M. Lucidi - La lingua è…
Cultura Neolatina 1946-47, p.p. 81-91
Riconoscere superati gli schemi tradizionali in cui si
suole impostare un problema, sentire la necessità di battere vie nuove e intravvederle anche, queste vie, più o meno vagamente, è
certo un merito grande; ma se a ciò non si aggiunga un adeguato rigore logico e
un assoluto rispetto per le esigenze specifiche del problema, in modo da non
piegare mai queste a idee preconcette, e se, soprattutto, l’entusiasmo prende
qualche volta il sopravvento su l’obiettività, allora il novatore rischia di
mescolare le nuove idee che bandisce con tutta una serie di falsi concetti,
destinati a pesare notevolmente, e in maniera negativa, sullo sviluppo della
propria scienza: perché o il lettore si lascia prendere dall’entusiasmo ed
accetta in blocco buono e cattivo, con le conseguenze che è facile immaginare,
o più spesso, e specialmente con l’andar del tempo, le evidenti manchevolezze,
provocando nei riguardi di trattazioni simili una crescente diffidenza e un
vivo senso di disagio, stornano da un esame coscienzioso, accurato e definitivo,
che permetta di stabilire una volta per sempre l’entità degli errori e
soprattutto di sceverare e sfruttare opportunamente, a fini scientifici, gli
elementi veramente fecondi e innovatori.
Qualcosa del genere è avvenuto, specie in Italia, per
le teorie linguistiche del Vossler e del Bertoni, e ha fatto molto bene Giovanni Nencioni,
nel suo recente libro Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio (Firenze,
Nuova Italia, 1946), ad approfondire, anzitutto questo argomento, prima di
entrare nel vivo della questione che si era proposto. Con ciò, oltre a crearsi
una base sicura per la sua indagine ulteriore, ha reso un segnalato servigio a
tutti noi, offrendoci una critica sobria, ma convincente e accurata, delle
idee dei due studiosi, in modo che ne balza fuori quanto vi è di originale, ma
ne viene allo stesso tempo messo a nudo, con assoluta obiettività, tutto ciò
che vi è di approssimato e di incoerente.
Questa esposizione, che occupa i primi capitoli, dà
anche, come dicevamo, all’autore modo di impostare il problema con grande chiarezza
e semplicità. Al termine di essa, infatti, sgorga fuori, sia pure ancora per
via intuitiva, una conclusione chiara, inequivocabile: è necessario riconoscere
nella lingua una realtà oggettiva, sia pure di natura particolare, che il
linguista, e solo lui, deve indagare con mezzi e metodi propri. E di qui,
naturale, l’esigenza di definire in termini precisi che cosa sia questa realtà,
di garantirsi dal pericolo che la definizione non sia “un postulato o
un’intuizione o un’induzione più o meno provvisoria” (p. 84).
Questa esigenza è davvero apprezzabile, specie se si
pensa quanto spesso ne fanno difetto i teorici del linguaggio. Però a queste
premesse rigorose anche qui non corrisponde un procedimento adeguato. Ciò
appare evidente sol che si dia, grosso modo, uno sguardo al seguito del
ragionamento. Infatti l’A., dopo aver rapidamente passato in rassegna le varie
correnti linguistiche, ed essersi sempre più persuaso attraverso questo esame,
del fatto che la lingua, in virtù della sua natura sistematica e
istituzionale, è una realtà incontrovertibilmente
oggettiva, istituisce (Cap. X) un parallelo tra lingua e diritto, onde giustificare
maggiormente tale istituzionalità, per passare poi,
nel capitolo seguente (l’ultimo), a precisare l’essenza e la natura
dell’istituto lingua. Ciò significa ricadere nel solito difetto di poca
rigorosità, che, come già detto, si nota in tante opere consimili. Si descrive,
cioè, senza definire. Per rendersi esatto conto di questo è necessaria qualche
considerazione.
Definire, è risaputo, significa individuare in maniera
inequivocabile un certo aspetto della realtà e dargli un nome, e solo dopo che
si è definito si può procedere a descrivere. Ora, nella sua forma schematica,
una definizione si riduce alla proposizione: (<X è Y ». Però, non tutte le
proposizioni di questa forma sono naturalmente definizioni; e per esser tali,
bisogna che siano equivalenti all’altra: « Daremo a Y il nome X ». Ciò va
tenuto sempre presente, perchè, qualche volta, dalla forza insita nelle parole,
si è invece portati a gabellare per definizione quella che è descrizione o, e
ciò è ancora peggio, quello che vorrebbe esserlo ma non lo è, perché la
definizione non si è ancora data.
Per venire al concreto e non allontanarci troppo
dall’argomento, osserviamo, ad esempio, quanto si legge quasi subito al
principio, proprio in una recensione a questo libro: «il linguaggio è creatura,
ergon, è creazione, energeia?
— Tali le domande clic si ponevano allora, tali le scelte che ci si
propongono oggi ancora ».
Porsi domande simili e scegliere in base ad esse una
risposta, non importa quale, non significa dare una definizione, perché rimane
aperto il problema: che cosa si sia chiamato lingua. Infatti, in generale, una
proposizione come questa: « A è B » può avere due valori: o può
significare che chiameremo A l’ente B, e allora è una vera definizione (a
patto, s’intende, che B sia inequivocabilmente individuato); o che l’ente A ha
una determinata proprietà B (si prescinde intenzionalmente dal caso di A ente
primitivo, che qui non interessa). Ma questa seconda affermazione non si può
più chiamare definizione e presuppone che A sia già stato definito, altrimenti
di esso non abbiamo alcuno specifico particolare, e anzi il ragionamento non è
valido, perché non si è in grado di affermare proprietà di un ente non
definito. Ciò è fondamentale e del resto è molto chiaro, e se qualche volta,
come dicevamo, non se ne tiene conto, questo avviene per il fatto che noi ci
troviamo dinanzi a parole, le quali, nella loro notorietà e per esserci
familiarissime, assumono falsamente l’aspetto di realtà già definite. Così, se
noi affermiamo: il linguaggio (la lingua) è ergon,
è evidente, in base a quanto abbiamo detto, che questa non è una
definizione, perchè siamo lungi dall’aver individuato una certa realtà e averle
attribuito il nome di linguaggio o lingua, e se vogliamo pensare al secondo dei
due significati della proposizione, ci si presenta spontanea la domanda: e la
definizione ? Qual è propriamente la realtà a cui abbiamo dato il nome di
lingua? In effetti, i due procedimenti, quello del definire e quello del
descrivere, debbono rimanere nettamente distinti, e, come è naturale, il primo
deve precedere il secondo, e se il primo manca, i problemi a esso inerenti si
riaffacciano inevitabilmente di continuo nel secondo, compromettendone in modo
irrimediabile la linearità.
Se ora, alla luce di quanto osservato, riprendiamo a
considerare i ragionamenti del Nencioni, dei quali
abbiamo già fatto cenno, appare intanto chiaro che la conclusione a cui gli
permette di giungere l’esame delle varie correnti linguistiche, e poi,
soprattutto, il parallelo tra lingua e diritto, non può aspirare a essere una
definizione. Ché, se in base a questo parallelo, si afferma che la lingua è un
istituto, l’affermazione, per essere valida, presuppone che si sia definita
esattamente la realtà a cui si dà il nome di lingua. Infatti, predicare che
essa è un istituto non equivale davvero a darne la necessaria individuazione, a
coglierne lo specifico, quando esistono tanti altri istituti che non sono la
lingua: ché anzi, se le analogie tra lingua e diritto (istituzionalità
per eccellenza) sono profonde, esistono per altro diversità altrettanto
profonde e di natura sostanziale (ci sarebbe piaciuto vederle messe in evidenza
accanto alle analogie), le quali consigliano una particolare cautela nello
stabilire il parallelo. Per rendersene conto, si pensi, ad esempio, quanto sia
difficile stabilire se in un raffronto il legislatore vada messo sullo stesso
piano di chi effettivamente scrive o parla, o piuttosto del grammatico.
Ma non è questo che qui ci preme. Il fatto
fondamentale è l’altro, che cioè anche qui, come al solito, si giunge a una
affermazione che, considerata ormai come vera definizione, è invece solo
descrizione, senza che la realtà descritta sia stata definita. Nè si può obiettare che qui si sia ancora in sede puramente
giustificativa. Stanno a garantirlo frasi come questa: ... in quanto si
riconosca alla lingua, come lingua. la natura di istituzione » (p. 157).
Infatti, dire “lingua come lingua” equivale a voler
precisare che con la parola lingua si vuole intendere proprio quella
realtà ben determinata che si è già definita, e non altra. Del resto, poi,
questa posizione si considera come già acquisita nell’ultimo capitolo, dove si
continua sulla stessa via. Basta osservare le parole con cui si apre: «La
molteplicità delle concezioni . . .di quell’unica
realtà che si designa con la parola lingua…” — E chiaro che qui quest’ “unica realtà” o si considera come qualcosa di già
definito e il problema che rimane da risolvere è quello di una concezione
adeguata. Ma basta forse l’esistenza della parola lingua per esimerci
dalla definizione? Evidentemente no. È quindi
naturale che l’indagine proceda al rovescio e l’autore, anziché porsi lui in
atteggiamento assolutamente libero dinanzi alla realtà e individuarne e nominarne
aspetti secondo le esigenze e natura della medesima, si avvicina ad essa spinto
dalla necessità di trovarvi quel qualcosa di apparentemente definito clic si
chiama lingua, e di concepirlo in un modo adeguato. Ciò, com’è ovvio, porta a svisamenti e limitazioni nella concezione della realtà.
Seguiamo infatti più da vicino il suo ragionamento.
Egli prende molto opportunamente le mosse dall’atto
linguistico concreto. E con procedere felice lo esamina non solo dal punto di
vista del parlante, ma anche da quello dell’ascoltatore, cioè nella sua
concretezza quale atto ad un tempo espressivo e ricettivo, rilevando a tal
proposito che in esso non tutto è comunicazione2, ma qualcosa rimane
incomunicato, « cioè o unicamente espressione del
parlante o, dalla parte dell’ascoltante, assenza di impressione o
interpretazione erronea”.
Osservato quindi che l’atto linguistico (da parte sia
del parlante, sia dell’ascoltante) implica la messa in funzione di un certo
sistema linguistico, egli mette in luce un fatto della massima importanza, già
osservato dal Rogger3, che però solo qui vien
posto nella giusta evidenza, e cioè che tale sistema linguistico non si
identifica con la lingua quale entità collettiva (la desaussuriana
langue), ma con la lingua individuale: cioè, di caso in caso, con quel
sistema linguistico che vive allo stato latente in ciascun individuo.
Ecco dunque che l’atto linguistico appare o come il
contatto di due cerchi monadici » (i due sistemi
linguistici latenti nel parlante e nell’ascoltatore). Infatti, ragiona il Nencioni. il destino naturale dell’atto
linguistico è la comunicazione: la sua essenza è, quindi, la c o m
p r e n s i o n e nel senso più lato. L’attuarsi di questa comprensione
postula, tra i vari sistemi linguistici individuali. un’inerenza,
«un’unità>>, «in cui pare si ritaglino le varie lingue individuali”: la
lingua come entità superindividuale, insomma, cioè un istituto alla cui
costituzione hanno cooperato i singoli atti linguistici tipicamente bilaterali.
Ora, non si può fare a meno di approvare senza riserve
quanto si dice al riguardo della lingua individuale, che trova finalmente un
riconoscimento adeguato, benché, mi sembra, esageri il Devoto quando vede in
questo riconoscimento il nucleo dell’opera (ché, per l’autore, il concetto di
lingua individuale non è una meta, ma solo una tappa, un anello di
congiunzione). Ma l’asserto che l’essenza dell’atto linguistico è la
comprensione mi sembra al tutto arbitrario, e in nessun modo rispondente alla
realtà. E ciò non sotto il punto di vista estrinseco dell’eventualità
che manchi più o meno apparentemente l’ascoltatore, ma per una ragione
profonda, sostanziale, che investe proprio la natura dell’atto stesso.
Anzitutto, oltre e più che di comprensione si dovrebbe
parlare, caso mai, mi si lasci dire, di autocomprensione,
nel senso che chi parla, se veramente parla e non si lascia andare a sconnesse
articolazioni al tutto istintive, deve inevitabilmente realizzare nell’atto
linguistico un mondo di valori presente alla sua coscienza. Ma anche questo è
un fattore estrinseco; comprensione, autocomprensione,
non sono che aspetti unilaterali, estrinsecazioni parziali, del carattere
veramente essenziale che contrassegna l’atto linguistico, individuandolo inequivocabilmente.
Tale carattere appare evidente a un esame attento di quella particolare
attività espressiva che è l’attività linguistica. Questa attività si realizza
in un particolare tipo di atti espressivi: l’atto linguistico, il quale si concreta
normalmente in una sequenza fonica significativa, cioè in un segno fonico (lingua scritta e inespressa non sono che sottospecie). Tali segni sono
determinate realtà oggettivamente rilevabili; da esse e soltanto da esse si
possono prendere, ed è giusto che si prendano, le mosse per qualunque indagine
su questi problemi. Ora, questi segni non ci appaiono come un tutto
inscindibile e inanalizzabile, quale sarebbe, ad es.,
un gesto, ma sono, in ogni caso, segni complessi che constano di più
ingredienti: ma, si badi bene, segni complessi e non complessi di segni.
Né questa precisazione è superflua, ché troppo spesso,
per non dire sempre, la forza della tradizione porta a considerare parole, morfemi,
ecc., gli ingredienti, insomma, dell’atto linguistico (per lo meno i più
vistosi), come segni, come entità significative (e di conseguenza
implicitamente l’atto medesimo come il complesso da essi risultante). Si pensi,
ad es., all’espressione tanto usuale: “la parola è
l’unità significativa per eccellenza”. Questo è un errore. È vero, attività
linguistica è attività espressiva; in questa attività creatrice, primaria,
propria dell’uomo in quanto uomo, si risolve sempre un qualsiasi atto linguistico;
ma, non bisogna dimenticarlo, un atto linguistico, non una o più parole, mai
una o più parole come tali; non in quanto proferisce delle parole, ma in quanto
proferendole realizza nella sua compiutezza un atto linguistico, chi parla si
esprime; e non nelle singole parole proferite in sè e
per sè, ma nella sua compiutezza l’atto linguistico
realizzato è un segno che significa ciò che è stato espresso. Dunque, l’atto
linguistico, e solo esso, è l’unità significativa per eccellenza, consti di una
o più parole, e quando in una sola parola viene realizzato, questa cessa di
essere una parola.
Precisato questo, torniamo a quanto già constatammo.
Dicevamo, dunque, che l’atto linguistico non è un tutto inscindibile e inanalizzabile, ma è in ogni caso un segno complesso, che
consta di più ingredienti. Le entità in cui tali ingredienti si concretano
(parole, morfemi, ecc.) non sono, come abbiamo visto, entità significative
autonome, che in questa loro qualità espletino una determinata funzione
nell’atto linguistico; sono invece semplicemente entità che funzionano si in
una sfera significativa, le quali però repetono tale caratteristica proprio dal
fatto di funzionare in essa sfera, sono cioè reali come entità funzionanti con
una determinata funzione solo quando e in quanto funzionano nel suo ambito, sicchè la loro natura, la loro essenza, è appunto in questo
funzionare in un ambito superiore (l’atto linguistico) e d’altra natura
(significativa); in questa loro natura, in questo particolare modo di esistere
(che è del resto, si è visto, l’essenziale ed esclusivo), esse tra-scendono, e
ciò è implicito nella loro essenza, la singola realizzazione, chè tale realizzazione ne presuppone altre similari, non
identiche, di cui essa è il riflesso, e in altre, in generale, è destinata a
riflettersi; d’altro canto, esse, all’atto del funzionare, portano seco un
elemento di individuazione, consistente nel fatto che sono proprio esse a
funzionare fra tutto un complesso di altre entità dello stesso genere, del
quale complesso esse stesse fanno parte integrante. In ciò mi sembra consista
l’essenza dell’atto linguistico; esso è un segno complesso, i cui ingredienti
sono entità aventi le caratteristiche che abbiamo descritto.
Tutto ciò, del resto, è nell’ordine delle cose; ha la
sua base nel meccanismo stesso dell’attività espressiva, è il presupposto
perchè ciò che si esprime sia compreso e si possa eventualmente aver coscienza
che lo può essere, trova il mezzo di attuazione nell’apparato psicologico e
fisiologico del parlante, e, per così dire, una consacrazione esteriore di normatività nell’ambito sociale.
In questa caratteristica essenziale, cioè, trovano
posto tutti gli aspetti dell’attività linguistica, dall’espressione alla
comunicazione, alla comprensione, tutti i concetti che ad essa si riconnettono,
lingua individuale, lingua collettiva ecc.; e se da uno di questi aspetti, da
uno di questi concetti, si prendono le mosse riconoscendolo come essenziale, è
chiaro che si viene a concezioni unilaterali e a svisamenti
della realtà. Così, se, onde procedere a definire, si assume come essenza
dell’atto linguistico la comprensione, si è portati naturalmente a impicciolirlo e a falsarne
Nè a questa conclusione assurda siamo giunti noi qui per
nostro conto, a dimostrare l’insostenibilità delle premesse, chè l’autore stesso è costretto a giungervi, quando
afferma: “la causa per cui i sistemi linguistici individuali sono partecipi di
una sostanziale unità consiste nel fatto che i singoli atti linguistici,
tipicamente bilaterali, hanno cooperato alla costituzione di una realtà intersubiettiva e quindi superindividuale, avente i
caratteri propri dell’istituzione » (p. 183). Questa è, dicevamo, una
retrospezione al tutto arbitraria, a cui ha costretto l’aver riconosciuto come
essenza la comprensione, la quale, per altro, viene, proprio in virtù di questa
affermazione, ad assumere l’aspetto di fatto secondario.
Ora, la definizione a cui si giunge, lingua come
istituzione, unità (inerenza tra i vari sistemi individuali), non può non
risentire dell’infondatezza della premessa. E se nella sua enunciazione tale
infondatezza non è rilevabile. ciò dipende dal fatto che essa una definizione
non è, e la premessa inesatta ha esaurito la sua inesattezza appunto nel
gabellarla per tale. E in realtà, anche qui si parte dalla lingua come
un’entità postulata o meglio già definita, di cui si cerca di stabilire le
proprietà, che ci si sforza (li giustificare, e proprio perché il ragionamento
è inesatto sembra che con esso si definisca anziché descrivere questa entità.
Ma, in sostanza, la posizione rimane quella iniziale: data la lingua, se ne predica
che essa è un particolare istituto.
A tale posizione equivoca, credo, va attribuita
l’oscurità che pervade le ultime pagine del libro (v. particolarmente p. 183 e
s.). Che tale oscurità non sia un impressione al tutto soggettiva, lo fa
supporre il fatto che il Devoto, nella citata recensione, sembra di questo argomento
non essersi reso conto molto esatto. Egli, infatti, non solo, come abbiamo
visto, riconosce come nucleo dell’opera del Nencioni
l’introduzione, o meglio l’esatta valutazione del concetto di lingua
individuale, ma, ignorando tutto ciò che da tale concetto viene desunto, esce
addirittura in una affermazione come questa: «Ma essa [la definizione di
lingua individuale] illumina anche l’errore di linguisti presi dall’illusione
della collettività permanente dei fatti linguistici e dalla cosidetta
oggettività della loro ricerca».
Nulla si potrebbe immaginare di più lontano da quello
che il Nencioni va affermando (vedi, ad es., p. 184). Egli, infatti, proprio questo intende
provare, che la lingua ha come istituto una incontrovertibile realtà oggettiva
agli effetti dell’indagine, nè più nè meno (e forse più) che quella della lingua individuale.
Se poi il suo ragionamento non è perspicuo e ineccepibile, ciò avviene perchè
la linearità rimane irriducibilmente compromessa dal fatto che, al processo di
descrizione, non è stato premesso quello di definizione, e le esigenze di quest’ultimo si riaffacciano inevitabilmente nel primo; ma
- è necessario, anzi doveroso avvertirlo — questa non è una peculiarità
dell’opera del Nencioni, ma piuttosto, mi sembra, il
difetto fondamentale di tutte le trattazioni sulla teoria della lingua. Anzi,
uno dei meriti del libro sta proprio nel sentire così viva l’esigenza di una
definizione e nel perseguirla con ogni sforzo, sia pure attraverso un
procedimento non adeguato.
Ora, se a questa definizione vogliamo accingerci, è
naturale clic si debbano prendere le mosse da quello che abbiamo riconosciuto
specifico ed essenziale dell’atto linguistico. Tale specifico, vedemmo,
consiste (v. sopra, p. 39) nel fatto che esso è un segno complesso, i cui
ingredienti di complessità sono entità con particolari caratteri, e cioè reali
come entità funzionanti solo quando e in quanto funzionano in un ambito
superiore e d’altra natura, trascendenti in questo particolare modo di essere
la singola realizzazione e repetenti, all’atto del
funzionare, l’elemento individuativo dal far parte
integrante di un complesso di unità dello stesso genere. Per brevità,
chiameremo unità funzionali per essenza, o semplicemente funzionali
le entità di questo genere, complesso cofunzionale
il complesso di cui fanno parte, funzionalità nell’atto linguistico
questo carattere essenziale dell’atto medesimo.
Ciò posto, diremo: sono (chiamiamo) unità linguistiche
le unità funzionali dell’atto linguistico; lingua è un complesso cofunzionale di unità linguistiche; chiameremo infine fatti
linguistici (nè questa precisazione è inutile, date
le larghissime accezioni “ della parola fatto) quanto di costante o di
mutato si rileva nelle unità linguistiche e nei loro complessi cofunzionali.
Definita così la realtà che ci interessa, potremo
tranquillamente affermare che linguista è colui che indaga sulle unità
linguistiche e sui loro complessi cofunzionali, cioè
in generale sulla funzionalità nell’atto
linguistico. E già in questo coglieremo i frutti dell’aver proceduto, innanzi
tutto, alla definizione. Tale funzionalità è infatti una realtà
incontrovertibile; sui generis, ma incontrovertibile, della quale
nessuno potrà dubitare, nè il filosofo nè il cultore di qualunque altra scienza, realtà che non si
può assolutamente identificare con il singolo atto linguistico in quanto lo
trascende, ne è anzi il presupposto, per la quale quindi è necessario un
indagatore particolare che non è nè lo storico nè il filosofo nè l’esteta, ma il
linguista; la peculiare natura di essa imporrà metodi particolari d’indagine,
presenterà, a questa, difficoltà d’ogni genere, ma ciò non potrà autorizzare
nessuno a negare al linguista la legittimità della sua ricerca.
Così cade d’un colpo l’esigenza di giustificare questa
legittimità, esigenza che affiora qua e là quasi ovunque nell’opera di
linguisti e che pervade da cima a fondo il libro del Nencioni,
costituendone quasi il leit-motiv5. Infatti, negare che sia
legittima l’indagine linguistica vorrebbe dire negare la funzionalità nell’atto
linguistico, cioè misconoscerne l’essenza. D’altra parte, il linguista, in
questo modo, limita solo apparentemente ma definisce il suo campo d’azione; egli
non indaga su unità significative (benchè da esse e
solo da esse rilevi i fatti concernenti le unità linguistiche), ma su unità
funzionali in una sfera significativa; ciò non sminuisce la sua indagine, ma la
rende unitaria, la riporta alla sua
vera essenza (chè questo nella
prassi ha fatto sempre il linguista), liberandola da quell’ibridismo
che ha porto il fianco a tante critiche. Sarà poi necessario stabilire il modo
migliore e più adeguato di prendere in considerazione le unità linguistiche;
ciò, in vista della loro particolare essenza, porterà a inevitabili
approssimazioni, a concezioni unilaterali (quale scienza particolare, del
resto, non presenta approssimazioni e concezioni unilaterali?), ma si tratterà
di rendersi conto di queste approssimazioni e concezioni unilaterali, di ridurle
al minimo e di tenerle presenti nelle conclusioni che si trarranno, e
l’esistenza di questo ostacolo non potrà in nessun modo infirmare la
legittimità delle indagini.
Intanto, sarà indispensabile, ma anche giustificato
dalla definizione, indicare con simboli le unità linguistiche; questi potranno
essere considerati sotto due punti di vista distinti, a seconda che se ne tenga
presente in modo particolare o l’uno o l’altro dei due caratteri fondamentali;
infatti, o le unità si vogliono cogliere soprattutto nel loro funzionare e nel
loro riflettersi (diacronia), e in tal caso è la funzione che si tiene
presente, lasciando in ombra l’elemento di individuazione di cui abbiamo
parlato (ciò, per es., avviene se io parlo della parola populus
considerata nel suo funzionare per un certo periodo della latinità) o preme
rilevare specialmente il loro elemento individuativo,
e allora apparranno come termini di opposizione nel complesso cofunzionale (sincronia) e rimarrà necessariamente inapprezzato il loro riflettersi nel tempo (ciò avviene, ad
es., se io considero la stessa parola populus in un determinato momento della
latinità, cercando di rilevarne il valore individuo dalla coesistenza di parole
di significato affine; ma ciò è ancora più evidente nella morfologia). Ora,
l’ambito di validità e i limiti di approssimazione dei simboli linguistici
dipendono dall’aspetto di lingua che si prende in
considerazione e dal maggiore o minore realizzarsi, nei riguardi dell’aspetto
considerato, della tendenza immanente nella lingua a identificarsi con una
realtà oggettiva extrafunzionale.
Gli aspetti che si possono esaminare sono molteplici,
dalla pura e semplice continuità alla maggior concretezza di una lingua comune,
di un dialetto, dei parlari di una determinata
regione, di un sistema linguistico individuale, ecc. Esaminare questi aspetti,
indagarne le caratteristiche, cercare di stabilire il modo più adeguato di
concepirli onde procedere all’investigazione su di essi, rappresentano altrettanti
problemi, non solo legittimi, ma indispensabili, che il linguista deve porsi e
risolvere; ma la loro risoluzione non è più ostacolata dal fatto che non si sia
definita la realtà che si considera. Così, ad esempio, quando si procederà al
riconoscimento che la lingua va concepita come un istituto, non solo la
definizione offrirà i mezzi per farlo senza svisare la realtà, ma
l’affermazione avrà questa volta validità piena e indiscutibile.
Ora, in base alla concezione che ci si sarà fatta dei
vari aspetti della realtà che abbiamo chiamato lingua (in questo caso abbiamo
diritto a esprimerci così), si stabiliranno di volta in volta limiti di approssimazione
e ambito di validità dei simboli linguistici, e qualunque sia la portata di
questi limiti e di questo ambito, purché di ciò ci si sia reso esatto conto, si
potrà procedere tranquilli all’indagine, sia che ci si limiti a semplici schemi
di sopravvivenza (come quando, ad esempio, si mettono a confronto latino e
italiano), sia che si esamini un sistema linguistico individuale, sia che si
segua, nel suo divenire nello spazio e nel tempo, una lingua comune o una
lingua di cultura, sia che si consideri una lingua dal punto di vista
geografico, e così via. Aspetto sincronico e aspetto diacronico troveranno
allora modo d’integrarsi nella considerazione del fenomeno linguistico nella
sua concretezza.
D’altro canto, il linguista ha, nella definizione
data, il criterio più sicuro per stabilire i limiti della propria scienza,
anche quando sembra che essa invada il campo delle altre. Nella sua ricerca,
gli verrà fatto di ricorrere alla psicologia, all’onomasiologia. alla storia
della cultura, alla sociologia, ecc. Ma questi rimarranno sussidi, e la sua
scienza sarà linguistica finché al centro saranno le unità linguistiche, e
alle altre scienze farà ricorso per indagare sulla loro funzionalità. In altre
parole, la linguistica rimane tale anche se, per indagare le unità linguistiche,
ricorre, ad es., alla psicologia: diverrebbe
psicologia linguistica se, invece, studiasse l’apparato psichico dell’uomo nei
rispetti dell’attività linguistica.
In una simile concezione della lingua si dissolve
anche mirabilmente il problema delle leggi fonetiche. I fonemi sono infatti
unità funzionali (con funzione distintiva, o più esattamente individuativa) nell’ambito del significante dell’atto
linguistico: anch’essi, quindi, hanno diritto ad una considerazione autonoma,
sicché le cosiddette leggi fonetiche si risolvono in fatti fonematici
in nulla dissimili da tutti gli altri fatti che interessano le unità
linguistiche d’altra specie; accanto a questi si potrà parlare allora di regole
fonetiche da tenersi presenti come indispensabile orientamento nelle
rispondenze tra parole6.
Ora, sarebbe da chiarire come s’inquadra e come va interpretato
il concetto di storia della lingua, considerato dal punto di vista della
definizione data; ma ciò comporterebbe troppo lungo discorso e ci condurrebbe
fuori dei nostri propositi: chè noi qui non tanto
abbiamo voluto dare una definizione, quando indicare la via che ci sembra necessario
seguire per orientarsi nei problemi teorici del linguaggio — e speriamo che, se anche non si voglia
approvare la nostra definizione, si sia tuttavia d’accordo sul punto per noi
fondamentale, che cioè, prima di procedere a qualsiasi altra indagine, è
necessario rispondere alla domanda: che cosa chiamiamo lingua?
1 G. Devoto, La lingua individuale, in Lingua nostra, VII (1946), p. 73.
2 Il grafico a p. 175 spiega bene l’immagine, come dice il Devoto (rec. cit., p. 75); questi, però, sembra non si renda molto bene conto di ciò che l’A. vuote rappresentare, quando netto stesso momento parta di “periodo più o meno lungo nel quale si realizza la vera comunione linguistica”. Il tratto e—f del grafico vuol rappresentare quanto nell’atto linguistico é comunicazione, non il tempo durante il quale essa si realizza.
3 Kritischer Versuch über de Saussure’s Cours Général, in ZRPh, LXI (1941), pp.
177 ss., 213 ss.
4 Si pensi che
nell’accezione più comune della parola, fatto linguistico per eccellenza si potrebbe considerare persino la
realizzazione di un atto linguistico.
5 Di tale esigenza
appaiono le tracce anche nella citata recensione; in particolare, a p.
6 Di questo problema (nonché dei rapporti tra fonetica e linguistica) ebbi occasione di occuparmi più ampiamente in un’operetta*, che il Nencioni cita come pubblicata quando il libro era già finito di stampare (p. 191), ma che, in realtà, non è uscita se non in dispense universitarie. La citazione erronea ~ dovuta al fatto che il Nencioni era autorizzato, in base a quanto da me gli era stato detto, a pensare, allorché ebbe in mano il manoscritto, che l’opera sarebbe stata prestissimo pubblicata, il che poi non avvenne per circostanze sopraggiunte.