2.1 - Il disdegno
di Guido
In vita, sia Buccola che Lucidi, i miei
venerati autori di riferimento, furono molto famosi nell’ambiente accademico –
europeo il primo, locale (La Sapienza
di Roma) il secondo. La loro morte prematura, che fu vissuta con sincero
cordoglio, costituì una perdita reale per
la Scienza perché entrambi avevano fatto o stavano facendo scoperte, pur in
campi a prima vista differenti (psicologia
e linguistica), destinate a
integrarsi, convalidarsi e rafforzarsi mutuamente. Anche se di entrambi era
stata annunciata la pubblicazione postuma di alcuni di questi lavori
incompiuti, i rispettivi “maestri e al
contempo discepoli” Enrico Morselli e Antonino
Pagliaro, invece, per
negligenza, insensibilità o altro, li lasciarono disperdere.
Oggi, comunque, dopo
oltre un secolo, presso qualche ristretto ambiente di storici della scienza il
nome di Buccola circola, qualche saggio, qualche convegno, qualche tesi su di
lui vengono fatti; invece di Lucidi, morto meno di mezzo secolo fa, rimane il
ricordo, sempre più sbiadito, solo tra i fortunati, ingrati e per legge
fisiologica sempre più rari discepoli che ebbero la ventura di conoscerlo di
persona. Come mai? Quali furono le “circostanze
esterne che limitarono la diffusione e la conoscenza dei suoi lavori su un più
vasto piano di rapporti internazionali”[1]?
Rispondere a questa
domanda significherebbe scrivere metà della biografia di Lucidi, cosa che mi è
preclusa non tanto per compiacere qualche barone universitario e non mettere a
repentaglio la mia carriera (come forse ad altri accaduto!), ma solo per
mancanza di dati oggettivi. Ciò nondimeno in queste righe avanzerò qualche
ipotesi, appoggiandola, ove possibile, ai pochi fatti sicuri, e mi prenderò
anche la libertà di qualche giudizio morale, per spiegare e al contempo cercare
di abbattere la cortina di silenzio calata su Lucidi, silenzio che non è solo
disinformazione, ma una cosa meschina e ingiustificata in quanto senza un
perché, almeno apparente.
Agli autori (De Mauro, Vacca, Pagliaro, Bausani, Belardi, Engler) qua e là citati nei
miei lavori a proposito di Lucidi bisogna aggiungere, per maggiore completezza
bibliografica, e trascurando tutte le citazioni di riporto (nell’Enciclopedia Einaudi il nome di Lucidi viene addirittura storpiato!), Albano Leoni[2], Dondoli[3], Eco[4] e soprattutto Nencioni, che menziona Lucidi in
due lavori, uno del 1946[5] e l’altro del 1975[6], illuminanti per la
nostra ricostruzione di alcune querelle
scientifiche e per le beghe e le gelosie accademiche tra l’emergente Lucidi e
gli affermati linguisti di chiara fama Nencioni, Devoto, Pagliaro, Belardi e De Mauro.
Per cinque lustri, dal
1936, anno della sua laurea, al 1961, anno della sua morte, la giornata di
Mario Lucidi si svolse costantemente nella cerchia universitaria, da assistente
volontario prima, poi da straordinario e infine ordinario alla cattedra di
Glottologia[7]. Nell’anno accademico
1944-45 svolse esercitazioni[8] a complemento delle
lezioni del Nencioni, ma ho il sospetto che tra assistente e titolare di
cattedra non ci sia stata quell’intesa che ci si dovrebbe aspettare. Un primo
malinteso riguardò infatti la mancata pubblicazione, “per circostanze
sopraggiunte”[9], dell’“operetta” appena citata. Un secondo
equivoco invece fu di natura dottrinale, nel senso che Nencioni, abituato da
buon accademico a recensioni diciamo “devote”[10], credette di leggere
tale operetta in termini elogiativi
(“Le considerazioni teoriche di Lucidi
sembrano confortare, almeno in parte, la nostra tesi che la lingua è una realtà
istituzionale…)[11] e si “abbassò” a
entrare, altrettanto elogiativamente, nel merito del concetto di funzionalità introdotto dal “giovane di
valore” Lucidi. Pentendosene però amaramente, azzardo, quando pochi mesi dopo
apparve il citato lavoro La lingua è…
in cui Lucidi, con grande stile e a chiare lettere, rilevò gli errori
metodologici e interpretativi sia del Nencioni che del Devoto[12]. Tutto questo, credo,
segna e spiega l’inizio della ...poca fortuna di Lucidi e del suo graduale
oscuramento!
Nel lavoro del 1975
Nencioni ricorda Lucidi come allievo
di Pagliaro e amico di De Mauro. È vero, Lucidi seguì
i corsi di Pagliaro (dal ‘32 al ‘36)
ma definirlo suo allievo, nel senso
accademico del termine, è riduttivo, perché egli, come Buccola, fu autodidatta. Viceversa De Mauro, che senza dubbio fu
molto amico di Lucidi, ne fu soprattutto allievo
a tutti gli effetti, tanto che, alla sua scomparsa, lo sostituì per qualche
tempo nell’insegnamento[13], anche se ben presto,
trovandosi, come Belardi[14], a scegliere tra due
strade, Pagliaro e Lucidi, scelse la
prima[15], abbandonando, quasi da
apostata, il suo vero maestro (Lucidi)
e la ricerca nel solco da questi tracciato.
Alla morte di Lucidi,
nell’immaginario collettivo dell’ambiente della Sapienza e dei tantissimi che lo conoscevano, la dispersione e la
mancata pubblicazione delle carte inedite, il giallo irrisolto dei nastri
magnetici, lo scaricabarili per le trascrizioni furono percepiti come un delitto e comunque come una vergognosa
cecità di fronte ad un fenomeno, la scoperta di Lucidi, di cui si sarebbe
potuto mettere in discussione tutto tranne l'esistenza. E a qualcuno più
addentro nelle segrete cose non
sfuggì che la responsabilità morale di tutto ricadeva specialmente su Pagliaro, il “principale”.
Dopo cinque anni, nel
1966, Belardi credette di rimediare
riproponendo alle generazioni più giovani di studiosi nella quasi interezza i
lavori editi e facendoli precedere da
un “ricordo” di Lucidi più
articolato, e forse più sentito, di quello del Pagliaro. Anche lui però, dopo
l’esposizione delle questioni di linguistica generale e alcune dotte
disquisizioni su argomenti di interesse specialistico (scacchi iranici, accento nel persiano moderno, origine del
trisillabismo in greco), non accenna agli inediti e glissa su “quel pregevole excursus di Lucidi che è il saggio dantesco sul Disdegno
di Guido, consequenziale appendice integrativa di un precedente saggio di
Pagliaro”[16]. Prima di passare al
raffronto di questi due determinanti testi danteschi, elenchiamo le principali
lacune dei Saggi linguistici di
Lucidi curati da Belardi:
1. non furono quell’opera maggiore di Lucidi che tutti aspettavano;
2. uscirono dopo ben cinque anni dalla morte di Lucidi;
3. non contengono la
ristampa del Ricordo di Pagliaro;
4. non contengono il primo
paragrafo del citato Disdegno di Guido, che
include due importanti note, non proprio elogiative
del Pagliaro[17];
5. non contengono i Cenni di fonetica, inseriti nei citati Lineamenti;
6. non contengono le parti
edite dal sottoscritto nel 1992 e in questo fascicolo;
7. accennano molto
blandamente alle scoperte prosodiche
di Lucidi;
8. sono pubblicati da una
casa editrice con rete di distribuzione ridotta.
Uno dei più famosi Saggi di “critica semantica” del Pagliaro, già citati, riguarda l’analisi
puntuale dei seguenti celebri versi, che per il loro fascino e la compendiosità
tipica dello stile dantesco, hanno attratto l’attenzione plurisecolare di
schiere di “critici letterari” e cioè
“del testo”[18]:
Inf. X. 61: … Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena,
forse cui
Guido vostro ebbe a disdegno.
Non è questa la sede, né
soprattutto ho io la competenza per dire la mia sul merito di queste parole
oscure pronunciate da Dante sul figlio di Cavalcante, e in particolare su quell’ebbe che dà origine a una proliferazione di malintesi. Il mio scopo
è invece mettere a raffronto l’esegesi del Pagliaro e la diciamo contro-esegesi di Lucidi[19], anzi semplicemente
quello di richiamare l’attenzione sul delitto di lesa maestà commesso da un
dispettoso e irriverente allievo nei confronti del maestro.
Lucidi non scrisse un’appendice al saggio di Pagliaro, come
sminuisce Belardi, ma, nientemeno, si permise di scrivere: “Talvolta sembra che il Pagliaro si limiti ad
accompagnare sulla buona via sino al primo gradino dell’interpretazione,
lasciando intuire più che sviluppando il risultato cui si può giungere… Fedele
al suo metodo il Pagliaro dal vaglio dei valori sintattici viene condotto a
risultati assolutamente nuovi i quali… credo possano assumere, attraverso una
ricerca più approfondita, uno sviluppo ben più vasto…”, corroborando nelle
fitte pagine seguenti le proprie argomentazioni con uno scavo
linguistico-psicologico assolutamente unico.
Ecco, i contrasti tra
Lucidi e Pagliaro furono di questo tenore, e a volte per questioni,
apparentemente, solo terminologiche. Probabilmente chi è profano del mondo
accademico non riesce a cogliere gli insulti, le allusioni, le sottigliezze, le
ironie, le battaglie – più o meno nobili o meschine – combattute da questi
titani del sapere, alcuni dei quali, ignorando l’ammonimento di Antonio Maria Cervi[20], si credono e si
comportano da semidei.
Il Pagliaro, avendo la
coda di …paglia e non riuscendo a competere col rivale, reagì, quanto meno, con una caduta di stile:
col silenzio e la rimozione – anche fisica[21] – delle esecrate carte,
incurante del danno che così provocava alla Scienza.
L’unico torto di Lucidi,
viceversa, è stato il suo incorreggibile e signorile vizio di fare ombra a qualcuno, ardire che egli pagò
restando non tanto isolato ma ignorato.
La sua emarginazione, di fatto, dura da oltre 50 anni.
[1] W. Belardi, introduzione a Lucidi,
Saggi linguistici, cit.
[2] F. Albano Leoni, Giulia Porru e la fonologia.
Romanobarbarica 10. Roma 1988. Rende giustizia a Lucidi ricordando che già nel
1944-45 egli richiamava l’attenzione su Trubeckoj.
[3] L. Dondoli, Arte e linguaggio. Roma, 1964. Questo autore discute abbastanza la teoria della lingua di Lucidi, ma,
purtroppo, in chiave filosofica e non “linguistica”.
[4] U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino 1984 (pag. 16).
[5] G. Nencioni, Idealismo e realismo nelle scienze del linguaggio. Firenze, 1946.
[6] G. Nencioni, Parere di un antico istituzionalista sulla linguistica odierna, in U.
Vignuzzi, Teoria e
storia degli studi linguistici. Roma, 1975.
[7] Cfr. Pagliaro, Ricordo, cit.
[8] M. Lucidi, Lineamenti di fonetica arioeuropea. Dispense litografate in
appendice al testo del Nencioni.
[9] Cfr. M. Lucidi, La lingua è… in Lucidi, Saggi, cit. (p. 45). Sul
povero Lucidi sembra si siano sempre accanite circostanze …esterne o sopraggiunte.
[10] Come, per l’appunto, quella di G. Devoto, La lingua individuale, in Lingua Nostra,
dic. 1946.
[11] Nencioni, Idealismo, cit. (p. 191).
[12] Problema della definizione,
evidenziato già dal titolo (si descrive
senza aver definito); nel grafico che esprime la bilateralità dell’atto
linguistico il tratto centrale vuol rappresentare quanto nell’atto linguistico
è comunicazione, non il tempo durante
il quale esso si realizza; ecc. Curiosamente questo errore ricorda
quello da me segnalato a De Mauro circa le stanghette del saussuriano barbaros (v. AG 11).
[13] Testimonianza Paroli
in Gaeta,
Interviste,
cit.
[14] Comunicazione
personale, non riportata nelle interviste citate.
[15] Che lo porterà, al culmine di una brillantissima
carriera, anche a viale Trastevere.
[16] A. Pagliaro, Il disdegno di Guido, nei suoi Saggi
di critica semantica. Messina-Firenze, 1952.
[17] Cfr. Gaeta, Interviste, cit.
[18] Lucidi soleva motteggiare “Non esistono critici semantici”. E aggiungeva: la filologia non sminuisce la critica
semantica, ma fra le tante maniere con cui ci si può occupare del
documento, è quella che ha carattere e metodo di scienza.
[19] M. Lucidi, Ancora sul disdegno di Guido. Cultura neolatina, (XIV), 1954.
[20] Cfr. De Mauro, Scuola
romana, cit.
[21] Vietò per esempio a Belardi di pubblicare
il citato passo “oltraggioso”. Cfr. Gaeta,
Interviste,
cit.