Gabriele Buccola
La
legge fisica della coscienza nell’uomo sano e nell’uomo alienato
Archivio italiano delle malattie
nervose e mentali, 1881, p. 82 [n. 60 della bibliografia buccoliana]
Per una sintesi, dello stesso Buccola, vedi
Nell’indirizzo degli studj psicologici contemporanei non vi è accordo di opinioni quando si vuole stabilire la parte che spetta
alla coscienza nell’attività mentale e nei singoli atti che
Il Maudsley
nega qualsiasi coscienza al midollo spinale, i cui atti reflessi
coordinati sono dovuti ad un meccanismo automatico ricco di vie nervose
preformate, innate od acquisite. Nega quasi ogni consapevolezza ai centri sensorio-motori o gangli basilari, nei quali la maggiore
complessità degli atti, per un meccanismo analogo al precedente, si compie per
la maggiore complessità degli eccitamenti dei sensi speciali; ma, quel che è
più, rispetto ai centri corticali, che sono sede delle funzioni psichiche più
alte, il Maudsley, non potendo
mettere in dubbio l’esistenza della coscienza, come accompagnamento per lo meno
solito e frequente dell’attività di questi centri, è intento a far vedere i
modi possibili del loro operare inconsapevole. Ricorderò le sue parole: “Quando, egli dice, tutta l’energia di un’idea si scarica d’un tratto al di fuori
producendo un’azione ideomotrice, la nostra
consapevolezza è nulla o quasi. Perché avvenga la coscienza di un’idea, è
necessario che quell’idea raggiunga una certa
intensità, ma che non sia interamente riflessa all’esterno sugli apparecchi di
moto. La funzione centrale è cosciente sol quando
presenta un certo grado di persistenza e di intensità della corrente, che
percorre il circuito di ideazione” (Maudsley, Physiologie
de l’esprit, Ch. V. Paris, 1879).
Per il Lewes
è tutto il contrario. Mentre il Maudsley,
da una parte, si studia di provare che la coscienza manca non solo in ogni atto
nervoso d’ordine inferiore, ma eziandio nella stessa
funzione intelligente, o meglio che la coscienza, se è un fattore concomitante
dell’attività psichica, non è pertanto il fattore essenziale; il Lewes, d’altra parte, tenta di
dimostrare la presenza della coscienza in ogni atto nervoso, perfino nel
riflesso spinale il più diretto e il più automatico. Per maggior chiarimento
della dottrina del Lewes è mestiere soggiungere che questo insigne psicologo
ammette che la sensibilità sia una proprietà istologica e non morfologica, cioè
del tessuto e non mai della disposizione di esso: la sensibilità è inerente al
ganglio nervoso, come la contrattilità alla fibra muscolare. E però il
sensorio, cioè la sede della sensazione e della coscienza, non si circoscrive
alla massa cerebrale, ma si estende a tutti i centri nervosi; ed è priva,
secondo lui, di fondamento sperimentale l’opinione di molti psicologi, i quali
ravvisano la coscienza nel solo cervello e considerano gli atti compiuti dal
midollo spinale come fenomeni di natura diversa, come fenomeni riflessi dovuti
ad una specie di accomodamento meccanico. Tra l’azione cerebrale e quella del
midollo egli non scorge che differenze di grado, e combattendo sotto il duplice
aspetto deduttivo e induttivo, ossia di ragionamento e di esperienza,
la teoria comune dei riflessi, conclude che se il cervello è l’organo
principale della vita psichica, non è esclusa pertanto la compartecipazione dei
gangli alla coscienza generale (Lewes, Fisiologia
della vita giornaliera. Vol 2°, Cap. IX, Firenze,
1870).
Tra opinioni così divergenti è possibile un
accordo completo, ove si riesca a delineare le
condizioni fisiche del fenomeno importantissimo della vita mentale che è la
coscienza: e questo tentativo è stato splendidamente compiuto da uno dei nostri
più eminenti psicologi, il prof. Herzen,
la cui legge della coscienza (Herzen, Il moto
psichico e
Il postulato che il Bernard tra i primi illustrò con sapienza efficace, e da cui
bisogna partire, è il seguente: il tessuto nervoso non si sottrae alla legge
biologica, secondo la quale nella vita il periodo di disorganizzazione è quello
di attività ed è susseguito immediatamente dal periodo di riparazione. Gli
elementi nervi si disintegrano funzionando e si reintegrano dopo aver
funzionato; di modo che ogni atto nervoso manifesta una fase disintegrativi ed
una fase integrativa. Ciò premesso, l’Herzen
ha dimostrato che la coscienza non accompagna mai l’integrazione e la
reintegrazione degli elementi nervoso, che la coscienza accompagna soltanto la
disintegrazione dei medesimi elementi, che l’intensità della coscienza è
simultaneamente in proporzione diretta con l’intensità della disintegrazione ed
in proporzione inversa colla facilità e colla rapidità onde il lavoro interno
d’ogni elemento nervoso si scarica sopra un altro elemento sensitivo o motore,
centrale o periferico.
Non v’è esperienza possibile per affermare che
la coscienza è collegata alla fase disintegrativi dell’attività nervosa
centrale: chi può guidarci sicuramente è l’analisi soggettiva. L’integrazione e
la reintegrazione dei centri nervosi sono del tutto inconsapevoli: nessuno ha
coscienza dello sviluppo embrionale del proprio cervello, né della successiva
evoluzione dei suoi organi cerebrali, che si compie nella più assoluta
incoscienza come la nutrizione dei muscoli e delle ossa. Una volta sviluppati,
gli elementi centrali entrano, colpiti dalle impressioni incidenti, in
funzione; l’attività disintegra l’organo centrale e lo affatica. La stanchezza
è la misura e l’espressione della seguita decomposizione funzionale, ed il senso
di benessere che risulta dal sonno, durante il quale l’organo centrale si
reintegra, è la misura e l’espressione della riparazione compiuta. Ora, noi
siamo coscienti nella veglia, incoscienti nel sonno profondo: ecco una prima
indicazione del legame, che unisce la coscienza alla disorganizzazione. Questa
intermittenza di attività consapevole sussiste in ogni atto psichico preso
isolatamente. – Ma ogni disintegrazione è cosciente?
Evidentemente no, perché gli atti automatici
sono incoscienti, quantunque essi pure siano accompagnati da processi
disintegrativi. L’analisi però dimostra che sempre e da per tutto, gli atti che
affaticano maggiormente, che danno la più grande quantità di prodotti di
decomposizione, sono i meno automatici, i più coscienti; e che al contrario gli
atti che affaticano meno, che si compiono col minimum di decomposizione funzionale, sono i meno coscienti ed i
più automatici. Sembra adunque che la disintegrazione
non produca la coscienza, se non quando essa raggiunga una certa intensità.
Qui l’esperienza è possibile, guidata ed
illuminata dal controllo indispensabile dell’esame introspettivo. Basta
ricordare le esperienze dello Schiff, le quali hanno sparso immensa copia di luce sui
rapporti della termogenesi centrale con l’attività psichica. Per esse ci vien fatto di apprendere che lo sviluppo di calore è tanto
più considerevole quanto più l’impressione ricevuta dall’animale è adatta a
colpire l’attenzione, cioè a svegliare una viva coscienza di sé; al contrario
questo sviluppo termico è minimo se l’impressione trascorre inavvertita o
quasi, e non sveglia che poco o punto di coscienza. Dagli esperimenti pertanto risulta che gli atti centrali accompagnati dalla coscienza
la più viva sono quelli che inducono una decomposizione più estesa ed una
termogenesi più grande, onde si è in grado di dedurre la prima parte della
formula che “l’intensità della coscienza
è in rapporto diretto coll’intensità della
disintegrazione funzionale” (Herzen, De
l’échauffement des centres nerveaux par le fait de leur activité.
Revue philosophique, 1877).
Ora, quale segno caratteristico si conviene agli
atti centrali accompagnati dalla coscienza la meno viva, o tutto affatto
incoscienti? Una decomposizione ristretta, una calorificazione
ridotta al minimum, e inoltre una
trasmissione relativamente rapidissima. Infatti ogni atto nervoso centrale
esige un certo tempo per compiersi: la ripetizione, l’esercizio, l’abitudine
diminuiscono il tempo fisiologico, come è provato in modo evidente dalla
esperienza. – L’equazione personale è al suo massimo quando l’atto che deve
compiersi è nuovo; essa diminuisce a misura che l’atto si rende abituale ed
automatico, e raggiunge poi il minimum quando siamo in faccia al puro
automatismo e alla incoscienza. Così, per recare qualche esempio, facendo col cronoscopo di Hipp delle ricerche
psicometriche, delle quali terrò al Congresso una
breve comunicazione preventiva, ho potuto sopra di me stesso e di un mio amico
verificare, specialmente nelle percezioni tattili, questo passaggio dal
cosciente all’incosciente nell’abitudine, riducendo per contro gli esercizi, ed
in date circostanze il minimum del
così detto tempo fisiologico di reazione ad una cifra che appena giungeva a un
decimo di secondo.
In questa guisa le azioni automatiche sono
caratterizzate da debolissimi processi disintegrativi e termici, e sopratutto
dalla rapidità del modo con cui si compiono. Donde si deduce quell’altra parte della formula che “l’intensità della coscienza è in rapporto inverso con la facilità e la
rapidità della trasmissione centrale”.
Tale è l’embriologia della legge fisica della
coscienza, la quale scaturisce dallo studio dei fatti psico-fisiologici
senza alcun pericolo di adulterio aprioristico e metafisico. Per non venire a
disamine e a descrizioni particolari diciamo che questa legge generale
comprende l’attività dei centri sensorio-motori e
spinali nelle varie classi zoologiche, e raggiunge nei centri corticali degli
emisferi la sua più completa espressione. Quivi la coscienza (ed è questa forma
che maggiormente c’interessa) è intelligente e volitiva, con nozioni chiare
intorno ai rapporti dell’individuo col mondo esterno; d’onde risulta la
intenzionalità delle reazioni motrici. Questa legge medesima, applicandosi a
qualunque fenomeno psichico volontario od involontario, consapevole od
incosciente, conferma le idee di Herbert Spencer e
fonde in una vasta sintesi le opinioni del Lewes
e del Maudsley. Poiché il Lewes, come dice l’Herzen, intento sopratutto al lato ricettivo dell’attività psichica
ed al lavoro cosciente che accompagna ogni nuova acquisizione, cioè alla
difficoltà della trasmissione centrale e alla disintegrazione persistente, vede
ovunque la coscienza; mentre il Maudsley,
intento specialmente al lato restituivo dell’attività psichica, al lavoro
automatico dei centri già organizzati, cioè alla facilità della trasmissione
centrale e alla fase reintegrativa degli elementi nervosi, scorge dappertutto
l’incoscienza.
Dopo questo saggio brevissimo, a noi pare
anzitutto, per ragioni che rischiarano di molta luce i dati del nostro
problema, che la legge fisica della coscienza si applichi in modo indubitabile
a quello stato anormale, in cui vengono posti taluni
individui per opera di speciali eccitamenti sulle terminazioni nervose degli
organi di senso. Intendo parlare dell’ipnotismo provocato, che è un esperimento
fisiologico, dove è possibile seguire i varj
mutamenti della sensibilità generale e specifica, della motilità, e, quel che è
più, dei fenomeni psicologici. Anzi, come nota l’Heidenhain (Heidenhain, Der sogennante
thierische Magnetismus; physiologische Beobachtungen.
Leipzig. 1880 – Grützener, Ueber die neueren Erfahrungen auf dem Gebiete des sogennanten
thierischen Magnetismus. Centralblatt für Nervenheilkunde,
Psych. Und Psychopath, 15 mai 1880), uno dei sintomi
caratteristici dello stato ipnotico è la soppressione più o
meno profonda della coscienza, la quale è debole o appena accennata se
il soggetto di esperimento non ha presentato tutta la strana fenomenologia
dell’ipnotismo, perché, egli, appena svegliatosi dal sonno in cui era caduto, o
conserva in un modo direi quasi spontaneo la ricordanza di quello che gli è
successo, oppure, come avviene pei sogni, egli riesce a richiamarla se a lui
vengono fornite delle opportune indicazioni. Ma quando l’ipnotismo si è
prodotto in tutta la sua intensità, ogni traccia di ricordo è spenta.
Lo studio dei fenomeni psichici nell’ipnotismo
ci dimostra a chiare note, ed è cosa importantissima, l’intima connessione che
trascorre tra la coscienza e la memoria, tra la coscienza cioè
intesa nel senso che le viene attribuito dalla maggior parte dei fisiologi, e
la memoria intesa non come fatto organico, biologico, automatico, ma come fatto
essenzialmente psichico che è accompagnata da stati coscienti (vedi Ribot, La mémoire comme fait
biologique, nella Revue philosophique, mai 1880). L’azione del sentire,
direbbe il nostro illustre Ardigò, è
identica a quella di ricordarsi. E questi legami si fanno più intimi, quando si
vogliano esaminare le condizioni della coscienza individuale o dell’io, la quale, come spero di chiarire in
uno studio di psicologia patologica, è un caso particolare della cenestesi e risulta dall’associazione per opera della
memoria degli stati consapevoli e della loro fusione in forme molto complesse.
Nell’ipnotismo, come in altre condizioni neuropatiche, non è chiusa la via
dell’avvenimento delle impressioni sensoriali, le quali arrestano ai gangli
della base e non raggiungono la corteccia per trasformarsi, non si sa in qual
modo, in rappresentazioni coscienti (bewusten Vorstellungen): per tale motivo non si conservano come
immagini mnemoniche, cioè non durano a persistenza. La memoria non può
originarsi, se ai molteplici eccitamenti che riceviamo dalle coesistenze e
dalle seguenze esteriori, e che in fondo vanno a
costituire il contenuto della coscienza, non si rivolge l’attenzione, la quale,
secondo il Wundt,
è il momento più alto dell’attività cosciente: questi eccitamenti si
arresteranno sulla soglia della coscienza, non entreranno nel punto di mira
della visione interiore.
Tra l’impressione di senso e la rappresentazione
cosciente della stessa ci corre di molto: sono due processi psicologici
diversi, l’ultimo dei quali presuppone il concentramento dell’attenzione, cui
sussegue quel grado più o meno chiaro di memoria che accompagna l’attività di
rappresentarsi coscientemente le cose percepite.
Ora, qual è la condizione fisica che determina
l’ipnotismo, e che perciò nel caso nostro ci dia ragione dell’offuscamento e
della mancanza totale della coscienza? La prima induzione fisiologica cui si
possa ricorrere è l’anemia cerebrale: gli stimoli sensibili provocherebbero una
contrazione riflessa dei vasi, che irrorano col loro sangue la sostanza grigia
della corteccia, dove risiedono le funzioni più alte della vita psichica (Questa ipotesi è stata
ultimamente sostenuta dal Rumpf - Ueber Reflexe, Archiv für Psych. Bd.
XI, 1880, e Ueber Hypnotismus in Deutsche med. Woch. e Berlin klin. Woch. 1880 – il quale applica all’ipnotismo
la sua teoria vascolare della trasposizione della sensibilità). Ma i fatti
indubitabili che la maggior parte dei soggetti di esperimento durante il sonno
ipnotico non impallidiscono, anzi presentano una congestione notevole del volto
(e questo fenomeno ho potuto osservare in un caso tipico di assenza psichica);
che l’esame dei vasi retinici, il quale, dove è possibile istituire, non disvela nessun segno di anemia, e che l’inalazione del
nitrito d’amile, sostanza dotata di una grande
efficacia vasodilatatrice, non impedisce, anzi induce
una ipnosi profondissima, questi fatti, dico, provano chiarissimamente che la
condizione genetica dell’ipnotismo non è l’anemia della sostanza grigia
cerebrale. Invece l’ipotesi recente, che attribuisce a talune fibre nervose la
funzione così detta di arresto, ci par quella che sia più adatta a risolvere il
problema. I rami del vago, per riferire qualche esempio, eccitati, arrestano
l’attività delle cellule gangliari della sostanza propria del cuore, e perciò
ritardano ed anche sospendono i moti cardiaci; lo stimolo elettrico di
intensità moderata indotto sul laringeo superiore ferma il lavorio funzionale
di quel nucleo del bulbo che presiede all’azione ritmica dei muscoli del
respiro, e quindi rallenta o sopprime i movimenti respiratorj.
Inoltre la stessa attività delle cellule sensitive soggiacerebbe talvolta
all’arresto della loro funzione, come vien fatto di
vedere negli esperimenti dell’Adamkiewicz,
ripetuti da me e dal mio distinto e caro amico dott. Seppilli, pei quali aumentando
con la senape la sensibilità della zona di un arto si fa diminuire la
sensibilità della zona omonima dell’arto opposto (Adamkiewicz, Ueber bilaterale Functionen. Verhandlungen
der physiologischen, Gesellschaft. Dec. 1879 –
Buccola e Seppilli. Sulle modificazioni sperimentali della sensibilità. Rivista
sperimentale di freniatria. F.
I-II, 1880).
Per questi fatti non sembra priva di fondamento l’ipotesi che riferisce la
cagione dell’ipnotismo, e quindi della perdita più o meno
completa della coscienza, ad un impedimento di attività delle cellule corticali
dell’apparecchio psichico, prodotto dagli stimoli continui, deboli, monotoni
dei nervi cutanei del viso o di quelli dell’udito e della vista. Ed allora,
sospeso il movimento funzionale della sostanza grigia, noi abbiamo la
sospensione della coscienza, cioè è molto diluito o vien meno il momento disintegrativi delle cellule nervose,
che è l’equivalente fisico dell’attività cosciente; cessa ogni lavorio di
disorganizzazione corticale, il che vuol dire che è impedita ogni genesi di
atti consapevoli. Sottomettendo l’attività cosciente all’opera esclusiva di
sensazioni semplici, omogenee, continue si riesce a limitare o a sospendere lo
sviluppo della cenestesi, la quale
è in ragione della varietà delle impressioni che la sollecitano e si produce
alla fine una specie di catalessi dei centri psichici. La coscienza pertanto
(indicando con questa parola l’astratto dei mutamenti consapevoli) viene condannata ad un’inerzia generale, ed è sospesa la
sfera delle sue azioni per l’arresto della fase disintegrativi, da cui sono
colpiti gli elementi nervosi.
La letteratura scientifica dell’ipnotismo, in
poco volger di tempo, si è arricchita di molti lavori importanti, che qui
sarebbe inutile di ricordare.
L’ipotesi dell’Heidenhain
per ora ci par quella che dia dei fenomeni ipnotici la migliore interpretazione
fisiologica, perché appunto si riferisce alle condizioni fisiche di essi. Lo Schneider (Die psychologische Ursache der hypnotischen Erscheinungen, Leipzig, 1880)
ravvisa nel concentramento unilaterale ed anormale dei processi della coscienza
la vera cagione dei fatti psichici e somatici osservati nel sonnambulismo
provocato, ma non va al di là. Anche il Berger (Hypnotische Zustände. Bresslau, 1880) si accorderebbe con l’ipotesi della
“attenzione aspettante”, poiché, secondo lui, i metodi
magnetici consueti riescono inefficaci, se non interviene il momento psichico.
Recentemente il Richet
in uno studio bellissimo (Du sonnambulisme
provoquè, nella Revue philosophique, nov. 1880), vuol
dimostrare che questa nevrosi è costituita dall’assenza di spontaneità o
dall’automatismo psichico, il quale è dovuto
probabilmente all’abolizione della memoria cosciente di molti ricordi
simultanei. Siffatto disturbo, per cui i fenomeni
intellettuali vengono ridotti ad un puro meccanismo, non può essere spiegato,
secondo lui, che o da una paralisi o da un’azione inibitrice: ciò che conferma
le nostre vedute.
La dottrina dell’Herzen trova poi la sua più splendida conferma in quelle varietà
tipiche di malattie mentali, dove è possibile studiare e tener dietro alla evoluzione dell’attività psicologica. Se è vera, noi
diciamo, questa legge fisica, essa deve spiegare non solo la formazione degli
atti coscienti nel dominio fisiologico, ma pure il
prodursi della coscienza nel dominio patologico, poiché una legge delle
funzioni sane è anche una legge delle funzioni ammalate. Il concetto che i processi morbosi, escluso qualsivoglia simbolo d’entità,
debbono essere compresi quali forme esagerate o modificate dei processi
normali, è un concetto essenzialmente scientifico: tra patologia e fisiologia
non v’è antitesi, ed è erroneo il supporre che la malattia sia un’espressione
eterogenea della vita, mentre essa è al contrario un esperimento fisiologico
della natura, più sottile, più preciso, più prezioso. E pare che il Vacherot (Rapport sur la psycholgie allemande
contemporaine de Ribot
– Séances et travaux de l’Académie des sciences morale set politiques, août-septembre
1879, p. 373),
nel riassumere dinanzi all’Accademia di scienze morali e politiche di Parigi in
un modo troppo confuso la dottrina dell’Herzen,
pur lodandone l’importanza, sia caduto nell’errore poc’anzi accennato, asserendo, con tono proprio dei
metafisici, che quella dottrina è applicabile solamente allo stato normale.
Egli inciampa nell’equivoco col dire che la coscienza
è il tipo dell’attività mentale, mentre non ne è che l’accompagnamento, e che
non si può spiegare la sua fenomenologia con le teoriche immaginarie delle
scuole moderne, le quali sopprimono l’azione di una causa vitale, distinta, benché inseparabile, dai processi organici. Per
lui i fatti luminosi dell’anatomia e della morfologia comparata, che disvelano
il meccanismo grado a grado complesso della coscienza;
l’esperimentazione fisiologica, che distrugge cogli
emisferi ogni possibilità di atti coscienti, o sottrae, anche per opera di
processi morbosi, determinati punti nei quali si formano le rappresentazioni di
moto e di senso, che concorrono per molta parte a generare il contenuto della
coscienza; e, quel che è più, la disposizione anatomica della corteccia, a dire
del Wundt, adatta meglio di qualunque altro organo al
collegamento dei processi fisiologici per mezzo dei quali possono essere
eccitate le rappresentazioni coscienti: per lui tutte queste prove non hanno
valore (Vernice,
Ueber das Bewusstsein nell’Allgem. Zeitschrift f. Psych., Bd. 35, 1878 – Wundt, Gründzüge der
phys. Psychologie. Cap. XVIII. 2.a edizione). Non è lo scambio molecolare nutritivo, che ridà ai diversi centri nervosi il tono e la vita che hanno
consumato nel lavoro, ma una cagione oscura e misteriosa, si chiami
causa vitale, o con altri nomi. Il Vacherot conchiude protestando contro siffatte teorie sulla
coscienza, le quali ne disfanno l’unità, cercando di
risolvere il me nella somma
collettiva dei gruppi di fenomeni e di spiegare l’identità con la permanenza
dei fatti associati.
Sarebbe inutile ogni discussione per oppugnare
questi strani concetti, che discordano dai postulati più sicuri della scienza positiva; ma l’asserzione gratuita che la legge della
coscienza non si possa applicare agli avvenimenti psichici morbosi è d’uopo che
sia contraddetta: e pertanto ci permettiamo di riferire alcuni fatti desunti
dall’osservazione di ciò che avviene nei malati di mente.
Delle forme psichiche morbose dobbiamo
scegliere quelle tipiche ed acute, quelle cioè che dopo un certo decorso,
durante il quale il delirio si manifesta in tutte le sue più strane e
caratteristiche parvenze, cedono del tutto, e l’ammalato rientra in un periodo
completo di sanità. Quivi è possibile ricostruire i processi fisici, che stanno
a base della produzione della coscienza nella
malattia, ed è facile di stabilire un parallelo tra i fenomeni coscienti dello
stato patologico e dello stato normale. Pure, nelle forme di profondo
indebolimento mentale l’inerzia e la degenerazione dei poteri psichici
necessariamente conducono seco loro l’inerzia e la
degenerazione della coscienza, che accompagna l’attività mentale. Nei cervelli
atrofici di questi ammalati, i quali vivono soltanto di vita vegetativa e non
sanno rendersi conto di ciò che avviene in loro e attorno a loro, la
disintegrazione funzionale della corteccia deve essere ridotta quasi allo zero,
i legami
associativi devono essere spezzati, ed è impossibile o grandemente
difficile la permanenza delle impressioni suscitate dal mondo esterno. Si direbbe che la sostanza grigia di questi cervelli
rappresenti l’ufficio di un organo rudimentale, che abbia perduto la sua
funzionalità (tradizionalità), che non sappia
più disintegrarsi e che stia lì solamente come muto testimonio ad attestare che
un tempo anch’esso partecipò alla vita. Ma eccoci giunti, come suol dirsi,
al nodo della questione.
Negli stati di esaltamento maniaco violento, nella vera iperfrenia, le percezioni, le immagini rappresentative
delle cose, le idee trascorrono rapidissimamente, si avvicendano con una
celerità vertiginosa. La corrente che percorre il circuito della
ideazione nel delirio caotico della mania è velocissima, non persiste
nei centri cerebrali, non incontra nessuna resistenza, e si scarica, come
direbbe il Maudsley, immediatamente
all’esterno dando luogo ad una viva reazione ideomotrice,
che si manifesta nel caos di atti e di parole. La disintegrazione dei centri
nervosi avviene sicuramente, ma è disintegrazione diffusa, troppo anormale e
molto estesa in superficie, come lo prova il delirio generalizzato, e la sua
intensità nelle regioni dove si elaborano i poteri coscienti è poca se si confronta
con la rapidità tumultuosa delle vibrazioni cellulari, le quali si
ripercuotono, per così dire, sugli elementi motori. La celerità delle
trasmissioni centrali raggiunge il suo limite massimo, è il fenomeno più
prevalente di quel complesso sintomatico che dicesi iperfrenia, la tinta più vivace del quadro morboso: in
queste condizioni la coscienza deve mancare, ed il fatto lo prova; poiché
quando l’ammalato entra nel periodo di tregua o di convalescenza, non ricorda o
appena come un sogno il suo stato precedente. Nell’individuo colpito da mania
caotica è manchevole la forza inibitrice dell’attenzione, la quale, come avvertimmo, è un indirizzo particolare dell’attività
psichica cosciente alle percezioni che vengono suscitate nei centri cerebrali;
mancano inoltre le condizioni propizie alla permanenza ed al rinnovamento delle
immagini rappresentative in quegli stessi punti del cervello, dove, secondo
alcune ipotesi recenti, si avvera la percezione, vale a dire mancano le basi
della riproduzione e quindi della memoria. La memoria, che possiamo chiamare la
coscienza immediata del fatto che si registra nella sfera mentale, non si è
formata, o, ciò che è lo stesso, gli elementi cellulari psichici non furono disintegrati così a lungo e così intensamente da
produrre la coscienza e quindi quel grado di memoria che l’accompagna.
Al contrario, nello stato di lipemania,
e talvolta nello stupore, in cui la vita di relazione sembra sospesa o quasi
annullata, nel mentre che continua il lavorìo della ideazione delirante senza tradursi
menomamente o quasi con atti esteriori, permane la cenestesi,
ossia la coscienza generale, perché le impressioni e le idee possono
disintegrare il tessuto nervoso, non projettandosi
all’esterno nella sfera motrice, e decorrendo con minore celerità: quindi esse
hanno tempo di organizzarsi e di imprimersi nelle cellule cerebrali. L’ammalato infatti ricorda nei suoi minimi particolari la vita
psichica anteriore e può analizzare molte volte assai minutamente, anche dopo
degli anni, tutte le idee e le impressioni deliranti che si succedevano nella
sua mente: la memoria dell’oggi non è altro che il risveglio o la riproduzione
della loro coscienza, che certo non si sarebbe generata se il lavorìo disintegrativo degli
elementi nervosi non fosse stato intenso e la trasmissione centrale
relativamente tarda.
Nella lipemania, malgrado i perturbamenti della vita affettiva sotto l’impero
del delirio, l’attenzione non è spenta del tutto: l’ammalato ha coscienza,
anche se vuolsi in minimo grado, di ciò che avviene in lui e attorno a lui,
perché nel suo cervello si formano delle rappresentazioni mentali
corrispondenti, la qual cosa presuppone sempre un’attività percettiva
consapevole.
Due processi psicologici, secondo il giudizio
del Wundt (Op.
cit. Cap. XVIII),
dobbiamo considerare come segni caratteristici della coscienza: la formazione
delle immagini per sintesi psichica delle sensazioni, le quali si ordinano
secondo certi tipi generali, e il va e vieni delle
immagini rappresentative riprodotte. Queste due condizioni, per il lavorìo perturbato, celerissimo, ideomotore
mancano nella mania caotica, e mancano pure, per altre cause che escludono
sempre la disintegrazione profonda e intensa degli elementi nervosi corticali e
la lentezza della trasmissione centrale, in tutti quegli stati che il Krafft-Ebing (Lehrbuch del Psichiatrie, Bd
I, pag. 80 e seguenti. Stuttgart, 1879) ha designati col nome
di stati psicopatici acutissimi (ubriachezza, delirio da avvelenamento, delirio
acuto, gran male degli epilettici); mentre invece
persistono a gradi variabili di chiarezza nella lipemania,
dove a noi pare, che la genesi della coscienza avvenga secondo quella legge
fisica che ci siamo studiati di verificare tanto nel dominio fisiologico che in
quello patologico della mente, e la cui grandissima importanza non sarà
sfuggita a tutti coloro che ravvisano nella psicologia positiva il fondamento
più saldo e più sicuro della scienza freniatrica.