero. Lucidi è certamente l'uomo più straordinario che ha conosciuto.
Era un uomo molto distratto: pare che la madre una volta lo abbia bloccato
prima che uscisse poco vestito. Una raccolta di testimonianze - aneddotiche -
mal si attaglierebbe a Lucidi. Era un uomo molto vivo, buon compagno di tavola,
estremamente generoso, però era anche schivo. Attenzione al rischio di cadere
nella aneddotica un po’ spicciola.
Una volta lo presentò
a Pagliaro, in occasione di un seminario a cui prese parte anche Geymonat.
Lucidi chiamava Pagliaro "il principale", e loro adottarono questo
appellativo per Spirito. Non crede che sostanzialmente ci fosse un attrito tra
lui e Pagliaro, c'era un grande rispetto reciproco e una grande stima, ma
seguivano strade diverse. Non sa nulla della diatriba sul Disdegno di Guido.
Sarebbe interessante sentire i suoi allievi diretti.
Cubeddu andò a casa
quando morì, avvertito da De Mauro. Gli aprì la cognata, raccomandandogli di
non dir niente alla madre, che era all'oscuro. Al funerale c'era Buratti.
Ricorda che Walter fu preso da un grande sconforto, scoppiò in pianto come un
bambino. Con Mario aveva un rapporto di
amicizia alla pari, ma gli dava del "lei"; invece col fratello, con
cui non c'era questa confidenza, dava del "tu". Una differenza di età
che allora contava.
Si è laureata nel ‘54
ed ha cominciato a insegnare alla scuola dei fratelli Lucidi, dopo che c'era
andata a lezione d'estate, pur non essendo stata rimandata. L'istituto Lucidi
prima era in via Aosta, poi a S. Giovanni. Aveva il motto Velis Remisque. Ha avuto molta
fortuna dal punto di vista degli studenti, poca da quello economico perché
Walter non intrallazzava, non ha voluto fare mai la parifica perché avrebbe
dovuto chiudere non uno ma due occhi sulla preparazione degli alunni. Quando
cominciò a insegnare lei, Mario non insegnava più lì, stava all'Università.
Walter faceva il preside, ma negli ultimi anni fu costretto a riprendere ad
insegnare, latino e greco, e alla segreteria, al posto di Mariolina, sorella di
Oscar, mise il figlio Sergio. Mario stava sempre con un ufficiale, e con Oscar,
non perché questi fosse all’altezza di capirlo, ma perché era quello più disponibile,
non faceva niente lì a scuola, mentre lei si faceva 12 ore di lezione.
Esteticamente Mario era il peggiore, ma quando ci parlavi ti dimenticavi
dell'aspetto fisico. Aveva fascino e una carica vitale prepotente, non era
affatto diplomatico, come si conveniva agli assistenti e portaborse. Aveva un
regime, anche alimentare, meno controllato di quello di Walter, si arrabbiava.
Una volta le diede un vocabolario in testa e lei si rivolse a Walter, che era
meno impulsivo, e che l’ha aiutata spesso, in questioni private, come un padre.
Anche Oscarino, quanti insulti s'è preso! Una volta, malgrado la cecità, Mario
le disse D'Angelina, hai la chiusura lampo aperta!, altre volte Bellissimo
questo vestito! Aveva un’adorazione per la Ascioni, che veniva a scuola a leggergli.
Li vede ancora che andavano nella stanza di fronte a fare esperimenti con un
grosso registratore, che probabilmente Walter conserva. Questa Ascioni aveva
una grande pazienza, verso di lei Mario aveva attenzioni particolari. Era
cresciuta nella casa accanto. Ancora oggi si mantiene molto bella. Non era in
buoni rapporti con la famiglia, soprattutto con Ninni, la moglie di Walter, che
metteva tutti sull’attenti, compreso Mario. Già era stata una conquista quando
poté andare all'Istituto. Ricorda le violentissime liti perché Mario non si
doveva sposare. Però, secondo lei, Mario non era convinto di fare il passo di
sposarla. Non la presentava a nessuno. Forse è stata l’unica donna con cui
Mario non ha fatto niente. I Lucidi erano molto uniti, Mario era attaccato alla
nipote Flavia e viceversa. Il padre era di umili origini, loro ne erano
orgogliosi.
Walter è crollato dopo
la morte di Mario. Parlava del fratello con molto dolore. Rammenta anche
l’amarezza per Sergio e Flavia che non hanno seguito le orme di famiglia. Da 15
anni non vede più Walter. Esclude categoricamente che abbiano buttato tutto,
sapendo che tipo di rapporto intenso, che vincolo di sangue c’era tra loro. A
proposito della reticenza dei familiari, ritiene che vogliono solo rimuovere, non
vogliono rivivere il trauma del disinteresse. La delusione è stata troppo
grossa e per questo non hanno fiducia, hanno paura. Walter forse all'inizio lo
aveva sottovalutato, il fratello, e comunque non ebbe tempo di continuare lui
gli studi. Mario aveva una intensità di pensiero continua. Spesso mentre
parlava con te, si estraniava. Faceva ripetere le parole. Si ricorda di quel forse
relativo a Cavalcanti. Il "fu" del 5 maggio lo interpretava alla
francese: “Fu lui...”. La definizione di genio le andrebbe bene. Non si ricorda
dei numeri primi, lei ci scherzava, ma sugli alunni quegli esperimenti facevano
più effetto. Secondo lei quei nastri ci sono ancora. Una volta Mario riuscì a
tradurre un manoscritto che serviva a suo marito per la tesi in storia della
medicina, sulle antiche tecniche di scarnificazione. Attraverso la tecnica di
lettura, l'intonazione, trovò la chiave e riuscì a capire cos'era la prora e la
prua del cervello. Nessuno dopo la morte di Mario ha sentito il dovere di fare
un articolo. Molti spunti di linguistica di Lucidi sono stati ripresi da De
Mauro che, essendo giovane, recepiva molto meglio di Pagliaro le innovazioni di
Lucidi.
Ha piacere di parlare
con me, soprattutto per rispetto alla memoria di Lucidi. Ricorda la sua grande
umanità e bontà. Aveva profondo rispetto per lo studente, grande attenzione per
i problemi di quelli che si iscrivevano a lettere e un’enorme pazienza, nelle
lezioni sull’indoeuropeo o arioeuropeo, come un professore dei college
inglesi. Alle esercitazioni di Belardi lui non capiva, a quelle di Lucidi si.
Pagliaro invece era chiaro, in filosofia del linguaggio. Lucidi era umile.
Quando è morto stava preparando qualcosa di importante: aveva scoperto
qualcosa. Definirlo "un genio" gli sta bene. E' in dissenso con
alcune interpretazioni di Pagliaro (sulla critica semantica). Mi consiglia di
cercare la professoressa Luciana Di Lello, che era molto legata a Lucidi. Si ricorda
che fu lei a comunicargli la morte di Lucidi.
Quasi si sorprende
della mia attenzione a Lucidi, che all’epoca era un semplice assistente,
come lei. Sui lavori scientifici non può aiutarmi. Potrei rivolgermi alla
nipote di Lucidi che insegna Arte orientale all’Università o a De Mauro, che
era anche amico di famiglia.
De Mauro, Tullio[8]
(4.3.85, 13.5.85, 3.6.85, 10.9.85)
Lucidi fu suo maestro,
assieme a Pagliaro, che a suo tempo lo aveva cooptato. Gli ha sempre dato del
Lei perché c'erano quasi 20 anni di differenza e allora le distanze
generazionali contavano. Lo seguì molto anche la prof.ssa Morpurgo, che ora
insegna a Oxford. Belardi molte idee le utilizzò nel suo libro di glottologia,
poi raffreddò i suoi rapporti, anche
con lui, per beghe accademiche, infatti lo escluse dalla pubblicazione dei
saggi di Lucidi. Lucidi spremeva fino in fondo quello che leggeva, forse perché
la sua "libreria" era ridotta per via della vista. A Ginevra,
nell'ambito di ricerche sulle fonti manoscritte di Saussure, se ne interessano
tuttora (Godel, Frei). I fattori extrafunzionali hanno variazioni
libera, ma Lucidi ne intuì delle costanti e riteneva che la poesia
stabilizzasse meglio tali fattori. Insiste sul rovello, sulla tensione
intellettuale che non gli permise di stringere, però capiva che la strada era
quella. Spesso telefonava alle due di notte.
Aveva un solo occhio,
mal funzionante, e zoppicava, però si accettava. Era un formidabile nuotatore,
in acqua questo tipo di menomazioni si azzera. Sceglieva i grandi testi
"chiave" e li leggeva, come normalmente non si legge, con uno
scavo intellettivo che spesso noi che possiamo ritornare sulla pagina non
mettiamo. Si faceva leggere i lavori degli allievi e seguiva il filo delle
coerenze o incoerenze interne, con un rigore, una vigilanza che lui non ha più
ritrovato in nessuno. Aveva un temperamento gioviale, gioioso, solare, senza
ossessioni con rapporti femminili, senza problemi. Ha avuto splendide
fanciulle.
Era interessato al
rapporto di voce maschile/femminile perché una delle ipotesi attorno a cui si
arrovellava era che i fattori prosodici segnalavano, in qualche modo, laddove
la morfologia tace, il destinatario, o anche la provenienza, maschile o
femminile. La sua tesi era che la prosodia portava notizie. Aveva riflettuto a
lungo, ad esempio, sul leopardiano "perché non rendi poi quel che
prometti allor" e aveva interpretato, per ragioni semantiche ma
soprattutto prosodiche, poi e allora come sostantivi. La
difficoltà semantica del passo era stata rilevata, indipendentemente, anche da
Pagliaro, che sollecitava appunto la critica semantica sui testi molto noti,
che tante volte si ripetono scivolando per una china di interpretazioni
tradizionali, senza rendersi conto delle incongruenze.
Per quanto riguarda la
bibliografia su Lucidi si potrebbe chiedere a Rudolf Engler un'analisi più
precisa e cercare nei Cahier Ferdinand De Saussure (non sa se hanno
fatto degli indici), dove si trovano ogni tanto utilizzate le idee di Lucidi,
ma quelle linguistiche sull’iposema, non quelle sulla prosodia. Lavori dedicati
specificamente a Lucidi non ce ne sono. Se voglio, mi prepara lui una
"schedina", con le menzioni più significative, quelle in cui non è
dato solo in bibliografia, ma è discusso.
La sua descrizione
intuitiva della tensività era che lui percepiva il formarsi di riccioletti
o piccoli vortici variamente direzionati verso l'interlocutore o verso il
soggetto parlante, o verso il testo, il testo in sé e per sé. Su questo
insisteva molto e anche su fenomeni di inversione molto gravi che si
avrebbero quando noi parliamo ad una persona o ad un uditorio leggendo un testo
e non parlando. Ma stentava a dare una forma a queste riflessioni: ogni tanto
gridava Eureka!, poi invece rientrava in crisi. Per i numeri primi aveva
cercato di prendere contatto con dei tecnici della RAI-TV per sottoporli ad
analisi strumentale, per vedere se c'erano delle rispondenze, se i primi
venivano automaticamente pronunciati in modo diverso. Sosteneva che si potevano
anche utilizzare numeri primi elevati. Si rivolse a Mario Carpitella, un
bravissimo filologo, grecista e traduttore, rintanato alla televisione, che era
molto divertito da formule come "tredici medici, sedici medici",
da fare dire a qualche attore. Sorridendo ricorda che questi erano molto
stupefatti di dover ripetere più e più volte perché non ne capivano il motivo.
Lucidi voleva vedere, a sequenza fonematica identica, che variazioni c'erano in
rapporto al carattere "primo" o “composto” dei due numeri. Carpitella
ogni tanto, per anni, gli diceva sghignazzando: si, Lucidi è molto bravo, ma
che ci faceva coi 13 medici? Non mi sa dire con quale strumentazione
fecero questi rilievi. Erano le ultime cose che lui faceva, però senza
risultati. Crede che dei nastri magnetici il trascrivibile sia stato tutto
trascritto. Un'altra persona che può essere una fonte ricostruttiva importante
è Italo Cubeddu. Tutto il clan dei fratelli Cubeddu era stato molto
amico del clan dei fratelli Lucidi. Gli iposemi non hanno niente a che vedere
con gli ipogrammi di Saussure.
Altra ipotesi era che
la menzogna avesse un andamento prosodico particolare e di questa questione
Lucidi aveva cominciato ad interessarsi dopo un piccolo incidente con Ceccato
su una questione che circola nei manuali di logica, che crede si faccia
risalire a Russell: Ci sono due strade, quella della vita e quella della
morte, che convergono ad un bivio dove vi sono due monasteri, quello dei frati
bianchi che dicono sempre la verità e quello dei frati neri che dicono sempre
la menzogna. Un viandante che arriva lì deve sapere qual è la strada della
morte e quella della vita e può fare due domande per imboccare la via della
vita. Lucidi trovò che la soluzione si poteva trovare con una sola domanda,
molto carina, metalinguistica: Se io chiedessi “questa è la strada della
vita?”, che mi avresti risposto? E in questo caso i frati erano costretti a
dare in ogni caso la risposta vera, in base al principio del meno per meno,
della doppia menzogna o della doppia verità. Partendo da questo piccolo
episodio marginale Lucidi cominciò a ritornare su quella questione perché in
sostanza lui immaginava, sosteneva, gli pareva di vedere che ci fosse una
situazione di tipo "lettura". Il testo menzognero è un testo artefatto,
per dir così, un testo riprodotto da chi lo esegue, piuttosto che
un testo detto immediatamente. E quindi gli pareva di intravedere
la possibilità di trovare un gioco prosodico che fosse difforme da quello
normale e rivelatore del carattere di menzogna. Però anche qui era solo un
ordine di riflessioni...
C'era qualche
divergenza tra Lucidi e Pagliaro, nel senso che certamente la nostra esecuzione
fonica dà delle informazioni molto ricche che non siamo in grado di descrivere,
e qui Lucidi ha ragione; ma queste informazioni, posto che abbiano le
caratteristiche di costanza che Lucidi andava cercando, sono pleonastiche,
questa era la grande obbiezione. Nella scrittura noi rinunciamo a tutto questo
e capiamo bene quel che è scritto. L'impressione era che ci fosse una sopravvalutazione
del ruolo, dell'ipotetico ruolo, da riconoscere a costanti di tipo prosodico
nella fonazione. Detto questo, non c'è dubbio che qui ci sono dei lavori
pazientemente da cercare di fare: questa era la forza di Lucidi. Tutto sommato
nella scrittura noi questo non lo utilizziamo, ma il fatto che non lo
utilizziamo non significa che questo apparato non possa essere presente anche
in modo rilevante, perché una teorica generalissima di Lucidi era che la
lingua è piena di ridondanze, di tutti i tipi, di ricchezze, diciamo, che non
vengono utilizzate se non in misura ridottissima, e se non in momenti di
emergenza, di particolari necessità, anche pratica o teorico/letteraria. Nei
momenti di bisogno il poeta, Dante o Leopardi, fa funzionare tutta la lingua,
va a ripescare tutto quel che serve...
Dopo qualche mese di
silenzio De Mauro mi informa di aver casualmente saputo che Mario Di Rienzo,
suo collaboratore a Riforma della scuola, aveva fatto degli esperimenti
con Lucidi sulla intonazione, non sul carattere riflesso, per così dire, di lettura/non lettura,
ma sulla veridicità dell’enunciato, cosa che lui un pochino aveva
accantonato, perché gli pareva forse la cosa più rischiosa. Perciò mi consiglia
di contattare a suo nome Di Rienzo (v. oltre).
E’ sinceramente e
piacevolmente sorpresa del mio interessamento a Lucidi, ma non crede di potermi
essere utile. Ne ha un ricordo molto affettuoso. Lei era studentessa (17
anni). Si ricorda di conversazioni nei corridoi, assieme ai suoi amici
Morpurgo e De Mauro, che Lucidi amava moltissimo. Ricorda che le faceva contare
zero, uno, due... oppure uno, due... e lei si rendeva conto di
questa diversità di tono e la divertiva moltissimo che Lucidi la utilizzasse
come cavia. Forse Lucidi ricambiava l’enorme simpatia che lei aveva per lui.
Quando morì le dispiacque moltissimo e andò ai funerali, anche se non era sua
abitudine. Secondo lei Mario aveva già in mente una teoria ben chiara che
voleva verificare. Non crede che De Mauro e la Morpurgo avessero difficoltà a
capirlo. Gli esperimenti secondo lei non erano cose trascendentali, la voce si
capisce che è impostata in modo diverso, tuttavia non sarebbe in grado di
riconoscere parole isolate dal contesto. La differenza la nota solo nella sequenza.
Più che di genialità, parla della grande intuizione di Lucidi, e questo spiega
anche perché ha scritto poco: infatti una persona "pensante", che
lavorava col cervello, non aveva bisogno di scrivere. Assolutamente non era
ritenuto un fissato, ma uno studioso serissimo. Si sentiva che godeva della
stima di tutti. Allora era un'anima candida e paesana, veniva dall'Abruzzo, e
non poteva sapere niente delle beghe dietro le quinte. Lucidi non era un uomo
di potere e non vi aspirava. Pagliaro lo teneva perché era un uomo di valore.
Lucidi non questuava, come fanno tutti e poteva anche permettersi di criticare
il suo "maestro", ma signorilmente, perché era di una signorilità
estrema. L'accademia è questa!
Lo ha conosciuto negli
anni ‘59, ‘60 e ‘61. Era studente universitario di lingue e faceva il maestro
elementare. La sera seguiva, all'Istituto Lucidi (a San Giovanni), un corso di
inglese, tenuto da un'inglese. Spesso, dopo le lezioni, ci si intratteneva con
Walter che amava avere rapporti umani con gli studenti. Una sera conobbe Mario,
che non insegnava più lì, e fu colpito dalla sua cultura, dalla capacità di
intessere rapporti. Mario si interessava agli aspetti fonologici di questa
seconda lingua. Una sera aveva un registratore - grande, professionale, a
bobine, uno dei migliori del tempo - e fece fare un "gioco", lo
chiamava così, che per lui aveva valore sperimentale, o di conferma, se in un
contesto meno formalizzato, più alla mano, certe sue intuizioni potevano avere un
riscontro positivo. Lucidi si voltava e invitava un ragazzo a pronunciare un
numero indicando contemporaneamente con la mano lo stesso numero o un altro.
Lui riusciva a capire, ed ha indovinato sempre, se, ad esempio, un
"cinque" corrispondeva o meno all'indicazione data con la mano.
Riusciva a indovinare quando era vero e quando era falso. Non c’era nessun
trucco. I numeri ovviamente potevano essere pari o dispari, fino a 10. Soltanto
dopo la registrazione riusciva a capire se era falso o meno. Gli altri ragazzi erano
testimoni e tutti gli chiesero qual era, sostanzialmente, il segreto di questo
"trucco". Mario rispose che si basava sull’esitazione dei tempi,
tempi minimi, frazioni di secondo, che riusciva a misurare meglio con la
registrazione. Facevano a turno: prima parlava un ragazzo, lui riascoltava e
dava il responso; poi toccava ad un altro e così via (una decina di
esperimenti). Molto probabilmente il registratore non era indispensabile, gli
serviva anche come conferma, per essere più sicuro. Diceva che il segreto stava
in una piccola frazione di ritardo dal momento in cui dava l'ordine o meglio su
qualche istante di esitazione nel momento in cui dicevamo il numero. Questo
esperimento l'hanno fatto 2 o 3 sere di seguito, perché la prima volta loro
potevano essere più impreparati e quindi questi momenti di esitazione potevano
essere più lunghi. Le volte successive invece loro hanno cercato di non fare
apparire troppo evidente o addirittura di cancellare del tutto questo tempo di
ritardo dal momento dell'ordine o "invito". In particolare cercavano
di azzerare questo tempo anche nel caso che si accingevano a dire una bugia,
cercavano di dirlo con la massima naturalezza, spontaneità e velocità
possibile: però Mario riusciva lo stesso ad individuarlo. Gli chiedo se, in
sostanza, si trattava di valutare i "riflessi", i tempi di reazione.
Risponde che appena ricevuto l'invito bisognava dirlo subito... l'invito era
a non esitare. Una volta, prima, l'ha fatto anche senza registratore. Gli
chiedo se Mario si basava unicamente su questo ritardo nella risposta oppure
avrebbe capito lo stesso a prescindere dal ritardo? Dicendo, ad esempio,
"girati e quando vuoi tu mi dici un numero". In tal caso, senza il
rapporto ordine-esecuzione, avrebbe potuto capire? Di Rienzo risponde che
Lucidi l’avrebbe capito lo stesso, infatti altri esperimenti prescindevano da
questo rapporto temporale.
Ci affacciavamo alla
finestra e ognuno doveva dire quello che vedeva, una macchina, una pianta, una
persona e però poteva anche dire il falso. Ad esempio: guardi la macchina, però
dici "fiore", guardi una persona però dici “chiesa”. Anche in questo
caso riuscì ad indovinare se si diceva il falso o meno. Probabilmente con i
numeri stava verificando qualcosa di più, se i tempi di reazione o esitazione potevano
aiutare. Per onestà professionale lui voltava le spalle, anche se non vedeva, e
tutti erano testimoni. Assolutamente non si aiutava con le espressioni del
viso, solo dal tono indovinava... Non era necessaria la finestra, anche
qualsiasi cosa dentro l'aula. Aveva chiesto di parlare con la massima
naturalezza, linguaggio spigliato di pura conversazione, per evitare bluff,
camuffamenti, accentuazioni di tono, per non sviare. Il registratore
sicuramente lo usò per qualche conferma; in qualche caso riascoltò 2 o 3 volte,
concentrandosi molto. Oltre al tempuscolo poneva attenzione al tono, a quelle
sfumature che ad un orecchio comune sfuggono, a quelle esitazioni non solo nel
tempo di risposta, ma anche tra le parole, tra le sillabe più o meno legate. Per
noi era un fenomeno stranissimo, eccezionale.. Il
nastro non sa che fine abbia fatto, e comunque fu registrato in maniera molto
informale...
In quel periodo in cui
cominciavano ad affermarsi quelle scuole di puro lucro il “Lucidi” era l'unico
che aveva conservato i valori della cultura e dei rapporti umani e cercava di
trasmetterli ai suoi allievi. Non è un caso infatti che molti ragazzi che sono
stati a quella scuola vi sono ritornati come insegnanti, proprio perché aveva
una capacità di legame... Per questo non ha fatto soldi... Sui numeri primi non
sa niente. Non lo giudica molto brutto d'aspetto, non era un Papini! Ha nitida
l'immagine di Mario che attraversa la piazza di S. Giovanni, dondolando, senza
occhiali. Si aveva l'impressione che lo mettessero sotto da un momento
all'altro. Non si ricorda di nessuno dei compagni, li ha persi di vista.
Filippani Ronconi, Pio[9] (25.4.85, 10.5.85)
Si definisce un matto,
conosce 40 lingue. Con Mario aveva un rapporto amichevole e alquanto
...sbracato. Mario era energico, coraggioso, allegro, per superare la
barriera della sua vista. Erano donnaioli, soldati di ventura, ribaldi. Ogni
tanto si incontravano e tra un’ingiuria e l'altra notava che la teoria di
Lucidi coincideva con la sua e ne provava piacere. Lucidi chiudeva le
conversazioni con una formidabile manata tra capo e collo. Era massiccio e
muscoloso, lo trattava come un ragazzino, lo sgrullava. Al primo errore che
faceva gli mollava un pugno in testa. Voleva molto bene a Mario, sin da quando
aveva 17 anni, lo stimava e aveva con lui una straordinaria affinità di
ricerca, perché non essendo glottologo, come lui, aveva però delle intuizioni
parallele alle sue, dovute al fatto che sin dall'inizio dell'adolescenza (12/13
anni) si sforzava di imparare le lingue e apprendere il contenuto di
culture lontanissime dalle nostre.
I Lucidi discendono
dai marchesi di Corneto Sabina. Tutti e tre erano dei geni, nel persiano e in
matematica. Raul aveva dei caratteri aristocratici. Mario non era un isolato,
chiuso, come Walter, ma un uomo generosissimo, fatto per donare,
non lavorava per sé. I singoli risultati gli venivano rubacchiati da quelle
volpi fameliche che gli stavano attorno. Buona parte degli studi di Antonino
Pagliaro erano dipendenti dalle intuizioni di Mario, soprattutto
sull'accentuazione del vocabolo e del periodo in indoeuropeo e sulla Divina
Commedia, sul cui fraseggio Mario fece delle scoperte parallele alle sue sull'ipertono
(il “sapore” della lingua).
Tutto ciò che vogliamo
dire entra nella prima sillaba (intensa) del nostro parlare. Infatti gli
inquisitori, come gli ebrei, hanno una percezione acuta della intenzione
entro la tensione del linguaggio, per cui nessuno poteva sfuggire.
Sentendo, ad esempio, Spera spera il primo "Spera" dice dove
va a finire tutto quanto. I numeri primi li possediamo da molto più tempo.
Numerazione a base 5: gli esquimesi giunti a 20 dicono: 1 uomo = 20 dita.
Le scoperte accennate prima e che Lucidi trasferì anche nell'italiano furono la
porta d'entrata allo studio del significato connesso al fraseggiare ritmico
melodico della lingua. Mario studiando il persiano e il greco si trovò,
come lui, di fronte alla contraddizione dell'accento e della lunghezza... Mario
risolse tramite il persiano, lui tramite il sanscrito.
Nel ‘48 c'era tutto un
problema che riguardava De Saussure. Lui scrisse una parte (la seconda
dell’articolo su Benveniste e l’iposema), si trattava di una polemica, di
una requisitoria nei confronti di certe teorie di Saussure. Andò via da Roma
nel ‘52, però tutte le volte che tornava andava a trovare i Lucidi,
all'Istituto.
Gambarara, Daniele (31.1.87, 29.10.90)
E’ troppo giovane per
aver conosciuto Lucidi, il vecchio allievo di Pagliaro, ma ne ha letto
il libro (?), che lo stesso Pagliaro consigliava agli studenti. Per lui Lucidi
è uno studioso come gli altri. Ne ha ripreso il termine iposema e lo ha
consigliato all'amico Prieto, che lo ha citato in una noterella del suo
trattato di semiologia.
Solo negli ultimi tempi
ha aiutato il cognato, facendole da amanuense. Aveva la virtù di estraniarsi,
scriveva meccanicamente. Nelle pause della dettatura, mentre Mario passeggiava
e rimuginava, lei lavorava a maglia. Oltretutto la materia non la interessava
perché, benché si fosse laureata in lettere, era portata per le scienze, la
medicina. Tutto il materiale, alla morte di Mario, fu dato a Belardi, o De
Mauro. Se hanno restituito qualcosa
Walter ha buttato tutto, perché, dice, dei Lucidi non deve rimanere più
niente... Walter è molto malato, per amor proprio è diventato misantropo, non
vuol più vedere neanche gli amici e gli ex allievi. Un professore, come uno
psicologo o un musicista, capisce gli handicap intellettivi degli alunni.
Lucidi, Flavia (21.2.84, 19.3.85, 28.4.85)
Lo zio morì a 47 anni,
una domenica pomeriggio all'improvviso, in un'ora (trombosi). Lo trovarono con
la sigaretta in bocca. Era la nipote prediletta e lei lo preferiva al padre per
le confidenze. Suo padre non era un compagnone, era più serio dello zio, ed
anche "critico" nei confronti del fratello. Ambiente familiare molto,
troppo colto. La domenica lo zio la portava da Giolitti o a fare passeggiate
nel centro storico. Aveva una memoria prodigiosa, imparava molti verbi
irregolari e poi glieli ripeteva, l’aiutava spesso in matematica. Giocava al
Monopoli ed era velocissimo nel gioco del 15. Il cubo di Rubik lo avrebbe fatto
felice. Peccato che i computer del nipotino non c'erano ai suoi tempi, glieli
avrebbe spiegati. Lucidi si interessava di tutto, voleva capire il meccanismo
dei giochi dei bambini. Era uno studioso puro che non aveva interesse a
pubblicare. De Mauro era molto più a contatto con suo zio che non Belardi,
questo lo ricorda bene: le lunghissime telefonate, che erano telefonate di
studio. Spesso le davano fastidio perché doveva aspettare. Anche lei è convinta
che lo zio avesse scoperto qualcosa di importante o che stesse per scoprirlo;
però è altrettanto convinta che, purtroppo, poiché lui aveva questa capacità di
tenere a mente tante cose, e non poteva certo prevedere una morte improvvisa,
non abbia lasciato molto. Allora suo padre Walter perseguì la possibilità di
far continuare gli studi, ma ormai è un ricordo loro, privato. Nessuno ha
scritto di suo zio... Quelle persone hanno tenuto qualche cosa o gli hanno
ridato quello che era del tutto irrilevante. Se non altro, sono state poco
corrette, potevano dire: non mi interessa, li tenga lei i nastri ed
eventualmente li dia a qualcun altro.
Lo zio abitava con la
madre. Lei sapeva che era un donnaiolo: avventure con donne attirate dal suo
fascino intellettuale. Non conosce il nome dell’amica intima che aiutò molto
suo zio, ma se fosse stata una collaboratrice, suo padre, 25 anni fa, le
avrebbe affidato il compito di proseguire i lavori interrotti. Non fece
esperimenti con ciechi, forse con l'attore Carlo D'Angelo, ma ormai sono
passati tanti anni...
Lo zio pensava che una
lettura tonale poteva portare ad una interpretazione diversa, ad esempio della
Divina Commedia, che esistesse un'altra lettura che potesse svelare
altri significati, ma non sa dire di più sui lavori dello zio, anche perché
all'epoca era profana, non era neanche all’Università. Lo assecondava, ma senza
spirito di collaborazione, anzi con atteggiamento di rifiuto e di gelosia verso
questi studi che glielo toglievano. Non si chiedeva il perché le faceva
pronunciare i numeri primi. Qualche volta si, qualche volta no, notava le
differenza del "turno". Anche per lui c'erano ancora delle
incertezze, se faceva pronunciare varie volte... C'è anche una forma di
suggestione. In qualche attimo riusciva a coglierla, poi non ci riusciva più.
Suo padre, benché avesse lo stesso difetto visivo (e quindi avrebbe forse
potuto percepire meglio le sfumature tonali), non aveva tempo per ascoltarlo.
Suo padre è ateo, neanche suo zio credeva. In un libro di cucina, di recente,
ha ritrovato i ritagli dell'“Informazione tonale” di Vacca. Si, in famiglia
pensavamo che fosse un genio.
Lucidi, Maria Teresa (5.6.85, 11.6.85)
E’ estroversa come lo
zio Mario, Walter invece è introverso. E' stata colpa di Mario se non si è
fatto valere. Alla Sapienza sono in molti a sapere della sua genialità. Aveva
raccomandato a Flavia di conservare gelosamente i nastri perché li doveva
studiare, non crede che siano stati buttati. Vorrebbe sentire anche quelli che
ho io... Il figlio, lì presente, ricorda che una volta il prof. Coccia citò
Lucidi in una lezione. Accenna al gesto dello zio di cedere la cattedra a
Pagliaro (epurazione fascista). Ricorda i colpi di lente presi in testa. I
Lucidi sono strani, hanno a cuore gli alunni.
Sin da bambina
conosceva i Lucidi, in particolare Walter e Mario. Abitavano tutti in via Magna
Grecia, che è come un paese, ci si conosce. Anche l’Ascioni, l’amica di Mario,
abitava lì. Era coetanea di Mario, si conoscevano da ragazzini, forse
attraverso una finestra (che mi indica). Nonostante sia vecchia è bella anche
adesso. Forse non si è sposata per il culto che aveva verso di lui. Passavano i
pomeriggi e le serate al Lucidi, a fare esperimenti. I rumori nei nastri sono
quelli di S. Giovanni. Non capisce come abbia fatto questa donna, tutta
parrocchia, ad avere questa relazione, durata tutta la vita. Mentalità
ottocentesca: il “sacro amore per il genio”.
La sua famiglia non
aveva rapporti con i Lucidi, anche perché appartenevano a due correnti
politiche diverse: i Lucidi leggevano Il Secolo ed erano dichiaratamente
fascisti, forse erano amici di Almirante. Nel palazzo abitavano tanti studiosi,
anche Benvenuto Cellini, rettore a Venezia: erano le case che il fascio dava
agli impiegati di un certo decoro. Mario passava gran parte della mattinata in
casa, a orari regolari usciva a comprare il giornale. Lo può dire con certezza
dal momento che la sua casa era posta sul passaggio dal condominio interno al
cortile. Mario aveva i capelli lisci, era orrendo a vedersi, camminava
traballando, con i piedi in dentro e gli occhi per terra. Aveva occhi piccoli
piccoli, strabici, non sapevi dove guardava. Il padre di Mario sarà morto molto
giovane, lei ricorda la madre che usciva con i figli sotto al braccio: ecco che
arrivano i Lucidi! (Le faceva pena la moglie di Walter, perché si capiva che
doveva essere un'intrusa). Walter dopo un po’ che era sposato si trasferì a via
Poliziano, Mario ha abitato sempre qui. D'estate lavorava come un pazzo: non si
ricorda che siano mai andati in vacanza. L'unico lusso la cameriera, il decoro
delle famiglie di una volta.
Un giorno, quando lei
aveva 12 anni circa, capitò a giocare nella scala dei Lucidi. Probabilmente
Mario era incuriosito dal fatto che la famiglia Maggi parlava il romanesco
puro, alla Belli (io fo, io vo...) e così le chiese: "Che ore
sono?" E lei, ripetendolo da altri, forse: "Sono le dieci". E
lui: “Senti la “c”, proprio romana, quasi una “s” scivolata”. Di
Lucidi le aveva poi parlato molto bene Raffaele Giomini, fratello del
latinista, che aveva studiato insieme a Mario. I Lucidi erano molto generosi e
se lei glielo avesse chiesto avrebbero trovato anche a lei un sacco di lezioni
private. Una volta vi fu una riunione presso la famiglia Grifone in via Gabi e
lei vide sia Walter che la moglie. Concorda sull'ombra al maestro (Pagliaro).
Non crede di potermi
essere d'aiuto per la mia ricerca. Voleva molto bene a Lucidi. L'ha conosciuto
nel '57. Qualche nastro lo ha sentito anche lei, subito dopo che era morto. Si
ricorda che De Mauro doveva trascriverli, poi è partita dall'Italia. A un certo
punto è comparsa questa serie di Saggi linguistici, che non erano quelli
che ci si aspettava, ma solo una ristampa di cose già pubblicate. E'
perfettamente convinta che fosse un genio, anche se si diceva che avesse manie.
Di fonetica allora non sapeva niente, oggi ben poco. Ribadisce l'infinita
generosità che gli consentiva di stare a "sentire" la gente, più che
imporre le sue idee. A quell'epoca si occupava di dialetti greci. Lucidi faceva
le esercitazioni del corso di glottologia di Pagliaro: erano le sole cose che
venivano insegnate. Queste esercitazioni erano banalissime e le doveva rifare
identiche ogni anno, sempre le stesse, ma attraverso queste cominciava a
conoscere gli studenti, di cui si occupava enormemente. Lucidi stava
perennemente all'istituto di glottologia, ed era sempre disponibile per
qualsiasi chiarimento. Sapeva stare a sentire con una concentrazione
incredibile; i primi due articoli che lei ha scritto Lucidi glieli correggeva
anche dopo giorni, ricordandosi perfettamente la pagina da cui li aveva
ascoltati una sola volta. Suggeriva spostamenti di periodi. Anche se gli
argomenti non gli potevano interessare, si concentrava lo stesso, era
altruista. Non sospettava nemmeno l'esistenza della linguistica generale. Si
occupava di indoeuropeistica, ben più complicata dei suoi studi micenei. La
prosodia gli interessava di più. Anche a De Mauro è debitrice di alcuni
concetti di linguistica generale. Con De Mauro si era amici, con Lucidi no, a
causa della differenza di età. Aveva atteggiamenti "strani" per la
disponibilità, quasi un santo. Le cose di prosodia era evidente che erano
originali, per questo lo reputava un genio. Lucidi in tutto cominciava dai
primi principi. Per ogni cosa che leggeva doveva ricostruirsela dagli inizi,
con una estrema capacità di penetrazione. La maggior parte di noi impara invece
delle cose e poi le risputa. L'articolo sull'arbitrario del segno è passato del
tutto inosservato, sia perché era in italiano, sia perché in riviste che
nessuno ha mai visto. In Italia poi a quell'epoca a nessuno importava niente di
quel tipo di argomenti. Lucidi si è occupato di linguistica generale in
un’epoca in cui si faceva solo indoeuropeistica. Non ricorda i numeri primi, ma
"i fratelli hanno ammazzato i fratelli". Tutti abbiamo
ripetuto per secoli questa frase, specie scendendo da glottologia fino a
Lettere, a primo piano. Ricorda anche
che una volta, dopo aver dovuto ripetere per 18 volte "i
fratelli...", con sgarbatezza, seccata disse a Lucidi: “Senta, la
prosodia importa moltissimo, ma si renda conto che anche se la sbagliamo, ci
capiamo lo stesso! Quando scriviamo ci capiamo lo stesso...”. Lucidi
scoppiò in una risata completa: “Anna ha detto oggi una cosa grande: “Ma ci
capiamo lo stesso”, e il perché va investigato”. Ricorda, sul discordo
diretto e indiretto, che è diverso "Giorgio verrà domani" da
"quel tale ha detto che Giorgio verrà domani" (anche se non è
subordinata, con i due punti). Accenna agli attuali infiniti progressi della
fonetica sperimentale e alla sintesi vocale, per cui pensa che gli studi di
Lucidi siano arretrati. Per quanto questi fenomeni prosodici siano difficili da
definire, bisogna dare per scontato che ci deve essere una possibilità di
definizione, altrimenti non esistono (queste differenze) e diventeranno
accettabili nel momento in cui li si riesce a definire. Pagliaro era
estremamente sulle sue, ad un livello estremamente alto, rispetto a chiunque.
Doveva essere il capo, in qualsiasi cosa. Pagliaro era ben difficile da capire
perché aveva l'abitudine di dare un indizio di quello che avrebbe voluto si
facesse e di aspettarsi che lo si capisse. Lei non lo capiva assolutamente mai.
Solo gli iniziati capivano Pagliaro. Lucidi le cose le spiegava quando se ne
andava Pagliaro. Il loro rapporto, apparente, era tra il grande Maestro e
l'assistente. Non ha il minimo dubbio che Pagliaro tenesse Lucidi al suo posto
(affinché non gli facesse ombra). Nel mondo accademico si valuta a chili di
pubblicazioni. Pagliaro ha solo una fama nazionale, all'estero lo ignorano. Le
cose "tecniche" di lingua iranica di Pagliaro circolavano tra i pochi
gatti che si occupavano di queste cose. Non si ricorda dei riccioletti. Si
ricorda di estense/intense, ma Lucidi diceva che era difficile definirle
e portava solo esempi. Interessi su frasi bisenso. Non ha mai dato una
definizione in termini fonetici dei contrasti che percepiva. Stava a sentire i
giovani: dovete pubblicare per farvi una carriera. Stava a sentire i problemi. 13
medici/16 medici non lo ricorda: la maggior parte di noi non sa cosa è un
numero primo. De Mauro era andato a Napoli, comunque è stato quello che lo ha
seguito di più. Di Ceccato non sa niente. Si vergogna un po’ di quanto poco si
ricorda. Accenna ai sistemi riconoscitori vocali, previo addestramento: una
macchina che riconosce la "pesca" di uno non riconoscerebbe la
"pesca" di un altro. Non sappiamo insegnare ad una macchina a
riconoscere "fratelli" come soggetto o oggetto. Colpa della
scrittura, dell'alfabetizzazione. La scrittura non ci impedisce di percepire i
fenomeni prosodici, ma semmai di farci abbastanza attenzione. Forse usava "repetibile"
nel senso etimologico, che si possa raggiungere, piuttosto che
"ripetere": il significato è irrepetibile, inafferrabile se non nel
momento stesso in cui lo facciamo funzionare.
Il problema era
"definire" le differenze fonetiche, ma ci sono infinite cose che la
gente non ha saputo definire, poi col tempo ha definito. Trovare la definizione
diventerà il lavoro di qualcun altro. Si son trovate cure per malattie pur
ignorandone la causa: il lavoro posteriore sarà di spiegare perché quelle
medicine vanno bene. Una volta che è stato dimostrato che le cure son servite,
nessuno le negherà più. De Mauro ha utilizzato l'iposema. Un segno linguistico
è analizzabile, mentre un segnale stradale no: Certo, perché le parti in cui
viene analizzato il segno linguistico hanno una certa unità loro, una certa
validità, poi parliamo di una parola e sappiamo più o meno a cosa si riferisce
(la cosa fondamentale è il più o meno); mentre se si prendono dei bambini che
si tengono per mano per indicare che ci sta una scuola, e se se ne taglia un
pezzettino, non si sa bene a cosa si riferiscono. Normalmente infatti non c'è
un’analisi ovvia, se si ritagliano delle linee esse potranno riferirsi a parte
di una strada, a parte di bambini, insomma non hanno un valore ovvio; mentre
una frase del tipo "Non ho voglia di andare a scuola", per quanto la
parola scuola per conto suo non significhi niente di definito (potrebbe esser
parte di "questa è una scuola" oppure "questa non è una
scuola") tuttavia porta a un certo tipo di significati, qualcosa che ha a
che vedere con scuola. Una parola, anche fuori di una frase, limita
l'estensione dei significati, il campo semantico; mentre invece la parte del
segno stradale non delimita niente.
Lucidi fu il primo suo
amico in Italia, gli insegnò l’italiano. E lui gli insegnava il persiano: quasi
uno scambio culturale. Erano insieme circa 40 anni fa, durante la guerra, alla
radio, alla Presidenza del Consiglio. Raul era alla Cultura Popolare. La madre
di Lucidi era cattolica e non voleva che il figlio lo frequentasse perché lui
era mussulmano e temeva che gli cambiasse la religione, come se non fosse stato
già abbastanza grave il fatto che Mario era ateo! Ci scherzavano sopra. Sul
lavoro scientifico non è in grado di aiutarmi. Ricorda il clan di Napoli,
l’insegnamento all’ISMEO, Luciano Pettech, Elena Porcari o Parri, due sorelle
rumene, Raffaele Telesio o Criscuoli, una ragazza che con Mario “ci stava”,
tutta gente morta o irreperibile. Lucidi captava tutto con grande intuito, si orientava
perfettamente con i rumori. Lo incontrava sull'autobus. Aveva spalle quadrate e
quando camminava sembrava un dado. Giocava a tric trac, un gioco simile agli
scacchi o al Monopoli (e al backgammon), che si fa con i dadi ma richiede anche
intelligenza. Si incuriosì dell’aneddoto dell’imperatore di Persia sul chicco
di riso che si raddoppia nella scacchiera[10].
Aveva memoria e intelligenza superiore. È vero, dalla voce si può distinguere
il vero dal falso.
Panicali, Oscar (13.9.85, 25.11.85, 25.10.87)[11]
Lo
ha conosciuto nel ‘47. Col fratello seguì i corsi accelerati assieme a Buratti
e Nino Fiorentino (che esclude che possa essermi utile) alla scuola dei Lucidi,
che poi ha sempre frequentato. I Lucidi furono aiutati da una persona che li
prese a benvolere. Anche lui ha gravi problemi visivi (cataratta congenita), ma
sopperisce con adattamenti compensativi. Comunque, vedeva più di Mario. Lucidi compensava l’handicap
della poca lettura - nel '47, tra l’altro, non si trovavano lenti di
ingrandimento - con un eccesso di riflessione. Anche lui, quando legge una cosa
mette tanta di quella attenzione che non gli può sfuggire niente. Potrebbe fare
il correttore di bozze! Stava spesso con Mario, la domenica sentivano la
partita alla radio. Per anni ogni sera lo accompagnava a casa e per strada
Mario gli raccontava tutto. Mario girava comunque anche da solo, era autonomo.
Una sera, quando c'era ancora l'oscuramento, diede una gran capocciata al palo
della fermata dell'autobus. Un’altra volta andò con un piede sotto ad un taxi.
Anche a causa della
differenza di età (circa 20 anni) Mario lo trattava come un ragazzino, mentre
lui gli dava del lei. Anche a Walter, tuttora, pur essendo quasi di famiglia,
continua a dare del lei. Nella vita privata nessuno ha conosciuto Mario Lucidi
meglio di lui. Aveva interessi disparati: da Saussure alla relatività..., ma
sprecava energie. Era un intelletto poco economico, sempre agitato, pensava
sempre a qualche cosa: o alle donne, o alla prosodia, o al gioco delle carte...
Perdeva tempo in giochetti di questo tipo: dimmi una data e ti dico che giorno
è. Non essendo sposato, si buttava a capofitto sulle ricerche. Mario aveva
l'abitudine di dire tutto quello che gli passava per la testa. Diceva sempre
"Sai che ho scoperto...", scopriva sempre. Le sue ipotesi le
dava come grandi scoperte, perché avevano intimità. Spesso si ricredeva. Mario
era buono e caro, però aveva questo brutto vizio, certe volte scopriva l'acqua
calda, prendeva per scoperte tutte le intuizioni da verificare. Aveva un entusiasmo
un po’ infantile per qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Appena gli
veniva un barlume, magari lui per primo non ne era convinto, diceva che aveva
scoperto! Era un suo intercalare: Sai, ho scoperto...
che i tacchi mi si consumano!
Il tono era ironico, ma vi era una forma di narcisismo. Era troppo avventato,
un carattere troppo aperto. Era un mattacchione. Quando conosceva una persona
sembrava che non avesse aspettato che quella, la metteva a proprio agio. Il
successo con le donne era dovuto al suo carattere dei cani, che generosamente
si buttano allo sbaraglio senza pensare alla propria incolumità, con molta
incoscienza. Alle donne l'intraprendenza piace, perché toglie loro un po’ di
responsabilità e il tempo di riflettere. A lui invece rinfacciava di essere
come i gatti: prudente, attento a camminare senza rumore e a tutto.
Conosce il sistema di
numerazione dei tram, che gli ha spiegato Mario. Sui numeri primi Mario parlava
di eventualità, poi ricorda esperimenti sui pari e dispari, ma, soprattutto,
che Mario era maniaco delle carte. Si arrabbiava moltissimo quando i giocatori
non facevano i calcoli, anche di probabilità. Era appassionato, accanito: per
giocare con lui ci voleva una pazienza da certosino. Si arrabbiava, ti
insultava: "Hai più culo che anima!". Inoltre, mentre giocava,
analizzava gli aspetti fonetici delle varie battute dei suoi compagni: Ripeti
un po’ quello che hai detto.... Poi s’inventava dei giochi: la
“bazzichetta”, con un sacco di regole, la giocava solo con lui. Gli interessava
che funzionassero le regole. Una volta un ragazzo molto bravo, che fu
costretto a giocare ad un gioco ideato da Mario e fu vinto, gli disse: Professò,
se l'è dovuto inventare il gioco per battermi...
Panicali mi racconta
volentieri gli aneddoti, che sanno tutti, ma non riesce a capacitarsi
del mio interesse sui fatti privati di Mario... Una volta un frate a cui aveva
dato lezioni voleva corromperlo con l'olio del convento. Quando lo raccontò a
Pagliaro questi se ne uscì con una battuta: "Se l'olio era proprio
buono...". Un’altra volta un suo alunno (di Oscar) non voleva pagarlo non
essendo stato promosso agli esami. Mario nel difendere le sue ragioni si
accalorò tanto da dover cambiare vestito per il sudore. E la madre: Ma che
hai preso la pioggia? Ecco chi era Lucidi. Aveva un entusiasmo tale per cui
si esponeva, in qualunque cosa: nel gioco delle carte, nelle discussioni, con
le donne, col fratello. Con gli accademici forse no, perché aveva soggezione di
Pagliaro, infatti qualunque cosa dovesse fare riguardo alla sua carriera,
doveva chiedere sempre il parere del maestro. Mentre Walter era introverso,
contegnoso, dignitoso, Mario, al contrario, era estroverso, generoso, aperto.
Raccontava a tutti le sue figuracce storiche. Quando dava le lezioni a Silvana
Mangano per introdurla nel mondo classico - e per questo aveva chiesto
l'autorizzazione a Pagliaro, perché poteva non essere dignitoso che un docente
universitario andasse dai cinematografari - loro ragazzi gli chiesero
l’impressione che aveva avuto, e la sua lapidaria risposta rimase proverbiale: Che
culo! Una volta la diede anche al telefono avendo confuso la voce del
serissimo ed esterrefatto prof. Levinson (?) con quella di Peppe, un suo
vecchio amico d'infanzia! Si sentiva libero, un giovanotto, anche perché non si
era sposato. La Ascioni era una fisima adolescenziale che si portò dietro per
tutta la vita. A quello che lui ha capito, perché di questo non parlava mai,
Mario era innamorato di questa vicina di casa, ma era una cosa più grande di
lui. Forse l’ha recuperata in tarda età...
La pronuncia di Mario
era romanaccia. Ricorda un suo "suggerimento" scientifico sul
raddoppio delle consonanti nel romanesco. I romani danno più importanza alle
consonanti che alle vocali e quando vogliono accentuare, accrescere il
significato di una parola calcano più sulle consonanti che non sul tono o sulla
quantità delle vocali (io te l'ho dddetto!), al che Mario se ne uscì con
un “Davero? Vuoi vedere che c’hai ragione?”. Un’altra volta gli
suggerì l'etimologia del "tressette" dal Trissetto. Lui, premesso che
in linguistica ci sono due elementi, il naso e le prove, gli rispose,
motteggiando Pagliaro con voce cupa: "Si, quadra... ma le
prove...". Agli accademici - osserva Panicali - non piace l'intervento
del dilettante; oberati dalle informazioni perdono l'intuizione. A volte lo
mandava a consegnare qualche fascicolo a Pagliaro, il principale, come
lo chiamava lui. Ricorda che, da buon siciliano, questi aveva un fare
comparesco. Una volta Mario si lamentò che Pagliaro gli aveva carpito un'idea:
"Vedi cosa si ottiene a parlà colla gente...", al che
Pagliaro: "Ma tanto a te che t’importa...". Nell’accademia -
aggiunge Panicali - si discute, non si sa chi ha avuto per primo un'idea: è
come con i brevetti, chi pubblica per primo è tutelato legalmente. Ricorda che
riferì una battuta di Pagliaro sull'idioletto: letto dell'idiota. Una
volta gli disse: “Abbiamo dato un argomento a De Mauro, si è letto un mare di
libri, io tutta questa roba quando me la leggo?”
Mario non concluse né
poteva concludere, anche nei suoi ultimi scritti trapela incertezza. Dopo 10
anni sarebbe stato più o meno allo stesso punto, occorrono i secoli nel mondo
accademico per avere delle scoperte. Chiamarlo "genio" gli sembra
troppo. Finché non si pubblica, non si codifica, la genialità è gratuita. Era
tormentato, spesso mentre si mangiava chiedeva a bruciapelo di pronunciare una
certa frase. Osservava il movimento della mano e muoveva le mani quasi
declamando e ritmando i piedi. Per gli esperimenti preferiva prendere la gente
che non ne sapeva niente, perché non era prevenuta, era più spontanea. Usava un
certo Sgolacchia (?), lui invece essendo abbastanza addentro poteva essere
condizionato. Anche gli strumenti condizionavano troppo, non erano probanti e
per questo rinunciò agli esperimenti. Cercava una regola quantitativa anche per
l'italiano. Leggeva le Rime dantesche cambiando le vocali da aperte a chiuse
(piedi, tempi inglesi). Inoltre era sollecitato dall'esigenza ermeneutica di
chiarire testi poetici (la Divina Commedia, ecc.), per trovarne la chiave di
interpretazione. Erano almeno 6 anni che si era imbarcato in questi studi: se
non aveva ancora pubblicato vuol dire che non era pervenuto... Conferma il
rovello, la stanchezza: infatti quando morì pensò subito ad una trombosi
cerebrale, non all'infarto come disse il medico. Quel giorno era appena tornato
dalla luna di miele e la notizia lo sconvolse: il povero sceriffo -
questo era il soprannome datogli dagli amici - è scoppiato!
Mario aveva un
registratore GBC senza lo stop immediato (il nastro si trascinava per un po') e
ne voleva comprare un altro con un tasto per bloccare istantaneamente il
nastro. Lui lo aveva, glielo prestò e Mario glielo ruppe. Ricorda l'esperimento
dei numeri gettati di nascosto: lo scopo era di distinguere il vero dal falso,
ma c'era sempre quel problema, cioè la falsità del soggetto
"esperito", che sapendo in anticipo trattarsi di un esperimento,
automaticamente era falso, parlava falso, in modo falso. Mario allora cercava
per i suoi esperimenti una persona ingenua, semplice, che si abbandonasse
completamente. Preferiva un amico, ufficiale del commissariato, al quale queste
cose non interessavano, che ripeteva passivamente, e che però aveva un accento
rilasciato, da meridionale. Non usava lui, come già detto, perché collaborava
troppo. L'esperimento ideale andrebbe fatto come la Candid camera, però poi
bisogna fare i conti con l'accento regionale e con la personalità del soggetto.
Lui cercava invece il nativo, il primitivo, l'ingenuo, il “vergine”, quindi
sperimentare queste cose è difficilissimo e inoltre non sa fino a che punto
possano essere teorizzabili i risultati. La ricerca di Mario non lo
interessava, né lo convinceva, perché le variazioni di pronuncia dipendono da
mille fattori aleatori. In latino la quantità era fissa, è segnata nel
vocabolario, e chi la sbagliava provocava risate e scandalo. Nella teoria di
Lucidi la tensività può variare per fattori estranei alla parola. Le sue
variabili riguardano frasi "sotto campana”.
Una volta Mario doveva
assentarsi qualche giorno per motivi di studio e la sua amica voleva seguirlo.
Al diniego di Mario, per la presenza di gente importante che l'avrebbe notata,
lei disse "Mi camuffo". L'episodio Mario lo raccontò a Pagliaro e disquisirono
sull'esistenza dei verbi muffare e uffare. Aveva soggezione di
Pagliaro, ne apprezzava la tecnica di ricerca, per esempio dei saggi di critica
semantica (se li lesse, se li fece leggere). Mario a questo tipo di lavoro non
era portato, pensa per impedimento pratico, per cui pensava molto ma scriveva
poco. Gli dico l'obiezione che secondo me Lucidi faceva a Pagliaro: non critica
“semantica” ma critica del testo, perché il sema è tabù, solo l'iposema è
analizzabile...
Per Mario l'iposema
era una questione di vecchia data, ormai assodata, era convinto della cosa. Poi
considerò quell'articolo sull'iposema come un episodio accademico, forse perché
accettava qualche obiezione da parte di Pagliaro, qualche riserva c'era. Pensa
che secondo Pagliaro il discorso non si esauriva lì... Dal '50 in cui Mario
scrisse l'iposema, nessuno se l'è filato, a causa dell'ostruzionismo di
Pagliaro. Le persone più anziane che si ritengono più rotte agli imprevisti
della ricerca snobbano il ricercatore più giovane, cercando di metterlo in
guardia contro i tranelli o le illusioni della facile scoperta. E’ un
atteggiamento quasi paterno, non è il timore dell'ombra dell'allievo. Si
ricorda che Mario gli spiegava cosa era l'iposema: la parola è un sottosegno,
sta all'interno del segno linguistico, è un sottomultiplo del segno linguistico
che è la frase. A Pagliaro non piaceva questo termine, questo "ipo",
che è come di serie B. Invece Mario intendeva un "organo" del segno
linguistico che non ha significato proprio, ma contribuisce a formare il
significato: un ingrediente del sema. Il dissenso di Pagliaro non era solo per
una questione di terminologia, ma era profondamente convinto di questa mancanza
di identità della parola nei confronti del significato. L'iposema non ha un
senso proprio: il senso è dato dal contesto, cosa che si sintetizza nella
frase. Per quello che capiva lui non è che Pagliaro fosse tanto convinto di
questo, ma crede che fosse più che altro questione di chiarimento. Anche lui
quando spiega ai suoi ragazzi questa faccenda lo fa non da tecnico linguista,
ma un po’ da filosofo: la parola dà un'immagine, mentre il segno, la frase dà
una comunicazione. Se io dico "Sole" ho l'immagine del sole, però non
ho comunicato niente, anche se l'interlocutore immagina già l'astro diurno,
come se si mostrasse, soltanto, un disegno del sole...
Mario prese la libera
docenza. Agli esami si portò Italo Cubeddu come amanuense. Cita un certo Pompei
come collega universitario di Mario. Non crede ai contrasti e alle beghe tra
accademici. Sul veto di Pagliaro alla pagina irriverente[12]
pensa che ormai Mario è morto, non gliene viene alcun danno... Tra gli
intellettuali c'è lo stesso atteggiamento tra padri e figli, dovuto al famoso
salto generazionale. Walter, ad esempio, si ricorda De Mauro come studente che
veniva da Mario per consigli sulla tesi e su tante altre cose, ma il tempo è
passato e De Mauro non si può più sentire "riconoscente" verso il
fratello del suo maestro. De Mauro fu devoto finché era studente, ma quando si
affermò, giustamente, si sentì autonomo.
Mario avrebbe
apprezzato il Tototono e l’apparecchietto che ho inventato io. Gli
propongo allora di fare un esperimento sulle frasi: Spunta il sole e Appare
il sole. In forma pacata lui non
le direbbe mai. Comunque la differenza sul sole c'è. Spunta:
eloquio familiare, comune, familiare; Appare: più dotto, più
letterario. Bisognerebbe ripulire (dai toni di realizzazione) e arrivare alla
situazione astratta. Gli chiedo di concentrarsi sulla "o" di sole:
insiste che non può recitarla in maniera normale, in realtà diventa anormale.
In uno dei due casi la o è più accentuata, più alta. Dipende
dall'atteggiamento psicologico. Differenza del valore culturale dei due verbi,
e allora ne risente pure "sole". La differenza è spesso casuale. Per
questo Mario ci incocciava, ci si sgrognava. Per questo non avrebbe mai
pubblicato qualcosa di scientifico e di probante. Chiunque avrebbe potuto
dirgli: dove lo trovi chi parla con tanta precisione. Quando parliamo abbiamo un'infinità
di inflessioni, appunto perché è lingua parlata. Anche nella lettura gli
infiniti toni non dipendono solo dal contesto, ma dal nostro modo di
partecipare.
Ha visto Walter un
anno fa, che quasi si vergognava di essere visto in quelle condizioni:
l'enfisema polmonare non gli permette di parlare e la moglie deve
"tradurre". Una dignità un po’ fuori luogo, perché lui, Oscar, fa
quasi parte della famiglia. Anche con lui Walter ebbe a lamentarsi del lavoro
sprecato, sottovalutato, ma non si sente di condannare gli accademici, che
avevano in cantiere altri lavori. Semmai si può sperare nell'interesse delle
generazioni posteriori di ricercatori.
Paroli, Maria Teresa (26.4.90)
Come studente seguì le
esercitazioni di fonetica (indoeuropea) di Lucidi, 15 ore. Lucidi si stancava,
faceva molti esempi, anche storici, da Omero, li trascriveva nell'alfabeto
fonetico internazionale. Queste esercitazioni erano utilissime per le lezioni
di Pagliaro, che le dava per scontate e durante le quali nessuno aveva il coraggio
di chiedere un chiarimento. Mi parla soprattutto del suo maestro Antonio
Maria Cervi, molto affine a Lucidi perché non pubblicava malgrado l’enorme
cultura. Tutti e due selezionavano gli allievi a Pagliaro. Anche Guido Calogero
li apprezzava entrambi. Cervi la mandò da Lucidi per concordare un esame più
approfondito di glottologia. Le assegnarono un’analisi critica tra Meillet,
Pagliaro e Saussure, sui contrasti dell'interpretazione saussuriana
significante/significato. Pagliaro, infatti, non condivideva certe idee di
Saussure, ad esempio il concetto di "cane" per un amatore di cani,
come Pagliaro, contiene elementi extralogici. In questo suo
"triplice" e temerario esame in un solo giorno discusse le differenze
tra Meillet (introduzione studio lingua indoeuropea) e Pagliaro ed ebbe due 30
e lode, di cui uno per intercessione di Lucidi. De Mauro sostituì Lucidi nelle
esercitazioni. Conferma il contrasto Lucidi/Pagliaro negli ultimi anni. Non sa
dirmi niente sulla tensività né ha ricordi di frasi o esperimenti lucidiani.
Può darsi benissimo che abbiano offerto a Lucidi la libera docenza al posto di
Pagliaro, quando durante l'epurazione alla caduta del fascismo, questi stava
cadendo in disgrazia. Lucidi, che avrebbe potuto fargli le scarpe, nobilmente e
generosamente rifiutò e il passato di Pagliaro, che aveva insegnato e scritto
libri sulla teoria del fascismo, fu rimosso. Consiglia però di controllare
l'anno in cui Lucidi prese la libera docenza. Il libro postumo di Lucidi uscì
solo per l'interessamento di Belardi. Mi consiglia di mandare i miei lavori a
linguisti non romani, ad esempio Mastrelli e Pellegrini.
Era dipendente di
Mario alla radio, assieme a Bausani, durante l'ultima guerra. Lucidi era
caposezione delle trasmissioni al Medio Oriente. Spesso facevano passeggiate a
Villa Borghese. Camminava quasi barcollando, era tarchiato. Pensava troppo,
troppa interiorità. Soffriva di insonnia e faceva delle equazioni per
addormentarsi. L’idea di una biblioteca interna nel suo cervello la trova molto
calzante. Il padre era ferroviere,
avevano una casa modesta e disordinata. Lucidi era molto teorico, più che
pratico. Sapeva organizzare il lavoro e aveva la tendenza a classificare,
categorizzare. Ad esempio Bausani
era “irresponsabile”. Ricorda
la meraviglia di quando "indovinò", sentendogli leggere un monotono
elenco (un comunicato), che lui non aveva simpatia per i tedeschi. Un Buonasera
poi poteva essere detto con intonazioni tali da significare 36 cose. Non ebbe
allievi. Una ricercatrice di Napoli, Vallini, che va spesso a Ginevra, cercherà
Godel o qualcuno che continui gli studi di Lucidi. Alcune persone non gli
andavano a genio, ad esempio la moglie di Raul. Qualche amoruncolo con
studentesse. Un volta gli regalò un saggio, La lingua è..., con dedica,
ma l’avrà perso. Ricorda il prof. Vuolo, di Salerno, amico di Lucidi. Ricorda
Ungaro, un giornalista molto amico di Mario, al Minculpop nel ‘41-’42.
Vacca, Roberto (14.2.85, 15.4.85)
Mi regala una copia
del suo vecchio libro Esempi di avvenire (1965) in cui parla della
trasmissione "tonale" di Lucidi (di emozioni consce e inconsce).
All’epoca ne parlò con Barducci, ma neanche questi ci capì niente. Lucidi
durante la guerra dirigeva la radio di propaganda del regime in lingua armena (?).
Bausani parlava il persiano come un persiano, partecipò anche Ezra Pound,
poi morto in manicomio. Sarebbe opportuno un professore di cinese, come sua
madre (di Vacca), per distinguere i 4, o più, toni del cinese. All’epoca lesse
le bozze della tensività. Non conosce il libro delle opere complete. Mi consegna tre nastri di Lucidi, riversati
nel ‘65, e mi prega di trattarli bene. Vi sono incisi versi di Dante e la
registrazione si interrompe con le parole di Lucidi: "ma si, lascia che
scoppi...". Si rendeva conto di questa vena, di questa arteria che gli
premeva in testa e poi è scoppiata...
Nel secondo incontro
gli regalo il libro postumo di Lucidi e gli dico che i nastri non erano quelli
dei versi di Dante, ma altri ugualmente importanti[13].
L’ingegnere allora gentilmente cerca questi nastri, trova solo una bobina
grande con l’etichetta 1 Lucidi 2/2
riversato il 19.1.65 e me la consegna[14].
Molto probabilmente altri nastri li ha persi durante un trasloco. Gli viene in
mente che potrei parlare con un'allieva di Belardi, Nora Galli de' Paratesi,
che insegna all'Università della Calabria. Di queste cose di Lucidi le parlò
lui quando si stava laureando (verso il ‘62) con una tesi sulla "Semantica
dell'eufemismo", con analisi delle varie parolacce in giro per l'Italia.
Lucidi, che lo considerava un ragazzino, a causa della differenza di età (14
anni), sosteneva che lui (Vacca) pronunciava 267 pensando
inconsciamente a 367, perché ragionava in base 12 invece che
in base 10. Parecchi indoeuropei, non solo europei - diceva Lucidi -, per
ragioni legate allo sviluppo della matematica al tempo dei babilonesi, che
naturalmente ragionavano in base 12 (sistema duodecimale e
sessagesimale), ragionano innatamente o spontaneamente in base 12.
Mi chiarisce che i due numeri sono uguali nei sistemi di numerazione decimale e
duodecimale (100 + 100 + 60 + 7 = 267 ; 144 + 144 + 72 + 7 = 367) e il modo di
esprimerli (duecentosessantasette, trecentosessantasette), che
chiaramente è sempre una somma, non ha a che vedere con la
"compostità", che, ovviamente, non è data da somme ma da prodotti[15].
In ogni caso lui queste finezze non le ha mai percepite, ma è sicuro che Lucidi
fosse in buona fede quando diceva queste cose. Era molto fine, una bella mente,
molto sottile, un grande ragionatore...
Lucidi, malgrado fosse
uno studioso serissimo, andava appresso alle donne ed anche con successo,
benché, poveraccio, fosse orribile a vedersi, con una cicatrice in fronte, gli
occhi stravolti, mezzo zoppo. Nel libro lui ha scritto "ragazzetta",
ma poi se n’è anche pentito: quella era la donna di Lucidi, ma non ha la minima
idea di chi possa essere questa donna. Concorda con me che sarebbe utile
rintracciarla, anche se, probabilmente, Lucidi non le avrà detto qualcosa di formale,
ma le avrà solo insegnato a capire la differenza tonale, ad esempio, tra sedici
e tredici. Le sfumature che cerchiamo non si possono formalizzare, le
coordinazioni sono così complicate da essere indescrivibili..., come quando si
impara a suonare la tromba, per pura imitazione di un suono sentito
dall’istruttore.
Lucidi veniva spesso a
parlare con suo padre che era matematico, era linguista, era logico, si è
occupato di tante cose. Venne anche un paio di mesi dopo la sua morte, non ne
sapeva niente. Un'altra strana persona che stava nel gruppo di Lucidi, oltre a
Bausani ed Ezra Pound, è Filippani, professore di sanscrito, e poi Santa
Maria. Riusciva a far andare d'accordo questo strano gruppo alla RAI, al
Minculpop. Era un organizzatore, una personalità abbastanza magnetica, tirava
dietro un sacco di gente. C'è una signora americana che potrebbe dirmi
qualcosa, Iemma, il cui figlio Enzo, grande amico di Bausani, studioso
di turco, morì misteriosamente in Turchia, cadde in mare, trovarono il cadavere
dopo un mese.
Gli dico che del fatto
dei numeri primi l'unica fonte è lui: nei frammenti postumi si parla solo di pari
e dispari. Pensa che sia strano che non l'abbia detto a nessuno... Della
faccenda del "turno" si ricorda vagamente. Una stupidaggine la
ricorda bene: la regola che lui aveva ricostruito con la quale erano stati
numerati i tram e gli autobus di Roma. Si ricordava tutte le liste dei verbi
irregolari. Più che scrivere stentatamente crede che Lucidi dettasse parecchio.
Pensa che quando Lucidi dettava al registratore non leggeva nessun testo, non
poteva materialmente leggere, neanche un suo scritto, sarebbe andato
lentissimamente. Per leggere usava una lente di ingrandimento vicinissima agli
occhi, una cosa penosa. A macchina forse riusciva a scrivere. Non direbbe che
Lucidi credesse in Dio, lo sorprenderebbe... Era molto razionalista e ...una
persona ragionevole! Secondo lui sarà inutile parlare con Barducci, l’incontro
fu molto deludente. D’altronde se non si sa bene che cosa cercare tanto meno si
può sapere come misurarla, sarebbe una ricerca un po' a caso.
[1] L’unica
breve recensione di questo lavoro è apparsa in “Lettera dalla Biblioteca”
dell’Università per stranieri di Perugia (ottobre 1995).
[2]A
causa dell’età, circa 80 anni, e di una recente “muraglia” che le è calata in
testa in seguito alla morte della sorella Renata, a cui era molto legata.
[3]Mi
mostra un paio di vecchie foto.
[4] Purtroppo
non sono riuscito a intervistarli.
[5]L’ing.
Bordoni nega la circostanza. All’incontro era invece presente l’ing. Roberto
Vacca.
[6] Io
mi sono interessato a Lucidi dopo aver letto il libro di Bausani Le lingue
inventate. Roma 1974.
[7]La
memoria non l’aveva tradito del tutto, perché aveva omesso solo il primo
capitolo. Vedi p. 40.
[8]Nei
tre incontri avuti, a parte la telefonata del 10.9.85, il professore farcì
l’intervista quasi con lezioni di linguistica, che io riassumerò come posso,
scusandomi per le inevitabili imprecisioni o inesattezze.
[9]Il
prof. Filippani mi ha parlato di tantissime cose, molto interessanti, ma sono
costretto a riportare solo quelle sicuramente attinenti a Mario Lucidi.
[10]Sicuramente
la cosa interessava Lucidi in rapporto alla sua tesi di laurea.
[11]I
ricordi di Oscar Panicali, insegnante di scuola media, sono una delle fonti più
complete e genuine. A volte i fatti sono marginali o frammisti alle opinioni,
non sempre condivisibili, dell’intervistato, ma ho ritenuto doveroso riportarli
integralmente, salvo trascurabili ritocchi formali, sicuro che il lettore saprà
filtrare quanto di prezioso la testimonianza contiene.
[12]Il
primo capitolo di Ancora sul disdegno di Guido. Vedi p. 40.
[13]Sono
quelli da cui ho tratto “Un inedito di Mario Lucidi”, Rassegna italiana di
linguistica applicata, XXV, 1992, 1. Sull’importanza di tale lavoro, o di quello
egualmente postumo sulla tensività, nessuno, a quanto mi risulta, si è
pronunciato. La mia opinione, per quello che può valere, è che non si tratta di
normali contributi scientifici ma di scoperte capitali sulle quali i linguisti
dovrebbero concentrare gli sforzi o, almeno, indirizzare la ricerca
sperimentale.
[14]In
questo nastro c’è, tra l’altro, un indescrivibile, ossessivo studio del verso
“parlerei a quei due che insieme vanno” (Inf., V, 74), recitato, direi
quasi visceralmente, da Lucidi o fatto ripetere alla Ascioni infinite
volte con “intenzioni” e toni diversi. Un po' prima della fine c’è un, per la
verità poco chiaro, “Bèh, lasciamolo scoppiare”, ma la registrazione termina
con un sereno “fermiamoci”.
[15]La
cosa è meno chiara di quanto possa apparire. Delucidazioni potrebbero forse
venire dalle osservazioni di Saussure sul meccanismo della lingua (CLG,
pag. 176 dell’edizione francese del 1922, sulla quale si è formato ed
arrovellato Lucidi).