2.2 - Il disdegno di Tullio

 

 

Chiarissimo Professor De Mauro,

venti anni fa Ella ebbe ad accennarmi di critica semantica e degli inviti dei linguisti (Lucidi, Pagliaro) a non lasciarsi andare sulla china delle interpretazioni più comode e a tener invece conto di ogni incongruenza. Allora, certamente, anch’io “scivolai” sulla china di quelle sagge parole, nel senso che non ne afferrai appieno la portata; ma oggi, dopo le infinite incomprensioni del mio Bitnick, ne ho avuto la diretta, e dolorosa, consapevolezza. Ma l’ultima mia esperienza di questi generali fenomeni di fraintendimento lascia sconcertato anche il più scaltrito degli uomini.

Ho avuto l’occasione e la fortuna, recentissimamente, di illustrare a voce, per quasi mezzora, a Carlo Freccero, brillante e noto direttore di reti televisive, il format “Count-down” da me ideato, nell’ambito del quale funziona il microsatellite Bitnick. Ebbene Freccero, incuriosito ma non interessato, di fatto non ha capito niente neanche lui, e neanche con la spiegazione dell’autore - che crede di sapersi esprimere, non foss’altro per il suo mestiere di insegnante! (Pur avendo “letto” le carte Freccero ha concluso che il Bitnick può essere molto idoneo per i sondaggi di Bruno Vespa!)

Dev’essere un’ineluttabile legge di natura: non sappiamo leggere, non sappiamo ascoltare, e quando ci sembra di farlo lo facciamo sempre “in discesa”, lungo la china dell’ovvio, del risaputo, del pregiudizio. Ma c’è di più. La gente, adombrata per l’accusa di “non saper leggere”, mi si rivolta contro e con addebiti ben più infamanti (anche perché larvati)!

Non è la prima volta che io mi appello al maestro, all’amico e al linguista De Mauro - che ben sa che la lettura vera è “in salita” -, però sarà l’ultima. Un ulteriore silenzio, dopo le Sue ultime ambigue parole dell’estate 2001, mi autorizzerà ad interpretarlo come sconfessione su tutti i fronti (Bitnick, Lucidi, Hipp, ecc.) e a trarne le necessarie conseguenze.   

Cordiali saluti.       Andrea Gaeta

 

P.S. – In soldoni, prof. De Mauro, quello che chiedo è una semplice “raccomandazione”, una telefonata che in condizioni normali non si nega a nessuno, per essere ascoltato da un dirigente tecnico della RAI e avere una risposta formale e articolata che non sia una di queste tre: non mi interessa, non è di mia competenza, i sondaggi già si fanno col televoto.

 

 

Questa lettera[1] l’ho scritta lo scorso 2 aprile e ho fatto appena in tempo a recapitarla al De Mauro mentre stava uscendo dal suo ufficio della Sapienza per andare alla consueta lezione delle 11. Dopo i soliti formali ringraziamenti reciproci e dopo aver conservato la lettera (senza leggerla) mi congeda, ma subito dopo, mentre ero nel corridoio pieno di gente, aggiunge queste testuali parole: “Sperando, Gaeta, che non siano i suoi soliti insulti…”. Resto esterrefatto e allora De Mauro, con malcelato sdegno (o …disdegno), corregge il tiro: "No, è che un amico mi ha detto che lei va scrivendo lettere di insulti…", e a nulla valgono le mie professioni di innocenza e le richieste di spiegazioni. Indi, sempre più infastidito e indignato, mi lascia in asso davanti a quelle stesse scale per le quali “tutti gli allievi di Lucidi, scendendo da glottologia a lettere, ripeterono, per secoli, (provandone il duplice funzionamento prosodico) la frase-test di Lucidi i fratelli hanno ucciso i fratelli"[2]. L’episodio sarà durato al massimo un paio di minuti, senza escandescenze.

Fermamente intenzionato a risalire alla fonte di queste diffamazioni che non solo infangavano la mia immagine agli occhi di un ministro della Pubblica Istruzione[3], ma probabilmente mi procuravano anche danni materiali per il mancato sfruttamento del Bitnick[4], diedi incarico al mio legale di esperire le opportune indagini[5]. Così, due mesi dopo, seppi che De Mauro: 1) negava la circostanza; 2) al più poteva aver detto che gli dava fastidio che le lettere a lui indirizzate finivano su internet; 3) le mie lettere non le ritiene assolutamente di insulti, ma solo aggressive; 4) nessuno gli ha mai parlato male del prof. Gaeta, per il quale la porta del suo studio è sempre aperta; 5) lui è un professore di lettere, non capisce niente di elettronica; 6) non ha mai raccomandato nessuno, nemmeno suo figlio.

L’atteggiamento del De Mauro sembrerebbe allora collimare con quanto io ero autorizzato a pensare, almeno fino a questo fatale 2 aprile, e cioè che “il De Mauro, in altre faccende affaccendato, non si curava né del Bitnick né del suo inventore, e che però il suo silenzio, peraltro legittimo, poteva essere interpretato nell'ambiente accademico che subiva i miei SOS, come una sconfessione. Il solo peso del nome del De Mauro faceva si che il suo presunto giudizio negativo (il Bitnick è una stronzata!) fosse un dato acquisito, e il malinteso si perpetuava e ingigantiva[6].

Questa spiegazione però non “quadra”, vi sono troppe incongruenze inspiegabili. La fine ambiguità di De Mauro si coglie nelle sue parole: Non ho amici, influenti o no, nella RAI e, se li avessi, sarebbero persone non abituate a fare/ricevere favori. Non voglio tuttavia lasciare andare a vuoto le Sue insistenze. Se in settembre avrò l’occasione di incontrare qualche collega esperto di satelliti per comunicazioni, gli chiederò la cortesia di esaminare il Bitnick e, se mi concederà il suo tempo, informerò Lei e procurerò di creare i necessari contatti[7]. Molte persone estranee e del tutto obbiettive le hanno decodificate così: De Mauro o non ha capito un bel niente o fa dell’ironia a buon mercato. Il primo caso confermerebbe la mia tesi del fraintendimento (sottovalutazione) del Bitnick e il maxiingorgo semantico[8] di tutti i miei scritti[9]; nell’altro caso sarebbe arduo stabilire se si tratta di ironia lecita (De Mauro ha capito che il Bitnick è una fesseria e irride di cuore) o di ironia illecita (De Mauro ha capito, ha sentore, che il Bitnick è cosa seria e sfotte per screditare)[10].

De Mauro, forse, sorriderà o continuerà a sorridere per questo “processo alle sue intenzioni”. Egli, bontà sua, cita Lucidi, ha citato i miei lavori[11], ha lasciato aperta per me – mi manda a dire – la porta del suo studio! Ma né lui né il suo entourage (buona parte dell’intellighenzia italiana) si è mai occupato del Bitnick e men che meno si è sognato di calunniare chicchessia! E, ammesso e non concesso, che egli abbia dimenticato Lucidi, questa “apostasia” non sarebbe un reato, come non lo è il disinteressarsi dei miei problemi, specie se le mie “insistenze” superano i limiti della civile convivenza. A queste obiezioni risponderei che il mio atteggiamento verso  De Mauro, come verso chiunque, è sempre stato aperto, rispettoso e mai invadente: la mia colpa, invece, è unicamente quella di aver aspirato alla sua stima[12].

Come ho cercato di raccontare nei primi capitoli De Mauro, a differenza di altri, non ha mai rotto o voluto rompere i ponti con me. Mi ha dato “spago”, mi ha fatto credere di tenermi in qualche conto, pur senza prendere a cuore, interessarsi e anzi il più delle volte menandomi per il naso. Il suo atteggiamento ai miei occhi è sempre stato quello di una sfinge abbottonatissima e dopo venti anni credo di averne risolto solo in parte il mistero. Forse la sua è stata gelosia per quello che ho pubblicato, facendogli involontariamente ombra, o vergogna per aver lasciato che altri (Titone) pubblicasse quello che invece competeva a lui. Ma queste sono cose di dettaglio, sentimenti atrofizzati, che non albergano negli uomini avvezzi agli agoni politici.

De Mauro ama poi giocare con la parola “raccomandazione”, il male endemico di cui pare soffra l’Italia e da cui egli, buon per lui, si dichiara immune. Il mio parere al riguardo collima con quello espresso dal senatore Giulio Andreotti qualche mese fa in una intervista premessa al noto varietà televisivo “I raccomandati”: i favoritismi sono da condannare, ma la raccomandazione “pulita” non solo è utile, ma necessaria. Essa svolge l’identica funzione della “presentazione” nei libri: l’autore affermato e noto “raccomanda” una persona ignota rendendosene in qualche modo mallevadore, infondendo in questo modo nel lettore quel sano atteggiamento di fiducia già citato. Sembrerebbe che De Mauro non mi raccomandi perché “non ha mai raccomandato nessuno”, ma in realtà egli la sua funzione (peraltro istituzionale) di “garante” l’ha già svolta, con la presentazione in negativo o contro-raccomandazione, nel momento in cui (intenzionalmente o preterintenzionalmente) ha avallato la mia immagine distorta e infangata, o l’ha lasciata intendere.

Ma, si badi, non si deve pensare ad una sorta di “congiura della denigrazione”, per di più ordita in seno all’Accademia. Il termine “congiura” può essere fuorviante, l’illustre De Mauro non si abbasserebbe a tanto, ma egli è opinion maker, la sua autorità, il prestigio sono tali che può esser bastato un sorriso, un ammiccamento per sconfessare o “sconsacrare[13] il Bitnick, e al contempo distruggere la reputazione di un uomo. Quell’alone di silenzio, indifferenza e insofferenza che continua a circondarmi, senza che finora abbia potuto difendermi, potrebbe avere la sua origine (il focolaio diffamatorio), proprio nel sorriso di De Mauro. E si badi anche alla differenza, invero molto sottile – in bilico tra codice morale e codice penale – tra l’ignorare, il disinteressarsi, il rimuovere, l’emarginare, il non prendere in considerazione da un lato e il boicottare, il diffamare, lo screditare o il semplice deridere dall’altro. La libertà di espressione è sacrosanta, fuori discussione, ma la posizione di De Mauro, proprio perché è “De Mauro”, esige quella prudenza e quella speciale ponderazione che, in certi casi, ne limiti e delimiti la sfera espressiva. Forse, in qualche misura, posso aver contribuito anch’io a crearmi questa nomea, a gettarmi la zappa sui piedi, a non aver saputo "vendere" il prodotto. Ma le calunnie non sono mie fantasie, sono oggettive; le maldicenze non sono solo becere, come finora ho voluto credere, ma interessate.

Certo, la mia invenzione può sconcertare, incuriosire, essere criticata, sfottuta e invece l’unico feedback, l’unica eco che mi è tornata dal Bitnick è stata il silenzio, l’evanescenza, la reticenza assoluta, come se un tabù avesse cucito tutte le bocche. Perché, mi sono chiesto da anni? Si scrive e si cazzeggia di cose ben più meschine! Com’è possibile che in dieci anni non abbia trovato un esperto delle problematiche relative al Bitnick? Sono forse un marziano, tratto di cose che non stanno né in cielo né in terra, sono inaffidabile, sono un pazzo, un sovversivo, un genio incompreso? Niente di tutto questo: se qualche dubbio poteva esserci questo si è dissolto dopo l'apprezzamento – prudentissimo e privato – del Bitnick da parte del Di Trocchio[14]. L’unica spiegazione che rimane è, nel caso di buonafede, il condizionamento diciamo esterno per l’opinione del De Mauro, o la deferenza servile, nel caso di malafede.

Forse la citata email a Cimino contiene un vizio logico: l’apparente disinteresse e silenzio di De Mauro non avrebbe mai potuto essere interpretato come sconfessione, bensì come assenso (chi tace acconsente, silenzio assenso…), soprattutto perché da sempre, ingenuamente, avevo “usato” il nome De Mauro, quasi a garanzia della mia serietà. Per esempio, già nel 1999, prima de Il Bitnick incompreso (del 2000), pensavo e scrivevo che a monte dell’insuccesso del Bitnick altro non c’era che un problema linguistico, di comunicazione, e concludevo che De Mauro pur tacendo dava forza al fatto che ero stato incompreso[15]. C’è però la possibilità, tutt’altro che remota, che De Mauro, invece, non abbia taciuto, ma abbia parlato, forse al consigliere Rai Gamaleri, dipingendomi come “matto”, o qualcosa del genere, e innescando una reazione a catena diffamatoria, dopo la quale le parole non servono più: il silenzio, da solo, alimenta l’equivoco e “parla” come forse a De Mauro fa comodo, contro me e il Bitnick.

La chiave per risolvere questa ambiguità diciamo “etica” è di natura “fonetica” e ce la fornisce lo stesso De Mauro. In un una sua dotta opera[16] egli infatti ricorda che le apparecchiature elettroacustiche di Gemelli e Guberina hanno dimostrato che l’andamento prosodico dell’espressione “è un pazzo” è diverso secondo che si intenda “è un imprudente” oppure “è un anormale neuropsichico”. Forse De Mauro, parlando con Gamaleri, intendeva riferirsi alla prima accezione e invece il suo interlocutore, privo di strumentazione, ha equivocato.

La responsabilità morale di Tullio De Mauro emersa da questo mio “processo alle intenzioni” è simile a quella del Pagliaro nei confronti di Lucidi[17]. Per quanto attiene le responsabilità penali lascio invece alla magistratura il compito di accertare la sussistenza, l’epoca, la durata, gli effetti e gli autori della diffamazione[18].

Non compete infatti a questo opuscolo – che funge solo da filo conduttore e da bussola cronologica – entrare nei dettagli del contenzioso, fornire nomi, cognomi, circostanze, date e dati. Mi lusingo però che sia gli scopi primari – rimuovere gli intoppi che hanno impedito la presa in considerazione del Bitnick e ripulire la mia immagine infangata – sia quelli secondari (epperò non inferiori per importanza) – onorare la memoria di Lucidi e accennare a qualche risultato di rilievo delle mie ricerche scientifiche – possano essere stati raggiunti, in quanto l’organicità e la coerenza delle mie argomentazioni depongono, credo, per la loro affidabilità e veridicità. E mi lusingo anche di non essere apparso come un moralizzatore o, peggio, un moralista. Sono state le circostanze che mi hanno costretto a toccare la corda etica, un registro che non mi si addice, in quanto io sono un individuo pragmatico, un uomo di scienza, meglio ancora un tecnico (anche della lingua, perché no?) cui ripugnano filosofie, dogmatismi e i padri più o meno “spirituali” posti su altari, o altarini, di ogni tipo. Nessuno può essere depositario, o avere l’esclusiva delle conoscenze scientifiche che invece, per loro natura, non possono non essere disperse, sparpagliate tra tanti.

Chiudo il capitolo con due citazioni, sul Bitnick e sulle invenzioni in generale:

“Avendo esaminato i documenti e il video prodotti dal professor Gaeta per illustrare il senso della propria invenzione e dopo aver discusso con lo stesso professore, nonché con colleghi matematici e informatici, credo di poter affermare che quanto il professor Gaeta  da anni propone  costituisca una intelligente integrazione di effetti psicologici, elettromagnetici e di spettacolo in grado di generare (senza dispendio di energia ma attraverso un semplice sistema di comunicazione a codifica implicita) l'impressione di un coinvolgimento diretto di grandi masse di spettatori a giochi televisivi a premi. Il sistema ideato dal professor Gaeta consente inoltre di valutare oggettivamente tale sensazione verificando in modo molto semplice l'esattezza delle risposte attraverso il piccolo apparecchio denominato "Bitnick". L'unico problema evidenziabile è quello della comunicazione dei risultati ad un organo centrale di emittenza televisiva, nel caso in cui  il sistema venisse implementato per una premiazione su scala nazionale, invece che per il semplice coinvolgimento su scala nazionale seguito da premiazione su scala domestica o domestica-allargata (tipo Bingo o altro)”[19].

 “Avere una buona idea può capitare a chiunque. Il difficile è farla accettare. C’è chi semplicemente non la capisce e chi la rifiuta per i motivi più vari, dall’invidia al pregiudizio, per avere l’opportunità di appropriarsene o perché ha in mente di sfruttarne altre. Infine ci sono gli esperti, che giustamente non vedono di buon occhio che dilettanti e outsider li mettano in ombra” [20].

 

 



[1] È il penultimo documento (Bitnick News n. 55) pubblicato nel mio sito (il n. 56 riguarda un sottoutilizzo del sistema Gaeta, a fini pubblicitari). In questo capitolo ci sarà qualche rimando a tali documenti, che sarebbe problematico ristampare in questo opuscolo. Il lettore interessato non avrà comunque difficoltà a rintracciarli on line.

[2] Cfr. testimonianza Morpurgo in Gaeta, Interviste, cit.

[3] E presumibilmente, di riflesso, la mia reputazione negli ambienti universitari dove sono conosciuto.

[4] Per l’intelligenza di questa proposizione è imprescindibile la conoscenza di Gaeta, Bitnick, cit. e i relativi aggiornamenti in Bitnick News.

[5] Precedentemente avevo pregato Federico Di Trocchio di adoperarsi per sviscerare questo presumibile equivoco e chiarirlo, sia a me sia, soprattutto, al ministro.

[6] Questo è quanto scrivevo, in una email privata del 26.6.2002, al prof. Guido Cimino.

[7] Lettera del 20.8.2001 (Bitnick News n. 31).

[8] Cfr. lettera a De Mauro del 21.1.2002 (Bitnick News n. 39).

[9] Ma non per l’oscurità delle mie parole, ma a causa di due elementari questioni di linguistica e di buon senso: primo, per capire un libro bisogna leggerlo (e non occorre essere linguisti per sapere che c’è modo e modo di leggere); secondo, “occorre che il lettore, così come l’ascoltatore, si trovino nelle normali disposizioni di fiducia ricettiva” (Pagliaro, Critica semantica, cit., p. VIII). Invece è il pregiudizio, funesto cancro della psiche umana, a orientare e persuadere, e non soltanto, si badi, il pubblico grosso, ma anche i lettori più fini e “obbiettivi”.

[10] A titolo accademico si potrebbe impiantare un sillogismo sul principio della doppia menzogna o della doppia verità. Mutatis mutandis il discorso potrebbe valere per qualche sedicente “amico” secondo cui io sarei incapace di distinguere gli amici: se fosse veramente amico mi aiuterebbe lui nella discriminazione!

[11] De Mauro, Scuola romana, cit.

[12] Per piccoli o grandi sconfinamenti in cose linguistiche (scoperta di Lucidi, barbaros, audiogiochi).

[13] Uso questo termine in senso antitetico rispetto a frasi come “La recensione lo ha consacrato scrittore dell’anno…”; “Telèma non dà notizia di invenzioni che non abbiano ricevuto il crisma di riconoscimenti indiscutibili; ecc. In termini giuridici questa “sconsacrazione” si chiama “diffamazione”.

[14] Cfr. Bitnick News n. 44 e n. 52 e più avanti (p. 36).

[15] Lettera aperta a De Mauro, Gamaleri, Ferrero, Luccio, Mininni del 6.12.1999, in Gaeta, Bitnick, cit.

[16] T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari 1970 (p. 414 di una delle edizioni successive)

[17] Ardisco paragonarmi a Mario Lucidi solo a fini, diciamo, didattici. Sia chiaro, poi, che la responsabilità di Pagliaro è verso una scoperta, quella di De Mauro verso una semplice invenzione.

[18] Ci sono persone, amici e non, che sono a conoscenza dei fatti (diffamazione, equivoci, veti più o meno larvati o espliciti del De Mauro). Mi scuso in anticipo del fastidio o imbarazzo che sarò costretto a procurar loro, facendoli convocare come testi.

[19] F. Di Trocchio, Comunicazione personale (23.12.02). Il problema evidenziato in realtà non sussiste.

[20] F. Di Trocchio, Il genio incompreso”, Milano, 1997 (p. 3)