J. M. Guyau – La memoria e
il fonografo
Revue Philosophique de la France et de l’étranger, IX, 1880, p. 319
Versione (letterale) in italiano di
Nella scienza il ragionamento per analogia ha
un’importanza considerevole; e se l’analogia è il principio dell’induzione esso
può anche essere la base di tutte le scienze fisiche e psicofisiche. Molto
spesso una scoperta ha avuto inizio da una metafora. Difficilmente la luce del
pensiero potrebbe proiettarsi in una direzione nuova e rischiarare gli angoli
oscuri dove non è riflessa da spazi già illuminati. Ci colpisce solo quello che
ci ricorda qualcosa, anche se per contrasto. Comprendere è, almeno in parte,
ricordarsi.
Per cercare di comprendere le facoltà o meglio
le funzioni psichiche si è fatto ricorso a
similitudini o a metafore. Qui, in effetti, allo stato ancora imperfetto della
scienza, la metafora è una assoluta necessità: prima
di “sapere” bisogna cominciare a “figurarci”. E così il cervello umano è
stato paragonato ad ogni sorta di oggetti. Secondo Spencer esso ha
delle analogie con le pianole meccaniche che possono riprodurre un infinito
numero di motivi musicali. Taine ne fa una sorta di tipografia che produce
continuamente infiniti clichè e poi
li conserva. Ma questi paragoni ci appaiono ancora un
po’ grossolani. In generale si considera il cervello allo stato di riposo, le
immagini si considerano fisse, come clichè,
e questo è inesatto. Nel cervello non c’è niente di compiuto, non ci sono
immagini reali, ma solo virtuali, potenziali, che aspettano un segno per
tradursi in atto. Bisogna però sapere come si produce questo passaggio alla
realtà. La cosa più misteriosa nel meccanismo cerebrale è la sua dinamica, non
Quando si parla davanti al fonografo le
vibrazioni della voce si trasmettono ad uno stilo che
scava su una lamina di metallo delle linee corrispondenti al suono emesso, dei
solchi ineguali, più o meno profondi secondo la natura dei suoni. Probabilmente
in maniera analoga nelle cellule del cervello sono tracciate in continuazione delle
linee invisibili, che formano i sentieri delle correnti nervose.
Successivamente, quando la corrente viene ad
incontrare uno di questi sentieri bell’e fatti, dove
è già passata, essa vi si caccia di nuovo. Le cellule allora vibrano come avevano vibrato una prima volta, e a questa vibrazione psicologicamente
simile corrisponde una sensazione o un pensiero analogo alla sensazione o al
pensiero dimenticato.
Questo sarebbe allora l’identico fenomeno che si
ha nel fonografo quando, sotto l’azione dello stilo
che ripercorre le tracce scavate precedentemente da esso stesso, la piccola
lamina di rame si mette a riprodurre le vibrazioni che essa ha già eseguito:
queste vibrazioni ridiventano per noi una voce, delle parole, delle arie, delle
melodie.
Se la lamina fonografica avesse coscienza di se
stessa, quando le si fa riprodurre un suono essa
potrebbe dire quello che essa si ricorda di questo suono; e quello che a noi
sembrerebbe l’effetto di un meccanismo assai semplice, ad essa potrebbe
sembrare una facoltà meravigliosa, la memoria.
Aggiungiamo che essa potrebbe distinguere il
nuovo suono da ciò che ha già detto, le sensazioni fresche dai semplici
ricordi. Infatti le prime impressioni si scavano con
sforzo un sentiero nel metallo o nel cervello; esse incontrano più resistenza e
devono quindi impiegare più forza: quando esse passano fanno vibrare tutto più
profondamente. Al contrario, se lo stilo, invece di aprirsi sulla lamina una
via nuova, segue delle vie già tracciate, esso lo farà
con più facilità: scivolerà senza premere (appuyer). Si è detto: la china del ricordo, la china del sogno; seguire un ricordo, in
effetti, è lasciarsi andare dolcemente come lungo un pendio, aspettare un certo
numero di immagini bell’e fatte
che si presentano l’una dopo l’altra, in fila, senza scossa. Tra la sensazione
propriamente detta e il ricordo c’è quindi una profonda differenza. Tutte le
nostre impressioni a causa dell’abitudine si dispongono in due classi: o hanno una intensità più grande, una nettezza di contorno, una
fermezza delle linee che è loro propria; oppure sono più sbiadite, più
indistinte, più deboli, eppure si trovano disposte in un certo ordine che ci si
impone (imputa). Riconoscere un’immagine significa sistemarla nella seconda di
queste due classi. Si sente allora in
un modo più debole, e si ha coscienza di sentire così. Il
ricordo consiste in questa coscienza: primo,
dell’intensità minore di una sensazione; secondo,
della sua maggiore facilità; e terzo,
del legame che lo riallaccia in anticipo ad altre sensazioni. Come un
occhio esercitato distingue una copia da una tela d’autore, così noi impariamo
a distinguere un ricordo da una sensazione, e sappiamo discernere il ricordo
anche prima che esso venga localizzato in un tempo o
in un luogo preciso. Proiettiamo questa o quella impressione
nel passato ancor prima di sapere a quale periodo del passato essa appartiene.
Il fatto è che il ricordo conserva sempre un carattere proprio e distintivo,
così come una sensazione proveniente dallo stomaco differisce da una sensazione
visiva o uditiva. Analogamente il fonografo è incapace di rendere la voce umana
con tutta la sua potenza e il suo calore: la voce dello strumento resta sempre
fievole e fredda, ha qualche cosa d’incompleto, di astratto,
che la fa distinguere. Se il fonografo sentisse se stesso, imparerebbe a
riconoscere la differenza fra la voce che viene da fuori e che gli si imprime con forza e la voce che emette lui stesso,
semplice eco della prima, che trova una via già aperta.
C’è anche quest’altra
analogia tra il fonografo ed il nostro cervello, che la rapidità delle
vibrazioni impresse allo strumento può notevolmente modificare il carattere dei
suoni riprodotti o delle immagini evocate. Nel fonografo voi fate passare una
melodia da un’ottava ad un’altra secondo che si
comunichino alla lamina delle vibrazioni più o meno rapide: girando più
velocemente la manovella uno stesso suono passa dalle note più gravi e
indistinte alle note più acute e penetranti. Non si potrebbe dire
che un effetto analogo si produce nel cervello allorché, fissando la nostra
attenzione su un ricordo all’inizio confuso, lo rendiamo a poco a poco più
netto e lo facciamo per così dire salire di uno o più toni? Questo fenomeno non
potrebbe anch’esso spiegarsi per la rapidità e la forza più o
meno grande delle vibrazioni delle nostre cellule? E
non ha potuto questo fenomeno essere spiegato dalla velocità e dalla resistenza
aumentate o diminuite delle vibrazioni delle nostre cellule? In noi c’è una
sorta di gamma dei ricordi; lungo questa scala le immagini salgono e scendono
senza sosta, evocate o scacciate da noi, ora vibrando nelle profondità del
nostro essere e formando come una confusa “sordina”,
ora squillando con sonorità sopra tutte le altre. A seconda che dominino o recedano esse sembrano avvicinarsi o allontanarsi
da noi, e a volte vediamo allungarsi o accorciarsi la durata che le separa
dall’istante presente. Un’impressione simile è quella che ho provato a 10 anni
e che, rinascendo in me con una nuova forza sotto l’influenza di
un’associazione di idee o semplicemente
dell’attenzione e dell’emozione, mi sembra come se fosse di ieri: è così che i
cantanti producono effetti di lontananza abbassando la voce, mentre per dare
l’impressione di vicinanza non fanno che alzarla.
Queste analogie si potrebbero moltiplicare
all’infinito. La differenza essenziale fra il cervello ed il fonografo è che
nella macchina ancora grossolana di Edison la lamina
di metallo resta sorda a se stessa, non c’è passaggio del movimento alla
coscienza: questo passaggio è la cosa meravigliosa che si compie senza sosta
nel cervello. Questo è sì un mistero, ma meno stupefacente di quanto possa apparire. Se il fonografo si autoascoltasse,
questo sarebbe in definitiva meno strano che il
pensare che noi l’intendiamo (?); e invero noi l’intendiamo, perché le sue
vibrazioni diventano delle sensazioni e dei pensieri. Bisogna dunque ammettere
una trasformazione sempre possibile del movimento in pensiero, trasformazione
ben più verosimile quando si tratti di un movimento
interno allo stesso cervello che di un movimento proveniente dall’esterno. Da
questo punto di vista non sarebbe né troppo inesatto né troppo strano definire
il cervello un fonografo infinitamente perfezionato, un fonografo
cosciente.