Vittore Bonfigli
Il
testamento olografo stenoscritto
Bollettino dell’Accademia italiana di
stenografia, 1934
1. - In quella parte
dell’Anleitung
in cui Gabelsberger
ordinò il materiale di erudizione che aveva raccolto attraverso
pazienti spigolature, i paragrafi destinati alle notizie sull’uso delle notae presso i
Romani fanno cenno dell’applicazione della stenografia nella compilazione di
atti giuridici.
A proposito dei
testamenti leggiamo: “Anche per ricevere
i testamenti fu frequentemente adoperata la tachigrafia;
però un tale atto non poteva acquistare alcun valore legale nelle azioni civili
se prima non era stato trascritto completamente in bella copia nella scrittura
originaria. Di qui il passo di Svetonio: L’erede Tiberio aveva ridotto il legato a 50 sesterzi; ma siccome la
somma era scritta in note e non per esteso, egli non accettò nemmeno questi.
Al contrario fra i
militari, là dove erano in vigore le leggi romane, se un soldato avesse
tracciato le sue ultime volontà anche soltanto con la punta della spada sulla
sabbia, questo testamento conservava effetto giuridico, e così anche se fosse
stato redatto in segni stenografici. Accenna
appunto a questo in via d’esempio il giureconsulto romano Paolo, quando scrive:
Il soldato Lucio Tizio dettò al suo notajo
il proprio testamento in stenografia, ma venne a morte prima che quegli lo avesse trascritto per esteso. Si domanda se lo stenoscritto
possa esser valido. Egli risolve la
questione in senso affermativo perché un soldato sul campo di battaglia,
secondo le leggi romane, può far testamento come vuole.
In realtà il testamento
ordinario romano era un atto solenne, che si faceva nei comizi, così come si
facevano le leggi. L’olografo, nella sua semplicità, non era ammesso. Ma per i
soldati che partivano in guerra e che non avevano perciò la possibilità di
testare nei comizi, si era sentito il bisogno di molto largheggiare in fatto di
formalità e di attenersi unicamente alla loro volontà, comunque
manifestata. Si riportano queste parole: Facciano
testamento come vogliono e come possono e valga, per la divisione dei loro
beni, la nuda volontà del testatore.
Spigolando ancora, il Gabelsberger
avrebbe trovato anche qualche altro riferimento da riportare.
L’uso delle notae, limitato
alla preparazione degli elementi in base a cui devono
essere compilati gli atti, atti che però non avevano valore se non quando
fossero stati trascritti per esteso in caratteri comuni, si trova menzionato
anche altrove. Si cita
Non sono un romanista e
non mi attento ad entrare nel campo della romanità; ma credo che, passando da quell’epoca, ormai troppo lontana, a quella che più ci interessa perché è la nostra, sia possibile aggiornare
questo accenno al diritto ereditario che si trova nell’Anleitung.
2. - Venuto in gran
diffusione il testamento olografo, si pone il problema se esso sia valido quando sia redatto in caratteri stenografici.
Astrattamente parlando,
in verità, il problema potrebbe porsi in rapporto ad ognuna delle tre forme di
testamento ammesse dal nostro diritto.
Ricordo per coloro che non hanno consuetudine con le discipline
giuridiche che il codice civile italiano riconosce:
1.
il testamento olografo – manifestazione di volontà scritta, datata e firmata per
intero dal testatore;
2.
il testamento pubblico – manifestazione di volontà fatta oralmente dal testatore
alla presenza di testimoni, dinanzi ad un notajo, il
quale la raccoglie e la consacra in un atto scritto, firmato dal testatore, dai
testimoni e da lui stesso;
3.
il testamento segreto – forma ibrida, in quanto è una manifestazione di volontà
fatta per iscritto dal testatore o, per suo conto, anche da un terzo,
consegnata in busta chiusa e sigillata, alla presenza di testimoni, ad un notajo, che l’avvolge in un foglio, sul quale certifica che
l’atto unito contiene la manifestazione delle ultime volontà del testatore.
Se per il testamento
olografo e per quello segreto si può porre il quesito della validità di una
scheda scritta in caratteri stenografici, astrattamente parlando, un quesito
analogo potrebbe porsi anche per il testamento pubblico: è valido
quando il notaio abbia compilato in caratteri stenografici il suo atto?
Problema che si allarga ed esce dalla cerchia del semplice diritto ereditario,
perché questo atto compilato dal notajo
non ha, in fondo, essenza diversa da quella di tanti altri che egli compie
nella sua veste di pubblico ufficiale, che raccoglie e consacra in iscritto la
manifestazione di volontà di chi ha ricorso al suo ministero. Problema, dunque,
che si porrebbe in questi termini più generali: può il notajo
consacrare in iscritto la manifestazione di volontà oralmente fattagli dal
soggetto, valendosi della stenografia? (e si intende
qui, naturalmente, della stenografia usata, non per prendere dei semplici
appunti di quello che dovrà contenere l’atto, ma proprio per stendere l’atto
stesso). Problema astratto, però; buono per una Arcadia
giuridica in cui si facciano delle esercitazioni dialettiche a vuoto; chè il notajo, fatto tradizionalista
e conservatore da quella delicata funzione che ha di evitare, a chi si affida a
lui, per quanto possibile, ogni contestazione, come adopera ancor oggi, presso
a poco, lo stesso frasario che usavano i suoi colleghi di cinquecento anni fa,
non si attenterà mai a fare una manifestazione futuristica di quella specie.
Pensare che un notaio scriva un atto in stenografia è
come pensare che, invece che nel suo studio, vada a scriverlo sulla luna. E
vogliamo discutere un atto che il notajo sia andato a scrivere sulla luna?
Ma per il testamento
olografo, ed anche per quello segreto, la questione ha un contenuto concreto.
Basta pensare alla diffusione che ha assunto la stenografia, a quella che dovrà
assumere in avvenire; basta pensare che una forma di testamento olografo
riconosciuta valida è quella della corrispondenza epistolare (una sentenza in
materia, della Corte d’Appello di Torino, rimonta al 1866), per capire che non
si discute una vuota astrazione. Il giorno in cui io, morendo, volessi lasciare
i miei beni all’Accademia Italiana di Stenografia, non
sarebbe affatto strano, date le persone del testatore e del beneficiato,
che il mio testamento fosse scritto in bella calligrafia gabelsbergeriana.
Strano sarebbe solamente che io avessi dei beni da lasciare.
3. -
Non che la questione sia stata molto dibattuta. Se rileggiamo i vecchi
commentatori del Codice Napoleonico, troviamo che
taluni di essi non se la sono posta nemmeno. Non se ne trova cenno, per
esempio, nel Troplong,
nello Zachariae,
nel Laurent.
Il Pothier
ha una frase molto generica. “Non è permesso scrivere il testamento in
caratteri o in lettere inusitate o nel paese in cui si testa o per il paese in
cui si testa”, della quale, del resto, non dà nemmeno ragione. E il perché del silenzio si comprende facilmente. Dicevano i
nostri antenati, ed è sempre vero, che ex facto oritur jus. I casi
concreti che si presentavano comunemente erano i soliti del cieco o
dell’inesperto che, per scrivere, si erano fatti guidare la mano da una terza
persona, delle cancellature, delle parole intrecciate o sovrapposte, della
materia su cui si era scritto e perfino del colore dell’inchiostro usato: cianfrusaglie su cui
si sbizzarrivano, ripetendo sostanzialmente sempre le stesse frasi, tutti gli
scrittori. La stenografia, invece, scarsamente diffusa, non poneva di fatto la giurisprudenza, e quindi la dottrina, di fronte
ad un suo particolare problema. Se andate a consultare il Repertoire del Merlin non vi
trovate nulla. Il Demolombe,
che si occupò della questione, osservò pure – e in linea di fatto aveva ragione
– che i compilatori dell’art. 970 non avevano, con tutta probabilità, nemmen pensato alla stenografia. Ma
a spiegare il silenzio dei più e la risposta negativa di altri, si aggiungeva
l’imperfetta cognizione che si aveva a quei tempi, a causa appunto della scarsa
diffusione, della reale essenza di un sistema stenografico. La stenografia era
concepita ancora come un qualche cosa di molto
misterioso, strettamente personale a chi se ne serviva, tanto che il Demolombe ha
potuto fare un ravvicinamento molto curioso:
ha trattato il problema del testamento scritto in caratteri stenografici
congiuntamente a quello del testamento scritto in crittografia. E, come nella
vita ordinaria, chi scrive in crittografia (all’infuori di certi ambienti in
cui questa è necessaria) lo fa per gioco, o perché manca di qualche venerdì,
così chi scrive un testamento in stenografia non appare a questo giurista nel
pieno possesso delle facoltà intellettuali: quanto meno
questa forma di testamento non gli sembra garanzia di sufficiente serietà. [segue il passo integrale del Delomombe].
E in Italia?
Non eravamo ancor giunti
all’epoca in cui si fabbricavano, da noi, i giuristi prendendo dei giovani di belle
speranze e tuffandoli per qualche tempo in un bagno di lingua e di cultura
germanica, per consacrarli maestri quando se ne fossero imbevuti fino all’osso,
e avessero imparato ad esprimere in italiano qualche
astruseria che altri aveva espresso prima di loro, in tedesco. Eravamo ancora
ai tempi in cui, in odio all’Austria, era di moda ignorare e disprezzare questa
lingua; ma salvo qualche eccezione, la produzione giuridica italiana era
egualmente una calcografia: solo, si trattava di figurine francesi. Del resto,
i nostri legislatori non avevano saputo fare gran cosa più che ricopiare il
Codice napoleonico. Quindi i commentatori nostri
riproducevano i commentatori del Codice napoleonico, e si davano l’aria di
saperla lunga perché citavano, o più semplicemente rubacchiavano il Troplong, il Demolombe, il Pothier e qualche
volta anche lo Zachariae,
il quale, veramente, era un tedesco, ma aveva scritto un Trattato di diritto
francese, tradotto, per buona sorte, in lingua comprensibile.
Così qualcuno non parla
neppure dell’eventualità che il testamento olografo sia
scritto in stenografia. Nei vecchi scritti del Lissoni, del Crisabi e del De Benedetti, per esempio, non se
ne trova traccia. Altri ha copiato il brano del Demolombe che ci
interessa. Il Mattei,
un commentatore ormai dimenticato, richiamando in nota l’autore francese per
dare maggior pregio alle proprie (diciamo pure così) parole, scriveva:
“La scrittura, poi, che la legge ha in contemplazione, è quella formata
di caratteri alfabetici ordinari. Per regola la stenografia e la crittografia
non soddisferebbero. Solamente nel caso di urgente
bisogno o di pericolo, quando per altro non sorga alcun dubbio sul senso dei
caratteri e delle cifre di cui il testatore abbia offerta la chiave, si
potrebbe far sussistere la disposizione scritta in tal modo”.
Era un modo, anche
quello, di scrivere dei trattati di diritto; che, del
resto, non è andato completamente in disuso, se non altro perché non affatica
troppo il cervello.
E dire
che, per poco che ci si fosse pensato sopra un minuto, si sarebbe potuto almeno
discutere se proprio proprio chi scriva un testamento
in stenografia sia malato al teschio o abbia voglia di fare un pesce d’aprile;
e si sarebbe veduto che in quel passo del Demolombe si trovava un’amenità
di calibro anche maggiore. Perché il Demolombe ammetteva la validità
del testamento crittografico o stenoscritto solo quando l’uso di quel carattere
o di quelle cifre fosse spiegato e giustificato da un pericolo sì imminente da
non lasciare al testatore campo di scrivere altrimenti. Il che, in buona
sostanza, si traduceva in questo: il testamento scritto in stenografia nella
tranquillità di una bella fiamma al caminetto non è valido perché, in quelle
condizioni, il testatore poteva ben valersi dei caratteri ordinari, e l’aver preferita la stenografia è serio indizio di non perfetta
integrità mentale: è valido, però, il testamento dell’uomo che, sorpreso nel
sonno dal terremoto, prima di fuggire in camicia sulla piazza, scrive in tutta
fretta le sue ultime volontà e, per far più presto, le scrive in crittografia,
cioè con un mezzo che richiede un paio di consultazioni della chiave per ogni
parola che si vuol indicare, e quindi un tempo quadruplo di quello che
occorrerebbe per buttar giù alla svelta quattro righe in caratteri comuni. E arrogi che quel disgraziato,
sorpreso nel sonno dal terremoto, dopo aver scritto il testamento in quel modo
molto spiccio e prima di darsela a gambe per l’imminente pericolo di fare la
fine del topo sotto le macerie della casa, dovrà prima aver cura di appuntare
la scheda testamentaria con una spilla sulla chiave e di scrivere sulla scheda:
“Questo è il mio testamento” e
sull’annesso “e questa è la mia chiave”.
Dopo di che il testamento crittografico sarà valido, perché giustificato dalla
gran fretta di mettersi in salvo prima del crollo del
fabbricato.
Tutto questo, come si
vede, è molto allegro. Anche i giuristi di fama non mancano di
allegria e il Mattei,
tutto assorto a copiare, non se ne è avveduto.
Il Vitali,
che doveva essere una persona sufficientemente seria, chè
non ha preso in giro né il Demolombe né il Mattei, disse in contrapposto:
“I progressi della stenografia sono tali che forse verrà tempo in cui
l’ordinaria scrittura sarà sostituita dalla stessa stenografia, la quale può
riprodurre con altrettanta sicurezza le parole, a quel modo che i caratteri
numerici o telegrafici riproducono un conto o un telegramma” – Certo, era
passato del tempo dall’epoca del Demolombe, ma non poi troppo: eravamo al 1883. ora, io non credo nemmeno oggi, dopo più di 50 anni, che la
stenografia possa sostituire completamente la scrittura comune, se non altro
perché i ragazzi devono imparare a leggere e a scrivere in un’età in cui non
possono occuparsi di prefissi, di suffissi e di desinenze di derivazione, e una
gran parte dell’umanità deve pur accontentarsi di scrivere come può, senza
arrivare a scomporre le parole nei loro elementi costitutivi. Ma la previsione
della diffusione che avrebbe potuto conseguire la stenografia e la precisazione
dell’assoluta sicurezza con cui si può leggere lo stenoscritto, mostrano come il Vitali avesse
veduto più chiaro di scrittori molto più famosi di lui.
Comunque, egli non poteva
sottrarsi al considerare la stenografia come un modo assai poco comune di
scrivere, chè, malgrado i progressi constatati, tale
essa era ancora. E d’altronde la sua risposta
affermativa al quesito che si poneva è assai più un’affermazione categorica che
una dimostrazione. Egli diceva:
“Se constasse che la persona che si vuole testatrice avesse adoperato i
propri caratteri stenografici, benché non conosciuti generalmente, il
testamento dovrebbe dirsi valido, quando si avesse in mano la chiave del
sistema stenografico o tachigrafico del testatore, né
potesse sorgere dubbio sul senso della scrittura. A più forte
ragione se nello stenografare avesse fatto uso di caratteri generalmente
invalsi. A stabilire l’autografia e a spiegare il senso dei caratteri e
delle clausole stenografate potranno ammettersi le prove testimoniali e le
dichiarazioni degli interpreti, a quel modo che si ammetterebbe
la perizia a spiegare il senso di un testamento scritto in lingua straniera.
L’autografia si potrà inoltre stabilire con altri caratteri stenografici
dell’autore, sui quali non possa sorgere controversia”.
Oggi, contestare la
validità di un testamento olografo scritto in caratteri stenografici, con
l’argomentazione che questa è una forma molto straordinaria di scrittura, la
quale potrebbe far supporre una mentalità non del tutto equilibrata o la voglia
di scherzare, non sarebbe possibile. Meno che mai è possibile
dubitare della sicurezza con cui si accerta quel che la scheda porta scritto e
della possibilità di stabilire l’autenticità del documento in caso di
contestazione. Intanto è esatto quel che il Vitali
osservava fin dai suoi tempi – per quanto la confusione sia stata fatta anche
da scrittori di lui assai più recenti: quando si dice che l’olografo deve di
per sé stesso far fede di essere stato scritto di mano del testatore, e che
questa circostanza può risultare unicamente quando il testatore abbia usata la
grafia ordinaria, si confonde la questione della riconoscibilità,
che è questione di prova, con quella del diritto di usare una data forma di
scrittura. M. de
Insomma, se è vero –
come probabilmente è vero – che né i compilatori del Codice napoleonico nel
dettare l’art. 970, né quelli del Codice italiano nel dettare l’art. 775, hanno
pensato alla stenografia, è pur vero che a molte altre cose essi non hanno
potuto pensare, perché venute dopo la loro scomparsa; e ciononostante, fatti e
rapporti che hanno trovato la loro origine nelle invenzioni e nelle scoperte
posteriori hanno potuto trovar norma nei codici preesistenti.
4.- Ma con ciò il
problema non è risolto. Si è provato soltanto che gli argomenti per la non
validità sono fallaci. Se
l’osservazione che il legislatore non ha neppur
pensato alla stenografia non è sufficiente per affermare la non validità,
neppure l’obiezione oppostole che, però, se il legislatore non vi ha pensato,
non l’ha nemmeno esclusa o vietata, è sufficiente ad affermare
Una considerazione che
si potrebbe fare è che non è per nulla indispensabile, per la validità, avere
una scheda scritta in quella che per noi italiani è la grafia comune,
ordinaria. Questo appar chiaro quando si prenda in
esame l’elemento lingua.
Nel concetto di scrivere
sono compresi due elementi: quello dei segni grafici da cui possono
essere simboleggiate le parole o i suoni delle parole in cui il pensiero è
manifestato e quello della lingua in cui il pensiero si esprime.
Anche a proposito della
lingua si è posto il problema, e lo si è risolto nel
senso che il testamento è valido anche se scritto in lingua diversa da quella
del luogo in cui vien fatto; valido anche se scritto
in lingua diversa da quella abituale del testatore; anche se scritto in una
lingua morta. Una sentenza in argomento della Cassazione Francese ha superato
or ora la veneranda età di 100 anni, chè
rimonta al 15 gennaio 1834. Nella storia della giurisprudenza italiana si trova
un caso di testamento scritto in vernacolo che ha dato luogo ad uno studio del Saredo.
Quando si dice che una certa scrittura è la scrittura comune,
ordinaria, si esprime un concetto che non ha affatto un valore assoluto; ha un
valore, anzi, del tutto relativo: relativo alla lingua. La scrittura comune è
una per noi italiani, che è comune anche per altri
popoli; ma quella tedesca è un’altra; altre quelle delle lingue slave, della
lingua greca, dell’araba, delle estremo – orientali, ecc. Ora lasciamo andare
le ragioni per cui si riconosce validità ad un testamento scritto in latino o,
magari, in sanscrito: ma un’ottima ragione per ammettere la validità, in
Italia, di un testamento scritto in lingua straniera è quello della maggiore
facilità e sicurezza che taluno può avere nell’uso di questa, così che è
proprio tenendosi alla consuetudine che ha con essa, che egli si mette in
quelle condizioni di piena libertà che la legge vuole in chi scrive le proprie
disposizioni testamentarie. Vi sono in Italia numerosi israeliti, che hanno conservato
gelosamente in famiglia usi e tradizioni originali: lingua e religione. Non è
strano che l’israelita, dovendo redigere il proprio testamento olografo,
destinato a rimanere nell’ambito della sua famiglia, tenga a servirsi della
scrittura ebraica. Vi sono donne straniere che, contraendo nozze nel Regno,
hanno acquistato la cittadinanza italiana, ma conservano l’uso della propria
lingua e, comunque, di questa una padronanza molto
superiore a quella che hanno dell’italiana, imparata come lingua a loro
straniera. Ecco tanti testamenti che possono essere scritti in lingua diversa
da quella italiana. Ma questi testamenti ebraici,
russi, greci e magari cinesi, saranno scritti in grafie che sono comuni per le
rispettive lingue, ma diverse dalla grafia comune
italiana.
Si potrebbe, quindi,
esser tratti ad affermare che, se il testamento può essere scritto in grafie
che sono diverse dalla nostra comune, il problema per la stenografia si
porrebbe in questi termini: se per questa debba essere fatta un’eccezione di
non validità.
Se non che, urtiamo contro
l’obiezione che affermare questa relatività del concetto di grafia comune è
esattissimo, ma appunto in tal senso va intesa la proposizione che il
testamento deve essere scritto in grafia comune: comune per la lingua in cui la
scheda è redatta; quindi con la grafia comune italiana, tedesca, russa o
cinese, a seconda che si sarà usato uno di questi idiomi.
Col che ci accorgiamo di
essere ricaduti al punto di partenza.
Ma il problema si risolve
con la massima facilità per poco che si ponga in luce quel che significa “scrivere”: un concetto che il codice non
definisce, perché di generale accezione. Vi sono molti concetti comuni che il
codice presuppone e quindi non definisce; la definizione dei quali è rilasciata
alla dottrina. Vero è che questa non è sempre eccessivamente felice, ed è
avvenuto che qualcuno, provandosi a definire il concetto di scrivere, e proprio
trattando del testamento olografo, è riuscito a
mettere insieme più spropositi di parole. Scrivere, diceva uno dei vecchi
giuristi citati più sopra, è “tracciare
su carta o su altra materia i segni grafici rappresentanti la
orale determinazione della volontà cogitante del testatore, affinché, mercè
essi, il nostro erede o chi vi abbia interesse possa giungere alla loro
conoscenza”. Quella “volontà
cogitante”, quella “orale
determinazione della volontà” sembrano proprio due caricature umoristiche
della psicologia; quel “loro” che si
riferisce alla volontà è uno svarione grammaticale bello e buono; dire che “scrivere”
è “tracciare dei segni grafici” è una
tautologia; tanto val dire che “scrivere è scrivere”; affermare che quei segni grafici “rappresentano una determinazione della
volontà” è pronunciare una proposizione priva di senso. Noi potremmo se
mai, richiamarci a quella parte introduttiva dell’Anleitung in cui Gabelsberger si
attarda ad analizzare minuziosamente l’essenza e le caratteristiche della
scrittura e dire che scrivere è comunicare
indirettamente il pensiero, mediante segni di natura permanente, percepibili
alla vista, che simbolizzano i suoni da cui le parole sono composte, cosicché
quelle parole, con cui il pensiero è espresso, possano essere esattamente
individuate anche a distanza di tempo e di spazio. È una definizione
incompleta, in quanto le scritture ideografiche, per esempio, ne restano
escluse; ma nel mondo in cui viviamo noi, in cui imperano le scritture
fonetiche, e per i fini che qui ci proponiamo, può
bastare.
E allora tutto sta a domandarsi se la stenografia risponde a questo concetto di
“scrittura”; se la scheda stenoscritta è un documento in cui le ultime volontà del
defunto sono fissate così che l’erede, o chiunque altro del caso, possano da
quello desumerle in modo certo.
Porre la domanda è dare
la risposta; ed è risolvere il problema.
Fra le tante
cianfrusaglie che la casistica e lo spirito di litigiosità hanno fatto
discutere in materia di testamento olografo, vi è stata quella della scrittura
a matita. È valido un testamento olografo scritto a matita? “Écrire au rayon c’est écrire” rispondeva semplicemente il Laurent.
Ebbene, questo vale anche per la stenografia.
Fu obiettato che spesso
a matita non si prendono che degli appunti, non si
tracciano che dei progetti di quel che si ha in animo di fare in un momento
successivo, e che lo scritto a matita potrebbe non essere che un proposito che
si aveva nell’animo e che non si è poi concretato in un atto definitivo, cioè
in uno scritto valevole. Questione di fatto – risponde il Laurent.
Starà al giudice stabilire se il documento presenti i caratteri di una vera
manifestazione di volontà destinata ai successori. E
questo vale anche per
Torniamo a quel che
abbiamo già detto innanzi. Dilungarsi, proprio sul Bollettino dell’Accademia a
dimostrare che stenografare è scrivere; che un sistema stenografico corrisponde
a quel che si intende per scrittura; che un testo
stenografico si può leggere con sicurezza e senza dubbi più ardui di quelli cui
possa dar luogo la cosiddetta scrittura ordinaria, sarebbe per lo meno di assai
discutibile buon gusto. Quel che si può dire è che oggi i passi di quei vecchi
autori che si preoccupavano della “chiave” del sistema stenografico – cioè del mezzo che desse la possibilità di svelare l’arcano,
di sollevare i velami degli scritti strani, hanno ormai uno spiccatissimo
sapore di archeologia. Roba di tempi in cui si poteva accomunare
la stenografia alla crittografia. Quel che si può dire è che oggi,
introdotta la stenografia nell’insegnamento obbligatorio delle scuole, non è
più il caso di parlare di una scrittura comune per contrapposto ad un’altra che
non è comune. Questa terminologia è un residuo storico di cui noi continuiamo a
servirci, per la solita ragione che le parole non sono che il manico per cui si pigliano le cose: ma non possiamo prendere questa
parola “comune” nel suo significato
letterale. La stenografia non è meno comune di quello che siano
l’algebra e la storia che si insegnano pure nelle scuole. Abbiamo una grafia di uso generale, usata, cioè, da tutti quelli che non sono
analfabeti, ed altre forme di grafia – in Italia ridotte ad una – che non sono
proprio di tutti, ma che pur sono comuni, come tante altre discipline che si
imparano nelle scuole.
E si può fare una
considerazione anche sul motivo per cui il testamento
deve essere scritto. Non è già perché lo scritto sia il solo mezzo col quale il
testatore può lasciar traccia esatta della sua volontà per il giorno in cui,
essendo morto, non avrà più la possibilità di fare una dichiarazione
orale. Sarebbe possibile lasciare questa traccia con una dichiarazione
fatta in vita a terze persone, perché la riferissero e ne fossero testimoni. Ma la legge ha voluto diffidare molto, in questa materia,
delle testimonianze: si è preoccupata che il testatore fosse, nel momento in
cui decideva le sue ultime volontà, pienamente libero, lungi da suggestioni o
da pressioni di possibili interessati. Questa è la ragione fondamentale per cui il testamento deve essere scritto e per cui il
testamento olografo è l’atto più semplice, più scevro di formalità che sia
regolato dal nostro diritto. L’art. 775 del cod. civ., richiedendo per esso tre soli requisiti – che sia
completamente scritto, datato e firmato dal testatore – riproduce l’art. 970
del codice napoleonico. Questo aggiunge una frase – “il n’est assujeti à aucune
autre forme” – che il nostro testo legislativo ha
omesso; ma si trattava, in fondo, di un pleonasmo inutile e tutti sono concordi
nel ritenere che non debbono esigersi, per la validità
dell’olografo, altri requisiti, all’infuori di quelli dalla legge
tassativamente specificati. Così il testatore è stato messo in condizione di
prendere, nella tranquillità della propria stanza, senza l’intervento di
alcuno, entro i limiti della legge, quelle disposizioni che vuole. E bisogna dire che la stenografia, in quanto è, sì, un mezzo comune di
scrittura, ma non un mezzo generale, accessibile a tutti, ha anzi questo
vantaggio, di rendere spesso, fra le persone da cui siamo circondate, più
sicuro il segreto che in vita desideriamo mantenere.
5. – Si può presentare
la questione del testamento olografo scritto a macchina.
Dinanzi al Tribunale di
Marsiglia si è discusso in epoca recente un caso di aggiunte
dattilografiche ad un testamento scritto a mano dal testatore e quel collegio
ne ha affermata la validità, essendosi provato che il defunto aveva messo in
azione personalmente la macchina; ma
M.me Suzanne Grinberg, avvocato a Parigi, ha dato
brevemente notizia di questa sentenza e
Debbo dire che il giudizio
della Corte di Aix mi lascia, invece, moltissimi
dubbi. M.me Grinberg si è limitata a dare un consiglio di prudenza ai
testatori e – in quanto si tratta di un consiglio di prudenza – non posso darle
torto. È meglio evitare i giudizi dei magistrati, che son
sempre giudizi di uomini soggetti ad errare. Ma,
poiché io amo immaginare quella signora capace, come la sua professione
richiede, di acuta dialettica, penso che, se essa
avesse dovuto difendere dinanzi alla Corte di Aix i
beneficiati dell’aggiunta dattilografica, avrebbe saputo prospettare degli
argomenti che, per lo meno, avrebbero fatto meditare i giudici prima di
prendere la loro decisione.
Noi siamo, qualche volta, schiavi delle parole e una locuzione, più o meno
impropria, entrata nell’uso comune, ci induce spesso a deduzioni fallaci. Così
quando si è inventata la macchina da scrivere abbiamo
create le due locuzioni “scrivere a mano” e “scrivere
a macchina”, che possono servire per distinguere questi due diversi
modi di scrivere, ma che sono assai improprie e non debbono indurci in errore
(come, quando si contrappone la scrittura cosiddetta comune alla stenografia,
non si deve ormai ritenere che la stenografia non sia anch’essa una scrittura
comune).
Le due locuzioni “lavorare
a mano” e “lavorare a macchina” si sono introdotte in ogni campo della
produzione industriale; ma sono locuzioni di uso
comune molto improprie, per lo meno nella stragrande maggioranza dei casi. In
realtà sono pochissime le trasformazioni della materia prima in prodotto
lavorato che l’uomo ottiene con la mano, tanto che, se si vuol dare un esempio
di produzione che avvenga nell’assoluta assenza di qualsiasi mezzo strumentale,
si può essere molto imbarazzati: certo non ve ne sono molti, oltre
quelli dell’impagliatura delle sedie o dei fiaschi. Salve pochissime
eccezioni, ogni lavoro “a mano” si compie con uno o più
mezzi strumentali, talvolta semplicissimi (un ago), talvolta alquanto
complicati (un telajo). La differenza tra lavoro a
mano e lavoro a macchina non consiste però tanto in una differenza di mezzo
strumentale, quanto nel fatto che nell’uno il mezzo strumentale agisce sotto la
guida costante dell’intelligenza dell’operajo, mentre
nell’altro il mezzo strumentale agisce automaticamente e l’intelligenza
dell’operaio è eliminata. Quando si tesseva, come si dice, a mano, l’operajo adoprava pure un mezzo strumentale; non tesseva con
la mano ma, propriamente, col cervello, chè doveva seguire tutto l’andamento del lavoro e procedere
con tanti singoli atti di volontà agli incroci dei fili, al succedersi dei fili
di vario colore, ecc. Con la tessitura a macchina non si è tanto avuta la
sostituzione di uno ad altro mezzo strumentale, quanto l’adozione di un mezzo
strumentale che elimina il cervello dell’operajo, il
quale operajo non ha quasi più altra funzione che
quella di abbassare la leva con cui si trasmette l’energia elettrica al
meccanismo elettrico che, da quel momento, si muove automaticamente ed
automaticamente procede alle singole operazioni.
Ma nel campo della
scrittura a macchina siamo completamente fuori dell’automatismo meccanico. Se
esiste una macchina “che tesse”, non
esiste una macchina “che scrive”. E
non può esistere. In questo campo, veramente, non si è avuta, e non si poteva avere, che la sostituzione di uno ad altro mezzo
strumentale. Anche quando si scrive, come si dice
usualmente, a mano, si ha bisogno di adoperare un determinato mezzo. Questo è
stato sostituito e la sola diversità tra i due modi di scrivere è la diversità
del mezzo strumentale adoperato. Ma il cervello di colui che
scrive non poteva essere eliminato e la situazione di colui che scrive,
nell’uno e nell’altro caso, rimane sempre quella di un essere cosciente che
formula un pensiero e lo fissa con segni grafici sulla carta. Di modo che,
anche di fronte a colui che scrive con una macchina,
si può dire puramente e semplicemente che scrivere con una macchina è scrivere,
come scrivere con una penna o con una matita, con l’inchiostro rosso o con
l’inchiostro nero.
E tuttavia questa
locuzione impropria “scrivere a mano” ha potuto trarre in
equivoco, in quanto che il codice parla di mano e si è stati indotti a pensare
che, dunque, vuole la scrittura “a
mano” e non la scrittura “a macchina”. E non è così; perché il
codice non ha inteso affatto contrapporre la scrittura
a mano alla scrittura a macchina per pretendere l’una ed escludere l’altra,
anche perché, quando il codice napoleonico fu compilato, la macchina da
scrivere no esisteva. Il codice, dicendo “scritto
per intero, datato e sottoscritto di mano (e non “a mano”) dal testatore”, ha voluto più precisamente dire che la
scheda deve essere scritta personalmente dal testatore, senza intervento di
terze persone. Dice “mano” il legislatore, e vuol dire “cervello”.
Perché si è detto giustamente
che non risponde al requisito richiesto il testamento dell’analfabeta che si
sia fatto guidare la mano da un terzo? Non era forse l’analfabeta che scriveva
con la sua mano, sia pure guidata da un terzo? È che era il suo cervello che
non scriveva: è che egli non era in grado di controllare se i segni grafici che
tracciava in quel modo sulla carta corrispondevano o
non corrispondevano alla manifestazione di volontà che egli intendeva
consacrare nello scritto.
La ragione vera, però, per cui si è tratti a ritenere che la scrittura non risponda
ai requisiti richiesti dal legislatore è quella di cui abbiamo fatto cenno più
sopra. Si pretende che la scheda testamentaria rechi in se stessa la prova
dell’autenticità della scrittura, cioè del fatto che è
stata scritta personalmente dal testatore; prova che, si dice, si può avere
nella calligrafia propria del testatore e non in uno scritto dattilografico.
Torna un’altra vecchia questione che è stata pur dibattuta: se sia valido un
testamento scritto, sì, di pugno del testatore, ma in cui questi, anziché nella
sua ordinaria calligrafia, abbia tracciato le parole in carattere stampatello.
Questione che viene riallacciata a quella della scrittura a macchina,
appunto per la pretesa che si ha della natura per sé stessa probante del
testamento olografo. Importa nullità, dice il De Benedetti,
l’avere il testatore formato il proprio testamento usando la macchina per
scrivere o scrivendo egli stesso con caratteri a stampa, perché “qui la scrittura non si presenta
riconoscibile opera del testatore, mancando in essa ogni impronta personale; né
in questi casi è possibile la prova che la scrittura sia dovuta al disponente; prova che, se anche si potesse fornire, a nulla
concluderebbe, risultando da elementi estranei alla scheda stessa. La nullità è
quindi juris et de jure”.
Siamo di fronte
all’errore che abbiamo visto rilevato già dal Vitali, e che pur si è ripetuto
così frequentemente anche dopo, per cui si confonde una semplice questione di
prova con la questione del diritto di servirsi di una data forma di scrittura;
ed ho scelto, per indicarlo, le parole del De
Benedetti, perché mostrano quanto si possa andar lontani quando ci si
inoltri per questa via senza cautela. Per lui poteva trattarsi, al momento in
cui scriveva, di un peccato veniale, ché quella sua
monografia non era se non una dissertazione di laurea data alle stampe; ma
scrittori che avevano raggiunta la piena maturità hanno esposto il medesimo
concetto, che per essi è sproposito grosso. L’idea che il testamento olografo
debba portare in sé stesso la prova della propria
autenticità è un’invenzione del tutto arbitraria, che qualcuno ha fatta e che
altri ripetono pedissequamente senza un atomo di riflessione, e per la quale si
può giungere a dire che, in caso di contestazione, ove anche si desse la prova
irrefutabile che la scrittura sia dovuta effettivamente al defunto (cioè, che
quello contestato sia effettivamente il suo testamento), ma si riuscisse a
darla con elementi estranei alla scheda, questa prova “a nulla concluderebbe”.
Basta aver quel minimo
di cautela che al De
Benedetti, principiante, poteva mancare, ma che non avrebbe dovuto
mancare ad altri, per accorgersi dell’assurdo.
Siamo in un’epoca in cui
la macchina da scrivere impera: con atti e con lettere
dattilografate si assumono obbligazioni pienamente valevoli; convenzioni
scritte a macchina, firmate dai contraenti e dal notajo
costituiscono titoli esecutivi; le sentenze originali dei magistrati sono
scritte dalle dattilografe. Può meravigliare che un uomo sano di mente, il
quale abbia trascorsa una vita operosa ed intelligente
in quest’epoca, al momento di disporre per il giorno
in cui sarà morto, non supponga nemmeno che possa contestarglisi
il diritto di scrivere il suo testamento nello stesso modo in cui sono stati
scritti a centinaja i contratti, le lettere di
obbligazione, le sentenze da cui è nato quel patrimonio che egli sta per
lasciare? E, dopo la sua morte, si rinverrà nel
cassetto della sua scrivania, chiuso con cura in una busta recante
l’indicazione “mio testamento”, un
dattiloscritto firmato a penna, secondo l’uso comune. Non sarà possibile fare
una perizia sulla autenticità di tutta la scrittura;
ma si potranno avere prove “risultanti da elementi estranei alla scheda”, ché
il de cuius
avrà manifestato a più persone il proposito suo di testare in quel modo e ne
avrà lasciato traccia in lettere od altro; non si avrà, insomma, il più lontano
dubbio che proprio quella sia la sua manifestazione di ultima volontà; ma
coloro che siano interessati a metterla nel nulla, profitteranno del fatto che
il documento è dattilografato, per impugnarlo e per questo solo fatto, malgrado
ogni certezza, il testamento sarà dichiarato inesistente e si aprirà la
successione ab intestato!
E dove se ne va la
massima antica: dicat testator et lex erit?
Trovandosi in vena di latinetti, mi si opporrà l’adducere inconveniens…: Esatto. Ma quando
l’inconveniente derivi da una disposizione di legge tassativa: allora la legge
impera, malgrado le conseguenze cui possa dar luogo,
ripugnanti pure ad un concetto di giustizia e di equità. Ma una disposizione di
legge tassativa, per cui la prova dell’autenticità del
testo debba risultare esclusivamente dall’autografia a penna del defunto non esiste.
Il codice si limita a dire che non si può testare se non per iscritto e che
l’olografo deve essere stato materialmente formato di mano del testatore. Come scritto, in che lingua, su che cosa non dice. Tutto,
dal giorno in cui si sia trovato un testamento, e questo abbia
dato luogo ad impugnativa, si riduce ad una questione di prova.
E non vi è, per la prova
dell’autenticità dell’olografo, alcuna disposizione speciale.
Siamo dinanzi a un caso comune di verificazione di
scrittura, per cui la legge stabilisce che “la
prova testimoniale non è ammessa che congiuntamente alla perizia, salvo che
questa sia impossibile per difetto di scritture di comparazione”. Vi è la
possibilità di verificazione, a mezzo di perizia,
della firma; vi è anche la possibilità di una perizia tendente ad accertare che
il testamento è stato scritto con la macchina propria di cui si serviva
normalmente il testatore. Ma, indipendentemente da
questo, considerato il caso come uno di quelli in cui mancano le scritture di
comparazione, la legge consente pienamente la sola prova testimoniale “risultante da elementi estranei alla scheda”.
Certo, è necessario provare che il testatore ha scritto personalmente, perché
ciò è richiesto dalla legge: ma, se questa prova sia fornita, le sole condizioni
che il codice pone sono osservate.
Perciò io, se avessi
dovuto risolvere il problema prospettato ai giudici di Aix, avrei probabilmente adottata una soluzione diversa:
perché, per me, non si può ragionevolmente porre il principio assoluto che un
testamento olografo non possa essere scritto a macchina, e tutto, quindi, si
riduce ad un problema di prova e di apprezzamento di fatto.
Non conosco le
circostanze su cui furono chiamati i giudici di Aix a pronunciarsi, all’infuori di una, di capitale
importanza: risultava provato che il de cuius aveva
personalmente azionato
6. – Ho fatta una
digressione, per l’affinità dell’argomento e perché, se avessi voluto parlare a
parte di questo, avrei dovuto ripetere testualmente le
premesse che valgono tanto per l’uso della stenografia, quanto per quello della
dattilografia. Ma questa digressione mi dà adito a
dire, per tornare all’argomento che ci interessa, che per la scheda stenoscritta non si pone nemmeno la difficoltà che è
apparsa, più o meno irragionevolmente, per la scrittura a macchina, in quanto
si tratta di caratteri tracciati a mano, recanti in sé stessi, come qualsiasi
calligrafia in qualsiasi sistema di scrittura cosiddetta ordinaria, la prova
della diretta provenienza dal defunto.
Il problema del
testamento olografo scritto in caratteri stenografici è stato recentemente
esaminato dall’Astraldi (Le nullità formali del testamento olografo,
c. III, § 6, Ed. Cedam),
che, riunendo la duplice qualità di fine giurista e valentissimo teorico e
pratico della stenografia, ha veduto giusto. Solo, egli incidentalmente esclude
la validità nel caso che si sia usata la macchina per
stenografare. Quest’accenno può essere soggetto a revisione. Il resto, salvo qualche sfumatura su cui è
inutile soffermarci, può costituire un sintetico riassunto di quanto sono
andato dicendo:
“La stenografia, allorché non si tratti di un
sistema meccanico, fatto cioè a mezzo di macchina, è un sistema di scrittura
che soddisfa al requisito dell’autografia, in quanto è possibile riconoscerne
l’autore da un confronto comparativo: ogni stenoscritto ha, infatti, l’impronta
propria di chi lo ha vergato, né più né meno come la scrittura in caratteri
comuni. La validità dell’olografo in caratteri stenografici è quindi, dal punto
di vista dell’autografia, una conseguenza della libertà lasciata dalla legge al
testatore di scrivere come vuole, purché di propria mano. Né potrebbe un tale
olografo annullarsi come incomprensibile, perché l’intelligenza del carattere
stenografico, allorché si tratti di un sistema noto e
praticato, può, sebbene in grado minore, equipararsi a quello della lingua
straniera. Sarà quindi una semplice questione di fatto l’indagine sulla interpretazione dei caratteri stenografici e, nel caso
di impugnazione, l’indagine sull’autografia, la quale investirà anche la
conoscenza da parte del testatore di quel dato sistema stenografico, dedotto
dalla sua grafia: si tratta in sostanza di indagine analoga a quella che si fa
per i caratteri comuni quando l’autografia sia impugnata assumendosi che il
testatore sia illetterato. Non va però dimenticato che la scrittura con
caratteri stenografici rappresenta un caso di eccezione
e può di per sé costituire un’anormalità, perché se può comprendersi l’uso
della stenografia da parte dello stenografo di professione, esso può far
dubitare, soprattutto da parte di chi tale non sia, della seria volontà di
testare: quindi l’impugnazione sarebbe basata piuttosto sulla mancanza di tale
volontà che non sul semplice fatto dell’uso di caratteri stenografici”.
Del resto, che la tesi
qui sostenuta vada ormai facendosi strada appare da
una notizia, che fu pubblicata il 16 agosto scorso, da un grande quotidiano. La
questione del testamento olografo stenoscritto si è presentata alla Corte
Suprema austriaca. Alcuni eredi avevano impugnato la validità del testamento,
sia perché redatto in stenografia e con molte correzioni, sia perché steso su
un foglio contenente altri appunti. Il Tribunale ha respinto la domanda di annullamento, e
È provato che il
testatore era solito scrivere in stenografia essendo
eccellente stenografo. Il testamento è chiaro e decifrabile. Il fatto che
contiene molte correzioni prova che egli non ha agito imponderatamente.
Le sue ultime volontà non presentano carattere anormale e non vi è quindi
motivo di non applicarle.
Riassunto della sentenza:
Che un testamento scritto in
stenografia non corrisponda alle forme prescritte è una opinione
espressa in più scritti. Ma questa opinione giuridica
non trova appoggio né nella espressione letterale della legge, che usa
l’espressione generale “scrittura”, né nella diffusione della stenografia,
ormai molto larga.
Nel caso attuale poi la firma è
aggiunta in scrittura comune, come pure il giorno, il mese e l’anno.
Il contenuto è ordinato e ragionato.
Che la dichiarazione di volontà sia contenuta in un pezzo di carta qualunque, usata per
altre dichiarazioni, non rappresenta una mancanza formale, né può essere
valutata come prova fondamentale avverso la lucidità mentale del testatore al
momento della redazione del documento, perché ciò non influenza in nessun modo
la leggibilità dello scritto.
(vedi articoletto di Allara su AIS 1935)