Vittore Bonfigli

Il testamento olografo stenoscritto

 

Bollettino dell’Accademia italiana di stenografia, 1934

 

 

 

 

1. - In quella parte dell’Anleitung in cui Gabelsberger ordinò il materiale di erudizione che aveva raccolto attraverso pazienti spigolature, i paragrafi destinati alle notizie sull’uso delle notae presso i Romani fanno cenno dell’applicazione della stenografia nella compilazione di atti giuridici.

A proposito dei testamenti leggiamo: “Anche per ricevere i testamenti fu frequentemente adoperata la tachigrafia; però un tale atto non poteva acquistare alcun valore legale nelle azioni civili se prima non era stato trascritto completamente in bella copia nella scrittura originaria. Di qui il passo di Svetonio: L’erede Tiberio aveva ridotto il legato a 50 sesterzi; ma siccome la somma era scritta in note e non per esteso, egli non accettò nemmeno questi. Al contrario fra i militari, là dove erano in vigore le leggi romane, se un soldato avesse tracciato le sue ultime volontà anche soltanto con la punta della spada sulla sabbia, questo testamento conservava effetto giuridico, e così anche se fosse stato redatto in segni stenografici. Accenna appunto a questo in via d’esempio il giureconsulto romano Paolo, quando scrive: Il soldato Lucio Tizio dettò al suo notajo il proprio testamento in stenografia, ma venne a morte prima che quegli lo avesse trascritto per esteso. Si domanda se lo stenoscritto possa esser valido. Egli risolve la questione in senso affermativo perché un soldato sul campo di battaglia, secondo le leggi romane, può far testamento come vuole.

In realtà il testamento ordinario romano era un atto solenne, che si faceva nei comizi, così come si facevano le leggi. L’olografo, nella sua semplicità, non era ammesso. Ma per i soldati che partivano in guerra e che non avevano perciò la possibilità di testare nei comizi, si era sentito il bisogno di molto largheggiare in fatto di formalità e di attenersi unicamente alla loro volontà, comunque manifestata. Si riportano queste parole: Facciano testamento come vogliono e come possono e valga, per la divisione dei loro beni, la nuda volontà del testatore.

Spigolando ancora, il Gabelsberger avrebbe trovato anche qualche altro riferimento da riportare.

L’uso delle notae, limitato alla preparazione degli elementi in base a cui devono essere compilati gli atti, atti che però non avevano valore se non quando fossero stati trascritti per esteso in caratteri comuni, si trova menzionato anche altrove. Si cita la Legge 6, de bonorum possessionem, in cui è detto che l’istituzione fatta in notae e abbreviature inusitate era nulla. Così, circa l’eccezione relativa ai militari, si ricorda della Legge de testamento militis il principio “quocumque modo constet de voluntate militis, illius ratum esse debet”.

Non sono un romanista e non mi attento ad entrare nel campo della romanità; ma credo che, passando da quell’epoca, ormai troppo lontana, a quella che più ci interessa perché è la nostra, sia possibile aggiornare questo accenno al diritto ereditario che si trova nell’Anleitung.

2. - Venuto in gran diffusione il testamento olografo, si pone il problema se esso sia valido quando sia redatto in caratteri stenografici.

Astrattamente parlando, in verità, il problema potrebbe porsi in rapporto ad ognuna delle tre forme di testamento ammesse dal nostro diritto.

Ricordo per coloro che non hanno consuetudine con le discipline giuridiche che il codice civile italiano riconosce:

1.    il testamento olografo – manifestazione di volontà scritta, datata e firmata per intero dal testatore;

2.    il testamento pubblico – manifestazione di volontà fatta oralmente dal testatore alla presenza di testimoni, dinanzi ad un notajo, il quale la raccoglie e la consacra in un atto scritto, firmato dal testatore, dai testimoni e da lui stesso;

3.    il testamento segreto – forma ibrida, in quanto è una manifestazione di volontà fatta per iscritto dal testatore o, per suo conto, anche da un terzo, consegnata in busta chiusa e sigillata, alla presenza di testimoni, ad un notajo, che l’avvolge in un foglio, sul quale certifica che l’atto unito contiene la manifestazione delle ultime volontà del testatore.

Se per il testamento olografo e per quello segreto si può porre il quesito della validità di una scheda scritta in caratteri stenografici, astrattamente parlando, un quesito analogo potrebbe porsi anche per il testamento pubblico: è valido quando il notaio abbia compilato in caratteri stenografici il suo atto? Problema che si allarga ed esce dalla cerchia del semplice diritto ereditario, perché questo atto compilato dal notajo non ha, in fondo, essenza diversa da quella di tanti altri che egli compie nella sua veste di pubblico ufficiale, che raccoglie e consacra in iscritto la manifestazione di volontà di chi ha ricorso al suo ministero. Problema, dunque, che si porrebbe in questi termini più generali: può il notajo consacrare in iscritto la manifestazione di volontà oralmente fattagli dal soggetto, valendosi della stenografia? (e si intende qui, naturalmente, della stenografia usata, non per prendere dei semplici appunti di quello che dovrà contenere l’atto, ma proprio per stendere l’atto stesso). Problema astratto, però; buono per una Arcadia giuridica in cui si facciano delle esercitazioni dialettiche a vuoto; chè il notajo, fatto tradizionalista e conservatore da quella delicata funzione che ha di evitare, a chi si affida a lui, per quanto possibile, ogni contestazione, come adopera ancor oggi, presso a poco, lo stesso frasario che usavano i suoi colleghi di cinquecento anni fa, non si attenterà mai a fare una manifestazione futuristica di quella specie. Pensare che un notaio scriva un atto in stenografia è come pensare che, invece che nel suo studio, vada a scriverlo sulla luna. E vogliamo discutere un atto che il notajo sia andato a scrivere sulla luna?

Ma per il testamento olografo, ed anche per quello segreto, la questione ha un contenuto concreto. Basta pensare alla diffusione che ha assunto la stenografia, a quella che dovrà assumere in avvenire; basta pensare che una forma di testamento olografo riconosciuta valida è quella della corrispondenza epistolare (una sentenza in materia, della Corte d’Appello di Torino, rimonta al 1866), per capire che non si discute una vuota astrazione. Il giorno in cui io, morendo, volessi lasciare i miei beni all’Accademia Italiana di Stenografia, non sarebbe affatto strano, date le persone del testatore e del beneficiato, che il mio testamento fosse scritto in bella calligrafia gabelsbergeriana. Strano sarebbe solamente che io avessi dei beni da lasciare.

3. - Non che la questione sia stata molto dibattuta. Se rileggiamo i vecchi commentatori del Codice Napoleonico, troviamo che taluni di essi non se la sono posta nemmeno. Non se ne trova cenno, per esempio, nel Troplong, nello Zachariae, nel Laurent. Il Pothier ha una frase molto generica. “Non è permesso scrivere il testamento in caratteri o in lettere inusitate o nel paese in cui si testa o per il paese in cui si testa”, della quale, del resto, non dà nemmeno ragione. E il perché del silenzio si comprende facilmente. Dicevano i nostri antenati, ed è sempre vero, che ex facto oritur jus. I casi concreti che si presentavano comunemente erano i soliti del cieco o dell’inesperto che, per scrivere, si erano fatti guidare la mano da una terza persona, delle cancellature, delle parole intrecciate o sovrapposte, della materia su cui si era scritto e perfino del colore dell’inchiostro usato: cianfrusaglie su cui si sbizzarrivano, ripetendo sostanzialmente sempre le stesse frasi, tutti gli scrittori. La stenografia, invece, scarsamente diffusa, non poneva di fatto la giurisprudenza, e quindi la dottrina, di fronte ad un suo particolare problema. Se andate a consultare il Repertoire del Merlin non vi trovate nulla. Il Demolombe, che si occupò della questione, osservò pure – e in linea di fatto aveva ragione – che i compilatori dell’art. 970 non avevano, con tutta probabilità, nemmen pensato alla stenografia. Ma a spiegare il silenzio dei più e la risposta negativa di altri, si aggiungeva l’imperfetta cognizione che si aveva a quei tempi, a causa appunto della scarsa diffusione, della reale essenza di un sistema stenografico. La stenografia era concepita ancora come un qualche cosa di molto misterioso, strettamente personale a chi se ne serviva, tanto che il Demolombe ha potuto fare un ravvicinamento molto curioso:  ha trattato il problema del testamento scritto in caratteri stenografici congiuntamente a quello del testamento scritto in crittografia. E, come nella vita ordinaria, chi scrive in crittografia (all’infuori di certi ambienti in cui questa è necessaria) lo fa per gioco, o perché manca di qualche venerdì, così chi scrive un testamento in stenografia non appare a questo giurista nel pieno possesso delle facoltà intellettuali: quanto meno questa forma di testamento non gli sembra garanzia di sufficiente serietà. [segue il passo integrale del Delomombe].

E in Italia?

Non eravamo ancor giunti all’epoca in cui si fabbricavano, da noi, i giuristi prendendo dei giovani di belle speranze e tuffandoli per qualche tempo in un bagno di lingua e di cultura germanica, per consacrarli maestri quando se ne fossero imbevuti fino all’osso, e avessero imparato ad esprimere in italiano qualche astruseria che altri aveva espresso prima di loro, in tedesco. Eravamo ancora ai tempi in cui, in odio all’Austria, era di moda ignorare e disprezzare questa lingua; ma salvo qualche eccezione, la produzione giuridica italiana era egualmente una calcografia: solo, si trattava di figurine francesi. Del resto, i nostri legislatori non avevano saputo fare gran cosa più che ricopiare il Codice napoleonico. Quindi i commentatori nostri riproducevano i commentatori del Codice napoleonico, e si davano l’aria di saperla lunga perché citavano, o più semplicemente rubacchiavano il Troplong, il Demolombe, il Pothier e qualche volta anche lo Zachariae, il quale, veramente, era un tedesco, ma aveva scritto un Trattato di diritto francese, tradotto, per buona sorte, in lingua comprensibile.

Così qualcuno non parla neppure dell’eventualità che il testamento olografo sia scritto in stenografia. Nei vecchi scritti del Lissoni, del Crisabi e del De Benedetti, per esempio, non se ne trova traccia. Altri ha copiato il brano del Demolombe che ci interessa. Il Mattei, un commentatore ormai dimenticato, richiamando in nota l’autore francese per dare maggior pregio alle proprie (diciamo pure così) parole, scriveva:

La scrittura, poi, che la legge ha in contemplazione, è quella formata di caratteri alfabetici ordinari. Per regola la stenografia e la crittografia non soddisferebbero. Solamente nel caso di urgente bisogno o di pericolo, quando per altro non sorga alcun dubbio sul senso dei caratteri e delle cifre di cui il testatore abbia offerta la chiave, si potrebbe far sussistere la disposizione scritta in tal modo”.

Era un modo, anche quello, di scrivere dei trattati di diritto; che, del resto, non è andato completamente in disuso, se non altro perché non affatica troppo il cervello.

E dire che, per poco che ci si fosse pensato sopra un minuto, si sarebbe potuto almeno discutere se proprio proprio chi scriva un testamento in stenografia sia malato al teschio o abbia voglia di fare un pesce d’aprile; e si sarebbe veduto che in quel passo del Demolombe si trovava un’amenità di calibro anche maggiore. Perché il Demolombe ammetteva la validità del testamento crittografico o stenoscritto solo quando l’uso di quel carattere o di quelle cifre fosse spiegato e giustificato da un pericolo sì imminente da non lasciare al testatore campo di scrivere altrimenti. Il che, in buona sostanza, si traduceva in questo: il testamento scritto in stenografia nella tranquillità di una bella fiamma al caminetto non è valido perché, in quelle condizioni, il testatore poteva ben valersi dei caratteri ordinari, e l’aver preferita la stenografia è serio indizio di non perfetta integrità mentale: è valido, però, il testamento dell’uomo che, sorpreso nel sonno dal terremoto, prima di fuggire in camicia sulla piazza, scrive in tutta fretta le sue ultime volontà e, per far più presto, le scrive in crittografia, cioè con un mezzo che richiede un paio di consultazioni della chiave per ogni parola che si vuol indicare, e quindi un tempo quadruplo di quello che occorrerebbe per buttar giù alla svelta quattro righe in caratteri comuni. E arrogi che quel disgraziato, sorpreso nel sonno dal terremoto, dopo aver scritto il testamento in quel modo molto spiccio e prima di darsela a gambe per l’imminente pericolo di fare la fine del topo sotto le macerie della casa, dovrà prima aver cura di appuntare la scheda testamentaria con una spilla sulla chiave e di scrivere sulla scheda: “Questo è il mio testamento” e sull’annesso “e questa è la mia chiave”. Dopo di che il testamento crittografico sarà valido, perché giustificato dalla gran fretta di mettersi in salvo prima del crollo del fabbricato.

Tutto questo, come si vede, è molto allegro. Anche i giuristi di fama non mancano di allegria e il Mattei, tutto assorto a copiare, non se ne è avveduto.

Il Vitali, che doveva essere una persona sufficientemente seria, chè non ha preso in giro né il Demolombe né il Mattei, disse in contrapposto:

I progressi della stenografia sono tali che forse verrà tempo in cui l’ordinaria scrittura sarà sostituita dalla stessa stenografia, la quale può riprodurre con altrettanta sicurezza le parole, a quel modo che i caratteri numerici o telegrafici riproducono un conto o un telegramma” – Certo, era passato del tempo dall’epoca del Demolombe, ma non poi troppo: eravamo al 1883. ora, io non credo nemmeno oggi, dopo più di 50 anni, che la stenografia possa sostituire completamente la scrittura comune, se non altro perché i ragazzi devono imparare a leggere e a scrivere in un’età in cui non possono occuparsi di prefissi, di suffissi e di desinenze di derivazione, e una gran parte dell’umanità deve pur accontentarsi di scrivere come può, senza arrivare a scomporre le parole nei loro elementi costitutivi. Ma la previsione della diffusione che avrebbe potuto conseguire la stenografia e la precisazione dell’assoluta sicurezza con cui si può leggere lo stenoscritto, mostrano come il Vitali avesse veduto più chiaro di scrittori molto più famosi di lui.

Comunque, egli non poteva sottrarsi al considerare la stenografia come un modo assai poco comune di scrivere, chè, malgrado i progressi constatati, tale essa era ancora. E d’altronde la sua risposta affermativa al quesito che si poneva è assai più un’affermazione categorica che una dimostrazione. Egli diceva:

Se constasse che la persona che si vuole testatrice avesse adoperato i propri caratteri stenografici, benché non conosciuti generalmente, il testamento dovrebbe dirsi valido, quando si avesse in mano la chiave del sistema stenografico o tachigrafico del testatore, né potesse sorgere dubbio sul senso della scrittura. A più forte ragione se nello stenografare avesse fatto uso di caratteri generalmente invalsi. A stabilire l’autografia e a spiegare il senso dei caratteri e delle clausole stenografate potranno ammettersi le prove testimoniali e le dichiarazioni degli interpreti, a quel modo che si ammetterebbe la perizia a spiegare il senso di un testamento scritto in lingua straniera. L’autografia si potrà inoltre stabilire con altri caratteri stenografici dell’autore, sui quali non possa sorgere controversia”.

Oggi, contestare la validità di un testamento olografo scritto in caratteri stenografici, con l’argomentazione che questa è una forma molto straordinaria di scrittura, la quale potrebbe far supporre una mentalità non del tutto equilibrata o la voglia di scherzare, non sarebbe possibile. Meno che mai è possibile dubitare della sicurezza con cui si accerta quel che la scheda porta scritto e della possibilità di stabilire l’autenticità del documento in caso di contestazione. Intanto è esatto quel che il Vitali osservava fin dai suoi tempi – per quanto la confusione sia stata fatta anche da scrittori di lui assai più recenti: quando si dice che l’olografo deve di per sé stesso far fede di essere stato scritto di mano del testatore, e che questa circostanza può risultare unicamente quando il testatore abbia usata la grafia ordinaria, si confonde la questione della riconoscibilità, che è questione di prova, con quella del diritto di usare una data forma di scrittura. M. de la Palisse direbbe che chi usa la stenografia per scrivere il proprio testamento, deve conoscere quel sistema stenografico e saperlo usare. Potrà risultare, in un determinato caso, che il testatore non lo conosceva affatto e, attraverso questa prova, si avrà la prova del falso. Se lo conosceva e lo usava, in caso di contestazione, si potrà procedere alla verificazione, secondo le norme di rito. Di regola le scritture di comparazione non mancheranno, appunto perché si tratta di persona che usava scrivere in stenografia: se mancheranno,si avrà un caso di mancanza di scritture di comparazione, e la prova si farà, in via eccezionale, secondo il codice di procedura civile, con altre testimonianze. Per quel che riguarda la possibilità di eseguire una perizia, mettendo a raffronto lo scritto contestato e le scritture di comparazione, si è dinanzi a un comune problema di perizia calligrafica, per la cui risoluzione possono usarsi tutti i mezzi in uso per questo genere di perizie, oltre quelli che la particolarità della scrittura può suggerire. Nessun dubbio che, in fatto di sicurezza delle conclusioni, le perizie calligrafiche hanno dato adito al formarsi di un pessimismo non del tutto ingiustificato; ma questo pessimismo si riferisce al valore della prova, non alla possibilità di usare questo mezzo di prova che il codice prescrive. E si può aggiungere che, forse, le perizie calligrafiche su stenoscritti possono disporre di elementi di maggior sicurezza che non quelle su caratteri comuni: e l’argomento meriterebbe di essere studiato, chè l’articolo “Perizie di scritture stenografiche” pubblicato dal Sautto a p. 147 del Bollettino del 1928 non ne dà che un cenno molto sommario.

Insomma, se è vero – come probabilmente è vero – che né i compilatori del Codice napoleonico nel dettare l’art. 970, né quelli del Codice italiano nel dettare l’art. 775, hanno pensato alla stenografia, è pur vero che a molte altre cose essi non hanno potuto pensare, perché venute dopo la loro scomparsa; e ciononostante, fatti e rapporti che hanno trovato la loro origine nelle invenzioni e nelle scoperte posteriori hanno potuto trovar norma nei codici preesistenti.

4.- Ma con ciò il problema non è risolto. Si è provato soltanto che gli argomenti per la non validità sono fallaci. Se l’osservazione che il legislatore non ha neppur pensato alla stenografia non è sufficiente per affermare la non validità, neppure l’obiezione oppostole che, però, se il legislatore non vi ha pensato, non l’ha nemmeno esclusa o vietata, è sufficiente ad affermare la validità. Occorre dare la prova positiva che l’olografo stenoscritto è giuridicamente valido.

Una considerazione che si potrebbe fare è che non è per nulla indispensabile, per la validità, avere una scheda scritta in quella che per noi italiani è la grafia comune, ordinaria. Questo appar chiaro quando si prenda in esame l’elemento lingua.

Nel concetto di scrivere sono compresi due elementi: quello dei segni grafici da cui possono essere simboleggiate le parole o i suoni delle parole in cui il pensiero è manifestato e quello della lingua in cui il pensiero si esprime.

Anche a proposito della lingua si è posto il problema, e lo si è risolto nel senso che il testamento è valido anche se scritto in lingua diversa da quella del luogo in cui vien fatto; valido anche se scritto in lingua diversa da quella abituale del testatore; anche se scritto in una lingua morta. Una sentenza in argomento della Cassazione Francese ha superato or ora la veneranda età di 100 anni, chè rimonta al 15 gennaio 1834. Nella storia della giurisprudenza italiana si trova un caso di testamento scritto in vernacolo che ha dato luogo ad uno studio del Saredo.

Quando si dice che una certa scrittura è la scrittura comune, ordinaria, si esprime un concetto che non ha affatto un valore assoluto; ha un valore, anzi, del tutto relativo: relativo alla lingua. La scrittura comune è una per noi italiani, che è comune anche per altri popoli; ma quella tedesca è un’altra; altre quelle delle lingue slave, della lingua greca, dell’araba, delle estremo – orientali, ecc. Ora lasciamo andare le ragioni per cui si riconosce validità ad un testamento scritto in latino o, magari, in sanscrito: ma un’ottima ragione per ammettere la validità, in Italia, di un testamento scritto in lingua straniera è quello della maggiore facilità e sicurezza che taluno può avere nell’uso di questa, così che è proprio tenendosi alla consuetudine che ha con essa, che egli si mette in quelle condizioni di piena libertà che la legge vuole in chi scrive le proprie disposizioni testamentarie. Vi sono in Italia numerosi israeliti, che hanno conservato gelosamente in famiglia usi e tradizioni originali: lingua e religione. Non è strano che l’israelita, dovendo redigere il proprio testamento olografo, destinato a rimanere nell’ambito della sua famiglia, tenga a servirsi della scrittura ebraica. Vi sono donne straniere che, contraendo nozze nel Regno, hanno acquistato la cittadinanza italiana, ma conservano l’uso della propria lingua e, comunque, di questa una padronanza molto superiore a quella che hanno dell’italiana, imparata come lingua a loro straniera. Ecco tanti testamenti che possono essere scritti in lingua diversa da quella italiana. Ma questi testamenti ebraici, russi, greci e magari cinesi, saranno scritti in grafie che sono comuni per le rispettive lingue, ma diverse dalla grafia comune italiana.

Si potrebbe, quindi, esser tratti ad affermare che, se il testamento può essere scritto in grafie che sono diverse dalla nostra comune, il problema per la stenografia si porrebbe in questi termini: se per questa debba essere fatta un’eccezione di non validità.

Se non che, urtiamo contro l’obiezione che affermare questa relatività del concetto di grafia comune è esattissimo, ma appunto in tal senso va intesa la proposizione che il testamento deve essere scritto in grafia comune: comune per la lingua in cui la scheda è redatta; quindi con la grafia comune italiana, tedesca, russa o cinese, a seconda che si sarà usato uno di questi idiomi.

Col che ci accorgiamo di essere ricaduti al punto di partenza.

Ma il problema si risolve con la massima facilità per poco che si ponga in luce quel che significa “scrivere”: un concetto che il codice non definisce, perché di generale accezione. Vi sono molti concetti comuni che il codice presuppone e quindi non definisce; la definizione dei quali è rilasciata alla dottrina. Vero è che questa non è sempre eccessivamente felice, ed è avvenuto che qualcuno, provandosi a definire il concetto di scrivere, e proprio trattando del testamento olografo, è riuscito a mettere insieme più spropositi di parole. Scrivere, diceva uno dei vecchi giuristi citati più sopra, è “tracciare su carta o su altra materia i segni grafici rappresentanti la orale determinazione della volontà cogitante del testatore, affinché, mercè essi, il nostro erede o chi vi abbia interesse possa giungere alla loro conoscenza”. Quella “volontà cogitante”, quella “orale determinazione della volontà” sembrano proprio due caricature umoristiche della psicologia; quel “loro” che si riferisce alla volontà è uno svarione grammaticale bello e buono; dire che “scrivere” è “tracciare dei segni grafici” è una tautologia; tanto val dire che “scrivere è scrivere”; affermare che quei segni grafici “rappresentano una determinazione della volontà” è pronunciare una proposizione priva di senso. Noi potremmo se mai, richiamarci a quella parte introduttiva dell’Anleitung in cui Gabelsberger si attarda ad analizzare minuziosamente l’essenza e le caratteristiche della scrittura e dire che scrivere è comunicare indirettamente il pensiero, mediante segni di natura permanente, percepibili alla vista, che simbolizzano i suoni da cui le parole sono composte, cosicché quelle parole, con cui il pensiero è espresso, possano essere esattamente individuate anche a distanza di tempo e di spazio. È una definizione incompleta, in quanto le scritture ideografiche, per esempio, ne restano escluse; ma nel mondo in cui viviamo noi, in cui imperano le scritture fonetiche, e per i fini che qui ci proponiamo, può bastare.

E allora tutto sta a domandarsi se la stenografia risponde a questo concetto di “scrittura”; se la scheda stenoscritta è un documento in cui le ultime volontà del defunto sono fissate così che l’erede, o chiunque altro del caso, possano da quello desumerle in modo certo.

Porre la domanda è dare la risposta; ed è risolvere il problema.

Fra le tante cianfrusaglie che la casistica e lo spirito di litigiosità hanno fatto discutere in materia di testamento olografo, vi è stata quella della scrittura a matita. È valido un testamento olografo scritto a matita? “Écrire au rayon c’est écrire” rispondeva semplicemente il Laurent. Ebbene, questo vale anche per la stenografia.

Fu obiettato che spesso a matita non si prendono che degli appunti, non si tracciano che dei progetti di quel che si ha in animo di fare in un momento successivo, e che lo scritto a matita potrebbe non essere che un proposito che si aveva nell’animo e che non si è poi concretato in un atto definitivo, cioè in uno scritto valevole. Questione di fatto – risponde il Laurent. Starà al giudice stabilire se il documento presenti i caratteri di una vera manifestazione di volontà destinata ai successori. E questo vale anche per la stenografia. Potrete trovare, fra le carte disperse del morto, fra appunti di vario genere, accumulati alla rinfusa, un biglietto informe in cui sia abbozzata una disposizione di ultima volontà, e potrete giudicare che quello, nelle intenzioni di chi lo scrisse, non poteva essere che un semplice appunto personale, non tradotto ancora in un vero e proprio testamento da far valere dopo morte. Questione che sorgerà e risoluzione che se ne darà, assai più per lo stato del documento rinvenuto, che per il fatto che esso è scritto in stenografia. Potrete trovare, invece, fra i documenti conservati con cura, chiuso in una busta, un foglio scritto in stenografia, in cui siano con precisione di particolari, ordinatamente indicate le ultime volontà; e allora non sorgerà dubbio che quello, nell’intenzione del defunto, doveva essere proprio il suo testamento. Qui la questione consisterà proprio nel sapere se quello che voleva essere un testamento, può validamente esserlo, dal momento che fu scritto in stenografia; e si risolverà parafrasando il Laurent: scrivere in stenografia è scrivere.

Torniamo a quel che abbiamo già detto innanzi. Dilungarsi, proprio sul Bollettino dell’Accademia a dimostrare che stenografare è scrivere; che un sistema stenografico corrisponde a quel che si intende per scrittura; che un testo stenografico si può leggere con sicurezza e senza dubbi più ardui di quelli cui possa dar luogo la cosiddetta scrittura ordinaria, sarebbe per lo meno di assai discutibile buon gusto. Quel che si può dire è che oggi i passi di quei vecchi autori che si preoccupavano della “chiave” del sistema stenografico – cioè del mezzo che desse la possibilità di svelare l’arcano, di sollevare i velami degli scritti strani, hanno ormai uno spiccatissimo sapore di archeologia. Roba di tempi in cui si poteva accomunare la stenografia alla crittografia. Quel che si può dire è che oggi, introdotta la stenografia nell’insegnamento obbligatorio delle scuole, non è più il caso di parlare di una scrittura comune per contrapposto ad un’altra che non è comune. Questa terminologia è un residuo storico di cui noi continuiamo a servirci, per la solita ragione che le parole non sono che il manico per cui si pigliano le cose: ma non possiamo prendere questa parola “comune” nel suo significato letterale. La stenografia non è meno comune di quello che siano l’algebra e la storia che si insegnano pure nelle scuole. Abbiamo una grafia di uso generale, usata, cioè, da tutti quelli che non sono analfabeti, ed altre forme di grafia – in Italia ridotte ad una – che non sono proprio di tutti, ma che pur sono comuni, come tante altre discipline che si imparano nelle scuole.

E si può fare una considerazione anche sul motivo per cui il testamento deve essere scritto. Non è già perché lo scritto sia il solo mezzo col quale il testatore può lasciar traccia esatta della sua volontà per il giorno in cui, essendo morto, non avrà più la possibilità di fare una dichiarazione orale. Sarebbe possibile lasciare questa traccia con una dichiarazione fatta in vita a terze persone, perché la riferissero e ne fossero testimoni. Ma la legge ha voluto diffidare molto, in questa materia, delle testimonianze: si è preoccupata che il testatore fosse, nel momento in cui decideva le sue ultime volontà, pienamente libero, lungi da suggestioni o da pressioni di possibili interessati. Questa è la ragione fondamentale per cui il testamento deve essere scritto e per cui il testamento olografo è l’atto più semplice, più scevro di formalità che sia regolato dal nostro diritto. L’art. 775 del cod. civ., richiedendo per esso tre soli requisiti – che sia completamente scritto, datato e firmato dal testatore – riproduce l’art. 970 del codice napoleonico. Questo aggiunge una frase – “il n’est assujeti à aucune autre forme” – che il nostro testo legislativo ha omesso; ma si trattava, in fondo, di un pleonasmo inutile e tutti sono concordi nel ritenere che non debbono esigersi, per la validità dell’olografo, altri requisiti, all’infuori di quelli dalla legge tassativamente specificati. Così il testatore è stato messo in condizione di prendere, nella tranquillità della propria stanza, senza l’intervento di alcuno, entro i limiti della legge, quelle disposizioni che vuole. E bisogna dire che la stenografia, in quanto è, sì, un mezzo comune di scrittura, ma non un mezzo generale, accessibile a tutti, ha anzi questo vantaggio, di rendere spesso, fra le persone da cui siamo circondate, più sicuro il segreto che in vita desideriamo mantenere.

5. – Si può presentare la questione del testamento olografo scritto a macchina.

Dinanzi al Tribunale di Marsiglia si è discusso in epoca recente un caso di aggiunte dattilografiche ad un testamento scritto a mano dal testatore e quel collegio ne ha affermata la validità, essendosi provato che il defunto aveva messo in azione personalmente la macchina; ma la Corte di Appello di Aix ha riformata la sentenza dei primi giudici, basando il proprio avviso sul fatto che l’art. 970 parla di testamento scritto interamente dalla mano del testatore.

M.me Suzanne Grinberg, avvocato a Parigi, ha dato brevemente notizia di questa sentenza e la Revue Stenographique Belge ha riprodotto la breve nota in cui, del resto, dopo un cenno al caso specifico, si annunzia che la decisione di Aix sembra aver raccolta la generale approvazione e si consigliano i morituri a non servirsi della macchina da scrivere per fare i propri testamenti, almeno finché la dizione dell’art. 970 non sia mutata.

Debbo dire che il giudizio della Corte di Aix mi lascia, invece, moltissimi dubbi. M.me Grinberg si è limitata a dare un consiglio di prudenza ai testatori e – in quanto si tratta di un consiglio di prudenza – non posso darle torto. È meglio evitare i giudizi dei magistrati, che son sempre giudizi di uomini soggetti ad errare. Ma, poiché io amo immaginare quella signora capace, come la sua professione richiede, di acuta dialettica, penso che, se essa avesse dovuto difendere dinanzi alla Corte di Aix i beneficiati dell’aggiunta dattilografica, avrebbe saputo prospettare degli argomenti che, per lo meno, avrebbero fatto meditare i giudici prima di prendere la loro decisione.

Noi siamo, qualche volta, schiavi delle parole e una locuzione, più o meno impropria, entrata nell’uso comune, ci induce spesso a deduzioni fallaci. Così quando si è inventata la macchina da scrivere abbiamo create le due locuzioni “scrivere a mano” e “scrivere a macchina”, che possono servire per distinguere questi due diversi modi di scrivere, ma che sono assai improprie e non debbono indurci in errore (come, quando si contrappone la scrittura cosiddetta comune alla stenografia, non si deve ormai ritenere che la stenografia non sia anch’essa una scrittura comune).

Le due locuzioni “lavorare a mano” e “lavorare a macchina” si sono introdotte in ogni campo della produzione industriale; ma sono locuzioni di uso comune molto improprie, per lo meno nella stragrande maggioranza dei casi. In realtà sono pochissime le trasformazioni della materia prima in prodotto lavorato che l’uomo ottiene con la mano, tanto che, se si vuol dare un esempio di produzione che avvenga nell’assoluta assenza di qualsiasi mezzo strumentale, si può essere molto imbarazzati: certo non ve ne sono molti, oltre quelli dell’impagliatura delle sedie o dei fiaschi. Salve pochissime eccezioni, ogni lavoro “a mano” si compie con uno o più mezzi strumentali, talvolta semplicissimi (un ago), talvolta alquanto complicati (un telajo). La differenza tra lavoro a mano e lavoro a macchina non consiste però tanto in una differenza di mezzo strumentale, quanto nel fatto che nell’uno il mezzo strumentale agisce sotto la guida costante dell’intelligenza dell’operajo, mentre nell’altro il mezzo strumentale agisce automaticamente e l’intelligenza dell’operaio è eliminata. Quando si tesseva, come si dice, a mano, l’operajo adoprava pure un mezzo strumentale; non tesseva con la mano ma, propriamente, col cervello, chè doveva seguire tutto l’andamento del lavoro e procedere con tanti singoli atti di volontà agli incroci dei fili, al succedersi dei fili di vario colore, ecc. Con la tessitura a macchina non si è tanto avuta la sostituzione di uno ad altro mezzo strumentale, quanto l’adozione di un mezzo strumentale che elimina il cervello dell’operajo, il quale operajo non ha quasi più altra funzione che quella di abbassare la leva con cui si trasmette l’energia elettrica al meccanismo elettrico che, da quel momento, si muove automaticamente ed automaticamente procede alle singole operazioni.

Ma nel campo della scrittura a macchina siamo completamente fuori dell’automatismo meccanico. Se esiste una macchina “che tesse”, non esiste una macchina “che scrive”. E non può esistere. In questo campo, veramente, non si è avuta, e non si poteva avere, che la sostituzione di uno ad altro mezzo strumentale. Anche quando si scrive, come si dice usualmente, a mano, si ha bisogno di adoperare un determinato mezzo. Questo è stato sostituito e la sola diversità tra i due modi di scrivere è la diversità del mezzo strumentale adoperato. Ma il cervello di colui che scrive non poteva essere eliminato e la situazione di colui che scrive, nell’uno e nell’altro caso, rimane sempre quella di un essere cosciente che formula un pensiero e lo fissa con segni grafici sulla carta. Di modo che, anche di fronte a colui che scrive con una macchina, si può dire puramente e semplicemente che scrivere con una macchina è scrivere, come scrivere con una penna o con una matita, con l’inchiostro rosso o con l’inchiostro nero.

E tuttavia questa locuzione impropria “scrivere a mano” ha potuto trarre in equivoco, in quanto che il codice parla di mano e si è stati indotti a pensare che, dunque, vuole la scrittura “a mano” e non la scrittura “a macchina”. E non è così; perché il codice non ha inteso affatto contrapporre la scrittura a mano alla scrittura a macchina per pretendere l’una ed escludere l’altra, anche perché, quando il codice napoleonico fu compilato, la macchina da scrivere no esisteva. Il codice, dicendo “scritto per intero, datato e sottoscritto di mano (e non “a mano”) dal testatore”, ha voluto più precisamente dire che la scheda deve essere scritta personalmente dal testatore, senza intervento di terze persone. Dice “mano” il legislatore, e vuol dire “cervello.

Perché si è detto giustamente che non risponde al requisito richiesto il testamento dell’analfabeta che si sia fatto guidare la mano da un terzo? Non era forse l’analfabeta che scriveva con la sua mano, sia pure guidata da un terzo? È che era il suo cervello che non scriveva: è che egli non era in grado di controllare se i segni grafici che tracciava in quel modo sulla carta corrispondevano o non corrispondevano alla manifestazione di volontà che egli intendeva consacrare nello scritto.

La ragione vera, però, per cui si è tratti a ritenere che la scrittura non risponda ai requisiti richiesti dal legislatore è quella di cui abbiamo fatto cenno più sopra. Si pretende che la scheda testamentaria rechi in se stessa la prova dell’autenticità della scrittura, cioè del fatto che è stata scritta personalmente dal testatore; prova che, si dice, si può avere nella calligrafia propria del testatore e non in uno scritto dattilografico. Torna un’altra vecchia questione che è stata pur dibattuta: se sia valido un testamento scritto, sì, di pugno del testatore, ma in cui questi, anziché nella sua ordinaria calligrafia, abbia tracciato le parole in carattere stampatello.

Questione che viene riallacciata a quella della scrittura a macchina, appunto per la pretesa che si ha della natura per sé stessa probante del testamento olografo. Importa nullità, dice il De Benedetti, l’avere il testatore formato il proprio testamento usando la macchina per scrivere o scrivendo egli stesso con caratteri a stampa, perché “qui la scrittura non si presenta riconoscibile opera del testatore, mancando in essa ogni impronta personale; né in questi casi è possibile la prova che la scrittura sia dovuta al disponente; prova che, se anche si potesse fornire, a nulla concluderebbe, risultando da elementi estranei alla scheda stessa. La nullità è quindi juris et de jure”.

Siamo di fronte all’errore che abbiamo visto rilevato già dal Vitali, e che pur si è ripetuto così frequentemente anche dopo, per cui si confonde una semplice questione di prova con la questione del diritto di servirsi di una data forma di scrittura; ed ho scelto, per indicarlo, le parole del De Benedetti, perché mostrano quanto si possa andar lontani quando ci si inoltri per questa via senza cautela. Per lui poteva trattarsi, al momento in cui scriveva, di un peccato veniale, ché quella sua monografia non era se non una dissertazione di laurea data alle stampe; ma scrittori che avevano raggiunta la piena maturità hanno esposto il medesimo concetto, che per essi è sproposito grosso. L’idea che il testamento olografo debba portare in stesso la prova della propria autenticità è un’invenzione del tutto arbitraria, che qualcuno ha fatta e che altri ripetono pedissequamente senza un atomo di riflessione, e per la quale si può giungere a dire che, in caso di contestazione, ove anche si desse la prova irrefutabile che la scrittura sia dovuta effettivamente al defunto (cioè, che quello contestato sia effettivamente il suo testamento), ma si riuscisse a darla con elementi estranei alla scheda, questa prova “a nulla concluderebbe”.

Basta aver quel minimo di cautela che al De Benedetti, principiante, poteva mancare, ma che non avrebbe dovuto mancare ad altri, per accorgersi dell’assurdo.

Siamo in un’epoca in cui la macchina da scrivere impera: con atti e con lettere dattilografate si assumono obbligazioni pienamente valevoli; convenzioni scritte a macchina, firmate dai contraenti e dal notajo costituiscono titoli esecutivi; le sentenze originali dei magistrati sono scritte dalle dattilografe. Può meravigliare che un uomo sano di mente, il quale abbia trascorsa una vita operosa ed intelligente in quest’epoca, al momento di disporre per il giorno in cui sarà morto, non supponga nemmeno che possa contestarglisi il diritto di scrivere il suo testamento nello stesso modo in cui sono stati scritti a centinaja i contratti, le lettere di obbligazione, le sentenze da cui è nato quel patrimonio che egli sta per lasciare? E, dopo la sua morte, si rinverrà nel cassetto della sua scrivania, chiuso con cura in una busta recante l’indicazione “mio testamento”, un dattiloscritto firmato a penna, secondo l’uso comune. Non sarà possibile fare una perizia sulla autenticità di tutta la scrittura; ma si potranno avere prove “risultanti da elementi estranei alla scheda”, ché il de cuius avrà manifestato a più persone il proposito suo di testare in quel modo e ne avrà lasciato traccia in lettere od altro; non si avrà, insomma, il più lontano dubbio che proprio quella sia la sua manifestazione di ultima volontà; ma coloro che siano interessati a metterla nel nulla, profitteranno del fatto che il documento è dattilografato, per impugnarlo e per questo solo fatto, malgrado ogni certezza, il testamento sarà dichiarato inesistente e si aprirà la successione ab intestato!

E dove se ne va la massima antica: dicat testator et lex erit?

Trovandosi in vena di latinetti, mi si opporrà l’adducere inconveniens…: Esatto. Ma quando l’inconveniente derivi da una disposizione di legge tassativa: allora la legge impera, malgrado le conseguenze cui possa dar luogo, ripugnanti pure ad un concetto di giustizia e di equità. Ma una disposizione di legge tassativa, per cui la prova dell’autenticità del testo debba risultare esclusivamente dall’autografia a penna del defunto non esiste. Il codice si limita a dire che non si può testare se non per iscritto e che l’olografo deve essere stato materialmente formato di mano del testatore. Come scritto, in che lingua, su che cosa non dice. Tutto, dal giorno in cui si sia trovato un testamento, e questo abbia dato luogo ad impugnativa, si riduce ad una questione di prova.

E non vi è, per la prova dell’autenticità dell’olografo, alcuna disposizione speciale. Siamo dinanzi a un caso comune di verificazione di scrittura, per cui la legge stabilisce che “la prova testimoniale non è ammessa che congiuntamente alla perizia, salvo che questa sia impossibile per difetto di scritture di comparazione”. Vi è la possibilità di verificazione, a mezzo di perizia, della firma; vi è anche la possibilità di una perizia tendente ad accertare che il testamento è stato scritto con la macchina propria di cui si serviva normalmente il testatore. Ma, indipendentemente da questo, considerato il caso come uno di quelli in cui mancano le scritture di comparazione, la legge consente pienamente la sola prova testimoniale “risultante da elementi estranei alla scheda”. Certo, è necessario provare che il testatore ha scritto personalmente, perché ciò è richiesto dalla legge: ma, se questa prova sia fornita, le sole condizioni che il codice pone sono osservate.

Perciò io, se avessi dovuto risolvere il problema prospettato ai giudici di Aix, avrei probabilmente adottata una soluzione diversa: perché, per me, non si può ragionevolmente porre il principio assoluto che un testamento olografo non possa essere scritto a macchina, e tutto, quindi, si riduce ad un problema di prova e di apprezzamento di fatto.

Non conosco le circostanze su cui furono chiamati i giudici di Aix a pronunciarsi, all’infuori di una, di capitale importanza: risultava provato che il de cuius aveva personalmente azionato la macchina. Queso significa che, nel giudizio, coloro che impugnavano la disposizione testamentaria avevano eccepito non essere stato il de cuius l’autore materiale del dattiloscritto o, quanto meno, non essere certo che egli lo fosse stato; e che questa eccezione, a seguito delle prove esperite, era caduta. Era certo che nell’intenzione del defunto quello doveva essere il suo testamento: affermare la non validità della scheda con l’argomento che il codice esige questa sia scritta interamente “a mano”, cioè con la penna, per me è un puro e semplice arbitrio, con cui si distrugge la volontà del testatore, circa la quale nel caso specifico nessuno può aver dubbi e che la legge ha in generale specialmente di mira, perché sia fedelmente eseguita.

6. – Ho fatta una digressione, per l’affinità dell’argomento e perché, se avessi voluto parlare a parte di questo, avrei dovuto ripetere testualmente le premesse che valgono tanto per l’uso della stenografia, quanto per quello della dattilografia. Ma questa digressione mi dà adito a dire, per tornare all’argomento che ci interessa, che per la scheda stenoscritta non si pone nemmeno la difficoltà che è apparsa, più o meno irragionevolmente, per la scrittura a macchina, in quanto si tratta di caratteri tracciati a mano, recanti in sé stessi, come qualsiasi calligrafia in qualsiasi sistema di scrittura cosiddetta ordinaria, la prova della diretta provenienza dal defunto.

Il problema del testamento olografo scritto in caratteri stenografici è stato recentemente esaminato dall’Astraldi (Le nullità formali del testamento olografo, c. III, § 6, Ed. Cedam), che, riunendo la duplice qualità di fine giurista e valentissimo teorico e pratico della stenografia, ha veduto giusto. Solo, egli incidentalmente esclude la validità nel caso che si sia usata la macchina per stenografare. Quest’accenno può essere soggetto a revisione. Il resto, salvo qualche sfumatura su cui è inutile soffermarci, può costituire un sintetico riassunto di quanto sono andato dicendo:

La stenografia, allorché non si tratti di un sistema meccanico, fatto cioè a mezzo di macchina, è un sistema di scrittura che soddisfa al requisito dell’autografia, in quanto è possibile riconoscerne l’autore da un confronto comparativo: ogni stenoscritto ha, infatti, l’impronta propria di chi lo ha vergato, né più né meno come la scrittura in caratteri comuni. La validità dell’olografo in caratteri stenografici è quindi, dal punto di vista dell’autografia, una conseguenza della libertà lasciata dalla legge al testatore di scrivere come vuole, purché di propria mano. Né potrebbe un tale olografo annullarsi come incomprensibile, perché l’intelligenza del carattere stenografico, allorché si tratti di un sistema noto e praticato, può, sebbene in grado minore, equipararsi a quello della lingua straniera. Sarà quindi una semplice questione di fatto l’indagine sulla interpretazione dei caratteri stenografici e, nel caso di impugnazione, l’indagine sull’autografia, la quale investirà anche la conoscenza da parte del testatore di quel dato sistema stenografico, dedotto dalla sua grafia: si tratta in sostanza di indagine analoga a quella che si fa per i caratteri comuni quando l’autografia sia impugnata assumendosi che il testatore sia illetterato. Non va però dimenticato che la scrittura con caratteri stenografici rappresenta un caso di eccezione e può di per sé costituire un’anormalità, perché se può comprendersi l’uso della stenografia da parte dello stenografo di professione, esso può far dubitare, soprattutto da parte di chi tale non sia, della seria volontà di testare: quindi l’impugnazione sarebbe basata piuttosto sulla mancanza di tale volontà che non sul semplice fatto dell’uso di caratteri stenografici”.

Del resto, che la tesi qui sostenuta vada ormai facendosi strada appare da una notizia, che fu pubblicata il 16 agosto scorso, da un grande quotidiano. La questione del testamento olografo stenoscritto si è presentata alla Corte Suprema austriaca. Alcuni eredi avevano impugnato la validità del testamento, sia perché redatto in stenografia e con molte correzioni, sia perché steso su un foglio contenente altri appunti. Il Tribunale ha respinto la domanda di annullamento, e la Corte Suprema ha confermato la sua sentenza con un ragionamento che si riassume così:

È provato che il testatore era solito scrivere in stenografia essendo eccellente stenografo. Il testamento è chiaro e decifrabile. Il fatto che contiene molte correzioni prova che egli non ha agito imponderatamente. Le sue ultime volontà non presentano carattere anormale e non vi è quindi motivo di non applicarle.

 

Riassunto della sentenza:

Che un testamento scritto in stenografia non corrisponda alle forme prescritte è una opinione espressa in più scritti. Ma questa opinione giuridica non trova appoggio né nella espressione letterale della legge, che usa l’espressione generale “scrittura”, né nella diffusione della stenografia, ormai molto larga.

Nel caso attuale poi la firma è aggiunta in scrittura comune, come pure il giorno, il mese e l’anno.

Il contenuto è ordinato e ragionato.

Che la dichiarazione di volontà sia contenuta in un pezzo di carta qualunque, usata per altre dichiarazioni, non rappresenta una mancanza formale, né può essere valutata come prova fondamentale avverso la lucidità mentale del testatore al momento della redazione del documento, perché ciò non influenza in nessun modo la leggibilità dello scritto.

 

(vedi articoletto di Allara su AIS 1935)