Paolo Orano - Lettere
mozze
Corriere della sera, 30 Nov. 1936 – XIV e Bollettino AIS 1937
La sua scrittura fian lettere mozze
Che
noteranno molto in parvo loco
Dante non aveva alla mano
né una penna stilografica né un lapis. Assalito dall’ispirazione durante il
ventennio di affannoso vagabondaggio, non gli era
concesso altro mezzo, per trattenerla, che il nodo della memoria, l’intenso
atto di concentrazione sul quale si attanagliava il suo spirito, smagrendo il
viso, incatenando il gesto, artigliando lo sguardo, quello che slarga i
paesaggi e vede nei secoli. Forse, andando nella vertigine dei suoi tre mondi, calpestando
quello che condannava, una cadenza lo sorprendeva, una parola, poche lettere
che per lui e per l’immortalità si sviluppavano in undici sillabe necessarie,
in una terzina, una parola folgoratrice che agiva da
leva ad un episodio, ad un canto. Dante, stenopsichico.
Ove gli fosse occorso sotto mano foglio e penna, nell’angolo semibuio del
refettorio conventuale dal duro pane e dal vinello acidetto
o al tavolo di scriba nell’atrio signorile in cima alle altrui scale,
nell’attimo, perché non cadesse dalla memoria il baleno della visione, avrà
vergato sue lettere mozze, pochi segni rapidi in parvo
loco, le cifre del suo genio algebrico. Con la mente desiosa
noi le vediamo quelle carte della prima redazione del Poema. Sui margini, poche
parole mozzate, sbandate dalla repentinità quasi maniaca: - Nullo amato…
perdona – Figlia del tuo Figlio – Plenilunii sereni – Inferno… gran dispetto – Cara immagine paterna –
Corpo… altra bara – Fiorenza… cerchia antica…
La memoria è stenopsichica di per se stessa.
Forse è per questo che il linguaggio troppo esplanato
I momenti di emozione intensa abbreviano, anzi mozzano
Quando pensiamo al di
fuori di noi, e, anche tacendo, parliamo, andiamo intorno alle cose svolgendo
il nostro personale vocabolario come palpando accarezzando tentando le cose
perché reagiscano e ci suggeriscano la parola che ci
manca. Ma quando ci pensiamo o vogliamo pensare il
nostro pensiero, via via le parole ci mancano, quasi
assorbite dallo stato mistico mentale. Spiritus
evanescit. Il pensiero non respira più. Il
suo aere è il mondo delle cose che ci hanno imposto le parole. Le lettere mozze
germinano in contatto col mondo.
Nella vita s’incomincia
prolissi, più fonici che mentali; s’incomincia discorsivi per arrivare allo stenopsichismo, a un
pensare nostro, di nostra fattura, che è riassuntivo, schematico, formulativo. Lo spirito progressivo dà sempre maggior
valore e significato alla parola sino a renderla aderente alla cosa e alla azione. Nei poeti cerchiamo il verso essenziale e per
un verso solo consacriamo in noi un canto, un poeta. Nei troppi versi – perché
lontani troppo dalle lettere mozze che notano molto in parvo loco – sentiamo sperduta la personalità
dell’autore. Le parole si allontanano da noi, si riducono
ad una velleità fonica. Non vi troviamo più le poche che dicono molto, che
esprimono l’immediato e l’assoluto che la nostra mente esige. Verità e bellezza
hanno ansia di unità. Un pensatore non s’incide in
un’epoca e nella memoria della gente se tutto il suo sistema non si può ridurre
ad una battuta stenopsichica. Quel che interessa e si
vuole è la sigla, la cifra di un sistema, di una grandezza, di una celebrità.
La stenografia è riuscita
nell’impresa di ridurre al minimo la rappresentazione scritta della parola.
Lettere mozze sulla carta, come lettere mozze nel pensiero. L’azione dello
scrivere può dunque farsi brevissima di contro al pensiero parlato che non è
breve. Si comincia a desiderare un linguaggio stenofonico
che meglio risponda alla esigenza stenopsichica
del nostro tempo. L’enciclopedismo, perché riassuntivo e schematizzatore,
poteva far prevedere un’era spoglia del troppo delle parole; ma sopraggiunsero
le assemblee parlamentari e le loro gare oratorie inevitabilmente ostruzionistiche
perché i partiti si servono della parola per sopraffarsi scambievolmente e,
proprio sul nascere, la stenografia dovè asservirsi
alla verbosità, all’eloquenza, al bociare dei
demagoghi. La libertà non dette più un attimo di requie alle orecchie della
gente e alla penna degli stenografi. Ma le cose
fattesi più grandi degli uomini avrebbero col tempo deciso di una reazione
contro la verbosità, contro l’amplificazione oratoria.
Dalla metà del secolo
passato comincia la parola a ribellarsi alle parole. La vita s’era arricchita
di troppe cose nuove. Le parole diventavano un ingombro e la parola esatta e
restituita al suo valore essenziale poteva rappresentare ed esprimere tutto un
mondo di presupposti. Si poteva adesso finalmente dire sottintendendo e,
dunque, suggerire in cambio di descrivere e raccontare, perché la modernità con
le sue macchine, l’accelerato ritmo dei viaggi, dell’informazione, del sapere,
del vedere, dell’udire, del sentire, con la centuplicata esperienza delle cose
e delle impressioni, aveva bisogno di ridursi alle parole che subito dicono. Accennare basta per svegliare la visione e tutto un
accennare, un suggerire è la lirica del poeta de “L’apres-midi
d’un faune” al quale si deve più e prima che ad
ogni altro contemporaneo la rivalutazione delle numerose capacità di
suggerimento che la parola possiede.
Il tentativo famoso del
lirico francese anticipa sul piano della più raffinata estetica l’avvento dello
slogan estetico, la brevissima frase, l’unica parola che riassume
i caratteri delle cose, degli usi, dei costumi nuovi, così radicalmente
improntati di meccanesimo, di cinematografia, di
sport, di radio, di velocità, di diversità, di arditezza,
di prontezza. Slogan, il grido di guerra scozzese, passa a
significare la vita-riassunto, il dialogo sillabico, il comando che non è più
che un gesto e una voce, il linguaggio tecnico dell’operaio specializzato,
dell’autista, del radiotelegrafista, degli aviatori sul campo. Slogan
e cioè presupposizione di cose sapute, di fatti e
regole convenute, di una esperienza e di una conoscenza sottintese, di tutto
ciò che non si può, non si deve ignorare e che sarebbe ridicolo descrivere
insegnare domandare. I bimbi stessi si intendono tra
loro, a proposito di un’automobile o di un’automobile o di una partita di
calcio, con poche parole convenzionali. Caricatura e umorismo odierno calcolano
a colpo sicuro sul doppio senso sottinteso. Slogan:
una parola, una voce, per indicare, anzi per rappresentare un tipo. Slogan
il ridere nuovo a una brevissima espressione ed è
questo forse il capo di più evidente stenopsichismo,
perché dall’immediatezza del riso si giudica la prontezza dell’intelligenza.
Poche lettere mozze debbono bastare a risvegliare
nell’attimo il giuoco dei sottintesi e dei doppi sensi.
In questo caso le lettere
mozze, da note a servigio della lingua scritta o parlata, ne prendono
il posto e diventano gergo, inevitabile conseguenza di una vita in cui l’uso
delle cose, specie della macchina, abolisce la curiosità intellettuale delle
cose stesse, più forti di chi vive, tanto vero che il rischio a cui espongono
fa passare in seconda linea il senso medesimo della conservazione della vita.
Alla luce di questa
irresistibile sempre più vasta trasformazione del linguaggio e quindi del
pensiero, si direbbe che lo stenopsichismo intenda
mettersi al passo con
Sono le lettere mozze
della nuova ingenuità imperterrita da cui trarrà chi sa quali motivi di
bellezza la parola degna di questa età.