Lodovico Bosellini (1811 – 1871)
Sulla natura filosofica dei telegrafi
(in appendice a F. Serafini – Il telegrafo in relazione alla giurisprudenza – Pavia 1862)
Lieto che voi toglieste a
trattare la nuova ed interessante materia de’
telegrafi, io mi diedi ad alcuni pensieri che vi espongo: non so se potranno
parervi non al tutto scevri di utilità.
§ 1. L’uomo non è un puro
spirito; l’uomo è l’unione di un’anima intelligente e volente e di un corpo
organizzato per modo da servire a quell’anima che lo governa. Lungi egualmente
da un basso materialismo che degrada l’uomo, e da un esagerato spiritualismo
che lo distrugge, dobbiamo considerarlo quale esso è. L’anima spirituale non
esercita alcuna influenza sulle cose esteriori se non per mezzo del corpo. Gli
atti dell’anima non possono estrinsecarsi sulle cose esteriori né comunicarsi
agli altri uomini se non per mezzo di un’azione materiale; ma quest’azione
materiale non è per sé medesima l’azione dell’animo, e non ha valore se non in
quanto esprime l’azione di un animo intelligente e liberamente volente. Or qual
modo terrà l’uomo a partecipare altrui i propri pensamenti e voleri? L’uomo
posto a contatto con le cose immateriali ne è per natura signore: egli non ha
d’uopo di altra manifestazione del pensiero per apprenderle e destinarle alla
soddisfazione dei propri bisogni e desideri che dell’atto stesso di apprenderle
colla forza e servirsene. L’uomo dissocievole può
essere muto, ed io vorrei sapere dal buon Rousseau che dovrebbe farsi della
facoltà di parlare l’uomo in quello stato ch’ei sognava? Ma l’uomo a contatto
dell’altro uomo non può adoperare così: egli deve rendere esteriormente palesi
sensi dell’animo senza tradurre que’ sensi in
violenza? ed egli può valersi di due modi: l’uno affatto animalesco e l’altro
proprio esclusivamente dell’uomo. Sarà il primo quello dei segni imitativi o
espressivi (dicevo nella Gazz. dei Trib. Di
Milano, 1861, N. 16 22 43 – 45): così l’uomo esprime l’amore coll’atto dell’abbracciare, l’ira con un gesto minaccioso,
la fame col mostrare sfinitezza di corpo, e via discorrendo. Ma questo modo è
troppo presto esaurito nella sua limitatissima potenza, e l’uomo è inferiore in
questo agli animali bruti i quali hanno istinto più perfetto del suo. L’uomo è
chiamato ad adoperar la ragione, e perciò non deve arrestarsi alle azioni
puramente animali più che non esiga la necessità di sua natura che mentre da un
lato lo solleva sino alla somiglianza di Dio, dall’altro lo vuole partecipare
dell’organismo materiale al pari dei bruti. L’uomo può sollevarsi di più, e per
mezzo dell’astrazione e dell’immaginazione inventare un sistema assai più ampio
di manifestare le idee, sistema che è bensì proprio dell’uomo né si accomuna ai
bruti, ma pur si risente ancor troppo di una certa preponderanza delle facoltà
corporee che si adoperano per maneggiarlo e svela l’intelligenza del soggetto
pensante essere ancora rivolta alle cose sensibili. Questo sistema è quello che
dicesi del linguaggio simbolico, figurato o mimico. L’uomo figura un certo mito quale caratteristico di una
descrizione o di un’azione materiale: figurando quel mito caratteristico vuol
figurare un’idea. A questo appartengono ancora i suoni imitativi. L’uomo che
vuole indicare un leone che sbrana, vi farà il ruggito, poi l’atto dello
sbranare; se vuole indicare un toro che uccide colle corna un cavallo, farà le
corna con le dita, farà con le mani l’atto di correre del cavallo, poscia
l’atto del cozzare, e ripetuto il segno che simboleggia il cavallo lo seguirà
con un segno imitativo del cader morto. Si potrebbero moltiplicare a sazietà
gli esempi di questo linguaggio simbolico che è il primo ad adoperarsi tra due
uomini i quali non possano intendersi per via della favella. Così l’adoperano i
sordo-muti non istruiti, ed anche gli istruiti quando debbono comunicare i loro
pensieri a chi non ne conosce il linguaggio dattilologico e quando non è dato
di scrivere; e lo adopera chiunque si trovi con uno straniero col quale non
abbia alcun legame di lingua. Questo modo di esprimersi è molto energico, ma
lungo, faticoso e limitatissimo, e chiunque però si perde della parola, poiché
ogni movimento del corpo, ogni gesto dovendo esprimere un’idea, si può riescire ad esprimere molte idee materiali e semplici, ma
non senza difficoltà idee complesse, idee dedotte, e riesce quasi impossibile
lo esprimere quelle astratte, salvo che non sieno
tanto note ad entrambi quelli che conversano, e tanto assentite che non faccia
d’uopo lo esprimerle più che con un cenno dirò di riferimento. Da ciò scorgesi
come questo linguaggio sia imperfetto e insufficiente all’uomo, come serva male
ai bisogni di questo, e non sia che un ultimo mezzo di comunicazione quando
altro ne manchi e scorgesi ancora quanto vadano errati coloro i quali per no so
quale preconcetto sistema vogliono pareggiare i sordo-muti agli uomini parlanti
dicendo avere i sordo-muti il linguaggio d’azione in luogo delle parole. Questo
linguaggio infatti non è proprio dei sordo-muti ma comune a tutti gli uomini, e
non è che un linguaggio rudimentale che cede il luogo appena un altro più
perfetto se ne possa adoperare, come è appunto quello della parola, ed è questo
sì vero che gli ammaestratori dei sordo-muti non si contentano del linguaggio
di azione, ma adoperano una specie di scrittura volante con cui esprimono le
parole parlate, voglio dire
§ 2. Ma Dio non abbandonò
l’uomo, sua prediletta creatura, senza uno strumento assai più perfetto,
strumento che sebbene materiale si prestasse però ad esprimere tutti i moti
dell’animo. Iddio gli diede gli organi della bocca e della glotta
foggiati per modo da potere esprimere articolatamente una quantità prodigiosa
di suoni. Al logos o verbum interno, all’anima ragionevole e
pensante che fu creata a somiglianza del logos
o verbo increato ed eterno, fece strumento e simbolo
il logos o verbum esterno, cioè la parola la quale (come avvertiva Cicerone)
distingue l’uomo dai bruti, e attesta la natura socievole di quello per modo da
paralizzarne nello stato insocievole una delle più preziose e care facoltà. La
parola, dono del creatore e coeva alla creazione, è la estrinsecazione naturale
dell’animo umano; la parola, legame della società, arreca diletto inesprimibile
a chi la proferisce e a chi l’ascolta, tantochè non è
compiuto l’effetto della parola se proferita non sia dagli organi vocali. Chi
legge una stupenda poesia, un bel sermone, non ne prova tutto il diletto che
può produrre se non recitandolo, vocalizzandolo. Gli organi dell’uomo si
prestano a proferire dei suoni e a modificarli, a proferire vocali e a
modificarle colle consonanti; e mediante la numerosa serie di queste
modificazioni egli ha innanzi a sé un numero grande di suoni complessi coi
quali può esprimere molte idee. Di più oltre ai suoni semplici ed ai complessi
l’uomo ha pur anco a sua disposizione una serie indefinita
di suoni accoppiati. Nulla a lui torna impossibile ad esprimere, ma soltanto è
necessario che la lingua in cui egli parla sia nota a colui al quale parla. È
ridicolo supporre le lingue formate per convenzione, sebbene per tacito
consenso possano arricchirsi. Come il primo uomo e la prima donna parlassero
noi non sappiamo; e questo solo sappiamo che le lingue si mutano ne’ tempi e
luoghi diversi per cagioni multiformi e varie; e quando due uomini conoscono
una lingua ancorché povera, possono arricchirla con nuovi vocaboli definendoli,
e se la pluralità degli uomini di quella nazione accetta l’uso, quel vocabolo
va a far parte della lingua.
§ 3. Col mezzo del
linguaggio parlato l’uomo può esprimere qualunque concetto; ma non può per
altro fare violenza alla natura stessa delle cose, né far sì che la parola
esprima tutto il concetto; poiché, come si è detto, l’opera immateriale
dell’animo è sempre più grande, più forte, più estesa, che l’opera materiale
della favella. Questa dovrà prendere delle immagini corporee per esprimere le
idee incorporee, e ciò è una delle cause più grandi di imperfezione; e tante
volte dipende dal trovare un vocabolo appropriato, il fissare le idee in modo
certo, indubitato, non equivoco. Le lingue sono tanto più perfette, quanto più
chiaramente e nitidamente valgono ad esprimere le idee d’ogni fatta.
Ne viene però un altro vero
che è la chiave d’ogni ermeneutica, e che si suole molte volte dimenticare, e
per conseguenza cadere in gravissimi errori. La parola, come si è detto, non
abbraccia mai tutto il concetto, e per conseguenza è un errore il credere che
nella parola sia quello tutto quanto; e non escludo la stessa parola di Dio,
cioè i libri Santi i quali pure sono scritti con mezzi umani, e la parola,
benché più appropriata, non può esprimere tutto il concetto dell’agiografo, e
molto meno il concetto di Dio che lo ispirava. Per questo Gesù
Cristo non lasciò scritto il suo Vangelo in un volume, dicendo qui è tutto; ma istruì i banditori della
sua legge, e disse andate ed insegnate,
ed altrove disse ascoltateli. È falsa
in radice l’ermeneutica de’ protestanti, i quali
vogliono ridurre la scrittura a lettera morta scompagnandola dalla tradizione
che le dà vita e la svolge ove sia d’uopo. Così per la tradizione si è avuto
più largo, più preciso il concetto della parola, e si è potuto trovare i
termini opportuni ad esprimere l’idea, il concetto che quella era chiamata a
presentare, quando di tale allargamento o di tale precisione fu d’uopo. Lo
stesso accade nell’interpretazione delle leggi e degli atti dell’uomo. La
parola è morta, né si ravviva altrimenti che col concorso di tutto ciò che
informava colui il quale l’adoperava, poiché è quel concorso che dà valore ai
vocaboli, è quel concorso che ne spiega la causa, e spiegandola ne restringe od
allarga
§ 4. Un’altra osservazione è
da fare: la parola non si guarda in chi la proferisce ma in chi
Ne viene un’altra
conseguenza ancora ed è quella che se avvenga all’incontrario che la parola
arrivi a chi la deve raccogliere ancorché per avventura non proferita con la
voce di chi la emette, ciò basti ad ottenere l’effetto. Leggiamo negli atti
Apostolici che Saulo udì una gran voce la quale gli gridò, o Saulo o Saulo perché mi perseguiti? ma questa voce non fu udita
da chi gli era d’intorno. L’onnipotente fece dunque che Saulo raccogliesse
quella parola senza che il suono se ne diffondesse nell’aria, senza forse che
la voce fosse proferita nel modo ordinario e comune ed ella ottenne tutto il
suo effetto perché fu raccolta. Per tal modo noi possiamo intendere come
avvenisse il miracoloso udirsi della voce di Dio le quante volte la scrittura
santa ce lo narra, e come pure avvenisse che gli apostoli predicando nella
lingua loro, gli innumerevoli ascoltatori udissero ciascuno nella lingua
propria; il prodigio consisteva nel far si che essi raccogliessero la parola o
non proferita (almeno nel modo ordinario e comune) o proferita diversamente.
Non senza ragione, come vedremo in appresso, io adopero l’espressione di raccogliere la parola suggeritami da Dante laddove dice:
Tale
vid’io, quell’anima che volta
Stava
ad udir turbarsi e farsi triste
Poi ch’ebbe la parola a sé
raccolta
§ 5. La parola è un
aggregato di suoni articolati destinati a ferire l’orecchio di chi l’ascolta
per modo da destare in lui quell’idea che vuole destare chi
§ 6. Gli ostacoli alla
trasmissione della parola sono due: lo spazio e il tempo. Quanto allo spazio
può distinguersi quello che si può superare coi modi ordinari del parlare ad
alta voce, quello che si può superare col sussidio di portavoce e quello che
supera ogni possibilità di trasmissione della voce. Così si può vedere ad
occhio nudo, e si può vedere a distanza molto maggiore coll’ajuto
di telescopi.
Qui però mi fermerò ad una
considerazione. Se un uomo riesca a far sì che un altro percepisca le parole di
quello senza che egli le proferisca, si riguarderà parlare o no? Certamente
nessuno dubiterà che siavi identità se quegli possa
ottenere che le parole pervengano all’intelligenza dell’altro per mezzo del suo
udito o destando nel sensorio comune eguale sensazione. Ma se si rivolga ad
altro senso? Se egli delinei all’ascoltante presente dei segni i quali
risvegliano in lui la immagine della parola, si dirà parlare? si riguarderà verbale la loro comunicazione? Le
misteriose parole scritte da Dio sul muro al lussurioso Baldassare,
parlavano esse? O per venire a cose ovvie, quando il professore delinea sulla
lavagna parole o algoritmi, parla egli? Quando il sordo-muto istruito dispone
successivamente le dita della mano in tante foggie
che esprimono le singole lettere dell’alfabeto e quindi i suoni corrispondenti,
e ciò fa dirigendosi a persona che comprende quell’alfabeto, parla egli? Qui si
fa sottile l disquisizione, perché se noi guardiamo nella parola la parte
sensibile, saremo inclinati a rispondere di no; ma se guardiamo la parte
intelligibile dovremo rispondere di si perché l’ascoltante percepisce, raccoglie la parola non diversamente che
se la sentisse risonare nell’orecchio, ed anzi spesso
la ripete colla propria bocca. Presenti l’uno all’altro si comunica il logos,
il verbum, la parola scambievole, e può anche accadere come nel caso di un sordo
semplicemente, o di un muto semplicemente, che interloquiscano adoperando l’uno
o la dattilologia o la scrittura, l’altro
§ 7. Ora facciamo un’altra
considerazione. Supponiamo due uomini posti a qualche distanza ma non tanta che
parlando l’uno ad alta voce e avendo l’altro un buon udito non possano
intendersi; presupponiamo ancora che o l’uno abbia poca voce o l’altro sia
sordastro, e che per intendersi adoperino l’istrumento
di un terzo. Chi parla a bassa voce ha accanto uno stentore che ripete con
tutta forza le sue parole sicchè dall’altro sieno udite.
Analizziamo questo fatto. Il
parlante parla, ma non è il suono delle sue parole che ferisce l’orecchio
dell’altro, e quello che ripete ed è udito non esprime le proprie ma le altrui
parole, egli è in certo modo un portavoce umano. Se non che non essendo uno
strumento materiale, ma un essere libero, pensante e parlante, può rimaner
dubbio se egli esprima per avventura esattamente le parole dell’altro. Questo
dubbio nel proposto caso è però molto tenue perché la presenza del vero
interlocutore che ben ode ciò che in suo nome si dice e non renuisce
ma anzi mostra col fatto e con cenni di valersi di quello strumento rassicura
abbastanza. Il dubbio si farebbe più grave nel secondo caso in cui il difetto
sia per parte di chi dovrebbe udire ma essendo duro d’orecchio a ciò non vale
ed è ajutato da un amico dotato di migliore orecchio.
Questi allora fa la funzione di interprete a meno che il parlante non sia in
grado di intendere se bene o male egli eseguisca la ripetizione.
§ 8. La parola è
l’espressione delle idee dell’uomo fatta per mezzo di suoni articolati la cui
congiunzione forma altrettanti aggregati i quali diconsi
appunto parole e che giunti alla percezione intellettiva di un altro uomo
consapevole delle idee che in lui vuole trasfondere l’altro, e le parole
dovendosi considerare non nell’atto materiale di chi parla, e non nella
sensazione corporea di chi ascolta, ma nella sua percezione intellettiva, è
comunicazione verbale quella che tra persone presenti produce questa
percezione.
Se non che la parola è
fugace, la parola proferita non vince distanze né di tempo né di luogo. È vero
che la parola ascoltata può riferirsi, e quindi trasferirsi in altrui per mezzo
di chi avendola ascoltata la riporti, ma questo intervento di un terzo
indebolisce l’efficacia della parola perché lascia luogo a dubbi: questo che mi
parla in nome altrui, questo nuncio o messaggero è un testimonio del detto
altrui: sarà egli veritiero? avrà egli bene inteso? E qui di passaggio noterò
le differenze tra il nuncio e il mandatario. Quegli è un semplice testimonio,
questi è un rappresentante: quegli se riporta male la proposta, la risposta che
è coerente ad una proposta mal riferita non istringe
consenso, e il danno è tutto del rispondente che reputa di aver contrattato e
non contrattò. Al contrario se il mandatario erra, egli può obbligare il suo
mandante e il danno dell’errore (purchè entro i
confini del mandato) va tutto a carico del proponente. Questa distinzione è
importante assai nella materia dei contratti e specialmente nella
giurisprudenza telegrafica.
§ 9. Se pertanto il nuncio
può errare, nascerà diffidenza di questo mezzo di comunicare la parola, e si
vorrà avere un mezzo più sicuro. Quale sarà esso? Se chi parla potesse fermare
il suono, configgerlo, per così dire, rinserrarlo in un otre, e mandarlo
a chi deve raccogliere la parola, tutto sarebbe fatto salvo tutt’
al più che non nascesse dubbio sulla provenienza e identità di quella voce. Ma
ciò è fisicamente impossibile. Non è però impossibile far si che il suono delle
parole risuoni all’orecchio di persone distantissime
quando si ottenga di far lui stesso nuncio delle parole altrui. Poniamo che
quegli che parla faccia certi segni sopra uno strumento materiale, i quali
veduti dall’altro a cui si dirige la parola facciano si che questi la
proferisca come nuncio del mittente a se stesso che la riceve e raccoglie; che
egli dica a se stesso: “Tizio dice: io
desidero il tuo cavallo”. Non è la stessa cosa come se Tizio proferisse
egli medesimo quelle parole all’orecchio di Sempronio? E se Sempronio dice alla
sua volta : “ed io rispondo di sì”,
non vi è consenso? Si, il consenso vi è se Tizio in realtà ha fatto Sempronio
suo nuncio, vale a dire se quei segni materiali che Tizio trasmise a Sempronio
sono veramente vergati da Tizio, e Tizio ha perseverato nel suo sentimento sicchè oltre all’identità della cosa vi sia simultaneità di
volere: con-senso.
Se dunque si trovi un modo
di trasmettere tali segni che facciano l’assente nuncio a se stesso delle
altrui parole e quindi dell’altrui pensiero, sarà soddisfatto al bisogno di
superare l’ostacolo dello spazio, né altro rimarrà a desiderare se non la
certezza che quei segni provengono dalla persona cui appariscono appartenere.
§ 10. Questo bisogno
soddisfatto, ne ha già soddisfatto anche un altro, quello vogliam
dire del tempo. Con questo mezzo si può dunque parlare anche a chi non è pronto
a ricevere la parola, a chi non esiste ancora, si può parlare a chi non si
conosce, si può parlare a tutto il mondo.
Siffatto mezzo configge le
parole e il pensiero, lo rende duraturo e indefinitamente trasmissibile: questo
mezzo chiamasi scrittura, e poiché non può parlare all’udito direttamente, bisognerà
che si percepisca prima cogli occhi o col tatto. Anzi per la lentezza e tardità
di questo senso, e per la sua ottusità bisognerà che si rivolga al senso più
celere d’ogni altro, alla vista.
Ora in qual maniera si
rivolgerà esso alla vista umana? Quale sensazione o quale percezione tenderà
esso ad eccitare? Fermiamoci su questo punto della nostra via il quale ci pone
innanzi un bivio non meno importante di quello di Alcide. L’uomo che vuole
trasmettere i propri pensieri ad altro uomo distante o per tempo o per luogo
non opererà diversamente da chi vuole esprimersi all’altro presente e vicino.
Egli adoprerà i simboli o le parole, vale a dire presenterà o l’immagine
dell’oggetto o l’espressione del suono. La scelta dipenderà dalla qualità delle
persone. Se chi vuol trasmettere l’idea parla un linguaggio che possa essere
inteso dall’altro a cui lo trasmette egli presente adoprerà le parole; assente
presenterà all’altro indubitati segni pei quali chi riceve la parola scritta la
pronunzi a se stesso. La quale osservazione non è già un sogno ipotetico ma una
realtà di cui può convincersi chiunque conosce persone poco esperte di leggere.
Egli vedrà sempre pronunciare a voce più o meno elevata le parole che leggono.
È solamente l’effetto di lungo esercizio il rilevare le parole scritte, il
leggere per memoria. Una persona rozza ed una letterata leggono lo stesso libro
di preghiera: questi scorre coll’occhio quanto quegli
pronuncia con quel pissipissi che
affettatamente adoperano le pinzocchere.
Ma se chi vuole esprimere le
sue idee non sa parlare un linguaggio inteso da chi le riceve egli cercherà di
esprimerle con simboli i quali destino immagini perché il ricevente ne ricavi
l’idea.
§ 11. Due modi sono dunque
di scrittura: la simbolica e
§ 12. Voglio sperare che mi
sia qui perdonata una digressione. Ne’ miei studi trovai sempre numerose e
indelebili le traccie delle tre razze derivanti dai
tre noachidi, traccie che
segnarono i loro costumi, la loro indole, le loro tradizioni, i loro istituti
privati e pubblici, le loro tendenze, i loro stessi difetti. Il materialismo
dei Camiti, come si manifestò nella loro tendenza ad ogni adorazione delle
potenze materiali sino al più stupido feticismo, e nella forma crudelmente
dispotica dei loro governi, si manifestò anche nella forma simbolica e materiale
di loro scrittura; la compassata lentezza de’ S
§ 13. Ma ritorniamo a bomba.
Come tra gli uomini aventi una lingua comune con cui intendersi, i gesti mimici
sono ristretti al ben tenue ufficio di accompagnare le parole e di esprimere in
compendio alcuni moti dell’animo, così la scrittura simbolica fu relegata o ad
esprimere immagini rappresentative di una idea determinata ed intesa o
facilmente intelligibile, come tutti i simboli od embl
All’opposto tutti quei mezzi
pei quali non si esprime direttamente una immagine od una idea, ma le parole,
siccome sono destinati a conservare le traccie di
suoni articolati e a farli riprodurre, appartengono alla scrittura fonetica, o,
per meglio dire, al logos, al verbo, al sermone, al linguaggio.
§ 14. Si osservi intanto che
l’uso del linguaggio o della scrittura fonetica che lo esprime presuppone la
reciproca intelligenza tra chi parla e chi ascolta. Si può (dicono le LL. 1 de V.O e 8. de acceptilat.) stipulare anche in diverse lingue purché
scambievolmente intese o purché siavi tra mezzo un
interprete. Ad ogni modo la scrittura simbolica può valere entro certi limiti
anche tra chi non intenda la stessa lingua, ma la fonetica non può valere se
non tra chi intende scambievolmente il sermone isteso
o parlato o scritto (Quindi lo errore di
quelli che sognano trovare una lingua comune scritta che possa servire alle
comunicazioni di diversi popoli, errore che fu egregiamente combattuto dal mio
collega Cav. Mauro Sabbatici, in una dotta memoria
letta all’Accad
§ 15. Tutti gli accennati
mezzi che servono a manifestare ad altri i nostri pensieri si possono ridurre a
queste due categorie:
Espressioni
simboliche |
Espressioni
fonetiche |
Mimica
o cenni |
Discorso |
Suoni
inarticolati |
Dattilologia |
Embl |
Scrittura
fonetica |
Scrittura
simbolica |
Telegrafo
fonetico tanto
a braccia quanto
elettromagnetico |
Tessere
o tacche |
|
Telegrafo
simbolico |
II
§ 16. Alcune scritture sono
transitorie e più o meno fugaci, come quella sulla lavagna, o su tavole di
legno colorate o cerate, ecc. Queste sono destinate più veramente a tener luogo
della parola parlata, e perciò non entrano logicamente nella scrittura, ed i
contratti fatti per tal modo con immediata cancellazione si debbono avere per
verbali al pari di quelli coll’uso della
dattilologia. All’opposto le scritture tracciate su materia durevole, sia
scolpite in pietra, sia incise sul bronzo, sia scritte sul muro, sopra papiro,
pergamene ecc., siccome destinate a conservare l’espressione della parola per
uso distante di tempo e di luogo sono vere scritture, i contratti fatti con
esse diconsi scritti. Il telegrafo a braccia
appartiene alla scrittura fugace, il telegrafo elettrico alla scrittura permanente.
§ 17. Torna qui opportuna
l’osservazione sulle trasmissioni dirette e indirette. È diretta quella di chi parla, come pure di chi scrive di propria
mano, e di propria mano comunica lo scritto; quasi diretta quella di chi invia l’autografo, e dissi quasi diretta, perché lascia luogo a
falsificazione. È indiretta la
trasmissione che si fa per nuncio, o per copia, o per interprete; e questa
interpretazione è di due specie, quella cioè che si fa sulla sostanza medesima
dell’atto, e quella che si fa sui caratteri. È della prima specie quella che si
fa traducendo da lingua a lingua, da scrittura simbolica a scrittura comune,
come pure quella dei sensali o de’ notaj che spiegano la volontà de’
contraenti; è della seconda specie quella che cade solamente sui segni dai
quali sono espresse le lettere componenti le parole. Alla prima specie di interpreti appartengono i dragomanni od altri
ufficiali detti per antonomasia interpreti; alla seconda appartengono gli esperti della dattilologia de’ sordomuti, i paleografi, i deciferatori, i telegrafisti.
La vera copia che si fa
trasportando le parole da scrittura in lingua comune e in caratteri comuni,
senza cangiar lingua e ripetendo pur sempre gli stessi comuni caratteri, non
può di regola risguardarsi come interpretazione; il
copista adunque non è che un testimonio, mentre l’interprete è un perito. Lo
stampatore, il litografo, il fotografo sono copiatori.
E il telegrafista?
Distinguiamo: sono interpreti quelli che mettono in caratteri telegrafici
quanto ricevono in caratteri comuni, così pure quelli che traducono in
carattere comune i segni telegrafici; sono invece copiatori gli intermedii che ripetono i segnali veduti, trasmettendoli ad
altro telegrafista.
Tutte queste trasmissioni
indirette, le quali formano la massa più forte delle trasmissioni, vanno più o
meno incontro a questi dubbi. Il mittente era egli in realtà quel desso che la
missiva indica? Colui che trasmise, operò esso rettamente sia nell’aspetto
intellettuale e sì nel morale? oppure avrà egli tanta intelligenza e tanta
probità nelle sue operazioni da non poter dubitare della sua esattezza e della
sua veracità? La fiducia privata non ha altro limite che la volontà, ma la
fiducia pubblica e la stessa fiducia privata quando è posta a contatto con la
pubblica ha certe norme e perciò non basta la generale presunzione che l’uomo
sia onesto: anche l’uomo onesto è talvolta ignorante, distratto, disattento:
l’uomo d’altronde ad ottener pubblica fiducia è obbligato a dar prove più
positive della propria onestà in relazione all’ufficio che disimpegna. Non
basta l’onestà grossolana, vuolsi l’uomo che sente il proprio dovere speciale,
e gli obblighi pure speciale che quello gli impone. Non tutti possono essere
investiti di quella se convenienti studi ed esperienza ed onestà comprovata non
ispirano una fiducia singolare. Allora il nuncio, il trascrivente, l’interprete
acquista la fede di officiale pubblico, e questo forma un grado di
testimonianza qualificata che ottiene credenza assai più che la semplice,
perché essa è appoggiata a prove positive che rendono se non certo almeno probabilissimo il sapere e volere operar bene. (Il
giuramento non è necessario perché non è sostanziale a dar fede, come ben
spiega l’Ellero nella Critica criminale). Non bisogna però confondere questi
pubblici ufficiali e gli atti da loro fatti con quelli che si chiamano
autentici. In questi avvi di più assai. L’opera del
pubblico ufficiale è tale che questi non possa essere tratto in errore. La sua
testimonianza è di fatto e non mista di giudizio intellettuale: essa è
circondata di molte cautele dalla legge per accertarsene. Ivi il notajo o pubblico ufficiale non opera; egli attesta.
Diverso, come ognun vede, è il telegrafista. Esso si ritiene nella sfera dei
pubblici ufficiali cui assiste una presunzione legale di capacità e di onestà.
Se dunque otterrassi che il perfezionamento del
telegrafo porti tanto che ognuno vergando le sue parole queste vengano dalla
macchina telegrafica tracciate in altro luogo, si avrebbe la trasmissione
diretta, e questa può anche aversi da telegrafista a telegrafista.
La trasmissione indiretta
diminuisce di fiducia a misura che si allontana dalla diretta, perché
s’aumentano i pericoli d’errore e d’infedeltà, e il grandissimo bisogno che se
ne ha deve inspirare maggiori industrie per allontanarsi, come il grandissimo
bisogno di notai dopo l’italico risorgimento suggerì quelle discipline per le
quali a tanto di perfezione giunse in Italia l’arte notarile. E Dio voglia che
si avvii a tanto che ottenga il telegrafo tanta fede quanta ne ottiene l’atto
autentico, finché almeno non è sparita sotto la scure dei forestierumi
ogni reliquia dell’italica sapienza.
§ 18. Fralle
trasmissioni indirette annoverammo la stampa, la litografia e
Quanto dissi della stampa
vale per la litografi, la quale è un modo di moltiplicazione non dissimile
moralmente e giuridicamente. La fotografia invece si accosta più al vero, ed un
manoscritto estratto a fotografia per facsimile
può presentare molti caratteri dell’autografia. I calligrafi possono su quello
operare un confronto.
§ 19. Scorsa così l’indole
intima delle manifestazioni dell’umano pensiero in rapporto specialmente alla
loro morale efficacia, restami a dire poche cose intorno all’uso filologico del
telegrafo.
Allorché la materia o il
mezzo di scrivere si rendano molto costosi, o manchi il tempo o il modo, fa
d’uopo cercare ogni industria per esprimersi nel più breve tempo e nel minor
spazio possibile. Nacquero così le note o abbreviazioni, le abbreviature dei
notai nel medio evo, il breve stile e le clausole ceterate che molti ora deridono e
che sapienti erano allora perché avevano certo riferimento a formulari. Poche
linee tenevano luogo di molte pagine come anche in oggi la brevissima lettera
di cambio tiene luogo di un esteso chirografo. La lingua latina si prestava
perché concisa e senza tante particelle, ed è perciò che non v’ha ragione di
averla messa al bando dagli uffici telegrafici. Non potrà mettere in dubbio
nessuno che la maggiore concisione non sia necessaria nei telegrammi, e l’uso
infatti introdusse di omettere gli articoli. La qual cosa, perché non vi si
pone arte, pare più facile assai che non sia. Non basta infatti quella
soppressione che rende spesso inintelligibili od equivoci i telegrammi. Bisogna
mettere l’arte in luogo di una rozza prassi, e studiare uno stile laconico,
senza che perda di chiarezza e di precisione. È ben vero che potrebbe adottarsi
una punteggiatura la quale tenesse luogo degli articoli, e rendesse facile
l’opera del telegrafista destinatario, il quale, ove debba fare l’ufficio di
indovino, come pur troppo accade, corre il pericolo di non indovinare
l’intenzione dello scrivente. (Il telegrafista infatti non deve essere un
interprete della sostanza, sebbene del carattere, ei deve cioè tradurre in
caratteri telegrafici i comuni e viceversa; addossandogli incarico più grave si
moltiplicano le fonti di errori e si scema la fiducia in questo utile mezzo di
trasmissione). Ma quando pur si riesca a trasmettere i dispacci completi cogli
articoli, è sempre necessario adoperare un linguaggio brevissimo ed energico
che si accosti allo stile epigrafico, ristretto esso pure ad angusti confini.
Sarebbe quindi opportuno che si insegnasse l’arte di stringere le molte parole
in poca e succosa sostanza: si eviterebbero con essa le prolisse e confuse
scritture, e si avrebbe grande risparmio di spesa e di tempo. La brevità non
esclude la chiarezza se non quando è priva d’arte, né esclude una sobria
eleganza: le fronde non sono fatte per l’epigrafia né pei telegrafi.