I
giochi crittografici familiari agli enigmisti stanno a metà strada tra le
tecniche di cifratura militare e gli esercizi grafico-maniacali di schiere di
chierici e cabalisti del periodo barocco. La necessità della protezione dei messaggi
segreti è nota e, pur avendo origini remotissime, continua ad avere
applicazioni attualissime nel campo dell'accesso alle informazioni delle banche
dati elettroniche, e costituisce l'aspetto "scientifico" della
crittografia. Qualche notizia si può trovare nella Storia dell'enigmistica di
G.A. Rossi (CEI, 1971).
Il
sottobosco della parola idolatrata, vivisezionata, permutata, scombinata è invece
per me emerso insospettatamente nelle seguenti circostanze: visitando il museo
etnografico Pitrè di Palermo, scartabellando tra la immensa produzione del
gesuita barocco A. Kircher (che consultavo per notizie sulla storia della
Fisica), e leggendo infine il bel libro La parola dipinta di G. Pozzi (Adelphi,
1981). Ho avuto anche modo, di recente, di ascoltare su questo affascinante argomento
una conferenza dello stesso prof. Pozzi, avendo conferma dell’incredibile
erudizione e competenza di questo studioso (che, pur essendo cappuccino,
insegna letteratura italiana all'Università di Friburgo). Con piacere informo
allora gli amici enigmisti che tra le austere mura del l'Accademia dei Lincei
si è parlato (sia pure a titolo di erudizione colta) di anagrammi, palindromi,
rebus, imprese, carmi figurati, acrostici, telostici, notarici, protei, versi
intessuti, ecc.; le righe seguenti daranno per fortuna solo una pallida idea di
tutto ciò, scongiurando la vertigine dell'impatto diretto con l'enorme
produzione di tale genere letterario (si pensi che nel libro citato vi sono ben
30 fitte pagine di bibliografia).
La
fiera dell'artificio si apre con il technopaegnion, una composizione grafica
raffigurante le cose più strane: organi, calici, piramidi, cappelli, strumenti
della passione di Cristo, ecc., il tutto usando come materia prima le parole, in
una simbiosi totale di segno e disegno, lingua e grafica. In epoca moderna questa
forma marginale di arte è paragonabile ai calligrammi di Apollinaire (ad
esempio la "cravatta" e "l'orologio"), alla poesia visiva delle
"avanguardie", alle tavole parolibere dei futuristi, alle poesie
tipografiche di Mallarmè, a quelle epigrafiche di G. Bassani o a certi moderni espedienti
di grafica pubblicitaria.
Poi
abbiamo gli esercizi calligrafici veri e propri: labirinti, festoni e filatteri
disegnati unicamente con arabeschi e ghirigori di parole miniate o ricorrendo
alla microscrittura per dar corpo ai capelli o alle corone di spine di un Ecce
Homo. Più tipografici e meno grafici sono invece i carmi intessuti e quelli
cancellati, nei quali i corpi di alcune lettere o i colori diversi evidenziano due
percorsi di lettura (carme portante e carme portato). Bellissimi ad esempio
quelli di R. Mauro (De laudibus sanctae crucis) che risalgono all'era
carolingia.
Abbiamo
poi la chincaglieria verbale, i gingilli grafici dei biglietti d'auguri e
d'encomio per anniversari, onomastici, promozioni, lauree, matrimoni, (e sopratutto
per consacrazioni sacerdotali, considerato l'humus conventuale in cui allignavano
tali passatempi). Rime ingegnose e cerebralismi artificiosi venivano dispensati
a forma di archi trionfali, di raggere o di bicchieri, per beneaugurali
brindisi. La piaggeria encomiastica, l'adulazione sperticata, l'acclamazione
servile, l'elogio gratuito sono d'altronde sempre stati presenti anche nei
generi artistico letterari "maggiori".
I
passatempi devozionali dei più "mistici" vertevano anche sulle
litanie delle salutazioni angeliche e sulle permutazioni cabalistiche del tetragramma
di Jahwè. Ad esempio il Kircher, in quella miniera di erudizione che è
il suo Oedipus aegyptiacus, per rendere "effabile" il nome di Dio
aggiungeva la lettera dentale schin, in modo da ottenere il monogramma Jesua
(Gesù) pronunciabile e moltiplicabile all'infinito nella sequela vorticosa
degli epiteti e dei panegirici della divinità. Il ricorso agli alfabeti
fantastici (lettrismo), alle scritture automatiche, alla glossolalia e ai
poliglottismi, agli anagrammi desemantizzati, alle etimologie di comodo, ecc. era
comunissimo: l'infatuazione idolatra si tocca con mano pensando ai 625 anagrammi
della parola "eucharestia"!
In
questo magma verbale non si può dimenticare la Metametrica del Caramuel, che è
stata un punto di riferimento, per oltre un secolo, di tanti grafomani dilettanti
che avevano escogitato anche dei "prosimetri" e delle griglie di composizione
poetiche (che possono ricordare i mille miliardi di poesie di Queneau o il
...Tubolario). Ma occorre ribadire che il loro morboso interesse era limitato
all'aspetto combinatorio delle parole scritte, congelate nella pagina, mentre
saltavano a piè pari l'aspetto fonico e musicale della poesia (la quale anche
se letta soltanto con gli "occhi" deve emozionare il lettore).
Anche
per McLuhan con la comparsa della parola scritta, e quindi con la "letterarietà",
è nato l'uomo tipografico, e la parola orale ha perduto la sua magia. Nella
galassia Gutemberg i punzoni tipografici hanno segmentato il continuum fonico
nel discreto dei caratteri a stampa, disperdendo il segreto della quantità
prosodica della metrica classica. Qualsiasi "metametrica", basata
solo su virtuosismi grafici o conte di sillabe, non può che produrre surrogati
di arte e cascami di pseudo composizioni. E questo vale per quegli scrittori, poeti
ed enigmografi di tutti i tempi che hanno fatto e fanno violenza alla parola,
idolatrandola; tre secoli di scienza non sono bastati a sbarazzarci di questo
delirio tipografico (anche se non mancano vistose eccezioni). In attesa che la
prosodia perduta venga ritrovata, i veri poeti e i veri enigmisti possono
guadagnarsi l'applausus metricus soltanto sull'onda,
rispettivamente, del sentimento e dell'arguzia.
Ser Dante