Desidero
segnalare, agli amici dell'AIF e del GFS, uno stimolante libretto di Rudolf Arnheim: La radio, l'arte dell'ascolto (Editori Riuniti 1987, £.
12.000). A fronte infatti della valanga di pubblicazioni sulle arti visive vi è
una carenza, purtroppo poco sentita, di studi sulle "arti uditive",
in un rapporto simile a quello tra i libri sulla teoria della visione e quelli
sulla "teoria dell'ascolto", o anche tra l'enorme numero di fotoamatori
e i pochi (ma buoni!) appassionati fonoamatori. Dedicata all'analisi
tecnico-estetica del radiodramma, l'opera si rivolge ai produttori (autore e
regista) e ai fruitori (radioascoltatori) di tale particolarissimo strumento
espressivo, ritenuto spesso, pregiudizialmente, "minore" o monco
rispetto alla televisione o al cinema.
In
realtà qualunque mezzo artistico (pittura, letteratura, musica, film, radiodramma,
ecc.) è autosufficiente e totalitario. Come nessuno considera un quadro di Caravaggio
privo dell'arte verbale, così un'opera d'arte esclusivamente orale può
benissimo essere un capolavoro. Questa verità in genere però sfugge in quanto,
tra tutte le arti, quella "fonetica" sembra non possedere quell'evidenza
al cui culto ci siamo troppo assuefatti, dimenticando che "l'incremento dell'evidenza corrisponde
ad una diminuzione dell'importanza della parola parlata (e scritta) e, quindi, del pensiero" (pag. 164, con la riserva,
per giustificare le parentesi da me aggiunte, che in letteratura, come hanno
teorizzato De Saussure e, indipendentemente Lucidi, l'evidenza - per forza di
cose, dato il particolare mezzo espressivo di tale arte - non può che essere
totale e livellata).
Ascoltare
un radiodramma, ovviamente, non è sempre la stessa cosa di fruirlo e
"conoscerlo", però bisogna indagare se il "guasto" è a
monte o a valle del "circuito della parola" di saussuriana memoria.
Il requisito principale dell'arte è la compiutezza, cioè la non necessità
del completamento mediante la fantasia del destinatario (osservatore, lettore,
ascoltatore, spettatore, radioascoltatore, ecc.), per cui l'autore, nel tener realmente
presente il suo "pubblico", deve costruirsi, come osserva Arnheim (e,
più tecnicamente, Lucidi) il suo "destinatario ideale". Ne consegue
che soltanto se e quando l'opera (d'arte) è compiuta la si può proficuamente
trasmettere, demandando alla valutazione del destinatario - che non ha più,
perciò, un ruolo passivo - il compito di sgomberare il terreno dagli eventuali
"disturbi".
Di estremo interesse sono anche le considerazioni
sulla necessità delle registrazioni e dei sonomontaggi, in tutto e per tutto equipollenti
al "dal vivo", perché (e purché!) conservano improvvisazione e
creatività, mentre i suggerimenti tecnici su missaggi, dissolvenze,
"sipari acustici", risonanze e rumori artificiali risulteranno
superflui, per i fonoamatori più smaliziati, o insufficienti, per i neofiti.
Egualmente preziosi i capitoli "Elogio
della cecità" e "L'arte
di parlare a tutti", dove Arnheim discetta sulle differenze tra
recitazione e lettura più o meno meccaniche e spontanee, e tra ciò che è spurio
(scritto a tavolino) e ciò che è vero.
Andrea Gaeta