ANATOMIA DELLA ROSA

 

Circa 10 anni fa il collega Mario Cosmai riuscì in una impresa insperabile, e di cui è stata sottovalutata la reale portata: interessare i linguisti alle crittografie mnemoniche. La sua fortuna fu quella di aver trovato come attentissimo interlocutore Umberto Eco. Per ricostruire rapidamente questa storia ritengo necessario qualche rinvio bibliografico e utile, forse, qualche osservazione personale.

Per un panorama del problema si leggano gli scritti di Cosmai ne Il Labirinto 2/75, 11/78 e 1/84 e quelli di Eco (e dello stesso Cosmai) nella rivista di semiotica Versus 7/74 e nel settimanale L'Espresso del 5.10.80.

Per entrare nel cuore, nel "vivo", del problema delle mnemoniche è invece necessario tentare di leggere il ponderoso studio apparso in Versus 18/77 col titolo Grammatica dell'arguzia. Si tratta di un lavoro di altissima specializzazione linguistica condotto da G. Manetti e P. Violi, sulla scorta dei risultati di un seminario tenuto all'Università di Bologna e sotto la guida del professor Eco. Un estratto molto più accessibile (tutto però è ...relativo) si trova nell'ultimo libro di Umberto Eco “Semiotica e filosofia del linguaggio” (Einaudi 1984) nel 5° capitolo, che è un rifacimento della voce codice della Enciclopedia Einaudi.

La cosa che balza evidente da queste letture è lo stridente contrasto tra la gratuità e immediatezza del gioco crittografico e la eccessiva seriosità dell'approccio semiotico. Tanto che il mondo degli enigmisti classici resta indifferente o addirittura infastidito da questa ingerenza colta, come conviene Zoroastro nel n. 9/83. Unica lodevole eccezione un dotto intervento di Magopide nel n. 4/79, che pur plaudendo all'iniziativa, preferirebbe collaborazione maggiore tra, diciamo così, "teorici" e "pratici". Da altre sponde si avvertono anche i brividi di Giampaolo Dossena, che non ha mai sopportato ludologi "astemi". La polemica si allarga poi ai presunti sprechi dei contributi del CNR per finanziare questa ludoricerca (cfr. L'Europeo 24.5.79 e Il Labirinto 6/79).

La questione si può approfondire con una divisione di comodo tra utenti della parola e studenti della parola. È chiaro che tutti ne siamo utenti, ma di più lo sono oratori, pubblicitari, romanzieri, poeti, enigmisti; studenti ne sono gli studiosi, i semiologi, i detectives del Segno. Il disagio degli utenti dei laboratori di Edipo verso (o VS?) gli studenti in camice bianco dei laboratori universitari è dovuto al fatto che questi ultimi osano alzare il velo (o velame?) su qualcosa di sacro, e che è patrimonio di tutti, anche degli analfabeti: la parola. Un fanciullino infatti, pur non conoscendo le regole grammaticali, le sa applicare benissimo; un abile giocoliere, pur non avendo alcuna nozione di dinamica, riesce a prevedere le traiettorie delle palle; e i ludoutenti giocano con ambiguità, dissolvenze, isotipie delle parole senza preoccuparsi di irreggimentarle in regole, di scolarizzarle, di culturizzarle a tavolino.

A questo punto i miei pensieri "slittano" su un'altra simile e più famosa polemica, quella che vuole “Il nome della rosa” composto appunto a tavolino. Nelle Postille che accompagnano l'edizione economica del romanzo, l'autore ribatte che al 20% di ispirazione corrisponde l'80% di traspirazione. Eco è infatti instancabile studioso della lingua (mnemonicamente potremmo azzardare studente lavoratore!), ma col suo romanzo se ne è dimostrato anche abilissimo utente; inoltre, pensando al tema del riso che aleggia nel romanzo, o al canzonatorio saggio sulle civette, si può avere il fondato sospetto che egli sia anche ludoutente di razza. Ecco perchè ha saputo magistralmente costruire un romanzo vivo.

Tornando alle crittografie mnemoniche, ecco che le troviamo distese su un tavolo anatomico, an-estetizzate da un'assistente (Violi?), mentre il chirurgo (Manetti?) si accinge ad affondare il bisturi della Scienza nei penetrali del Segno. Ma è fatale che durante questo intervento a cuore aperto, anche le parole, come i più forti pazienti umani, svengano, perdano i sensi, e sul tavolo operatorio non rimangano che i tramortiti (poco significanti) significanti.

La parola infatti - lo sappiamo tutti - quando viene scorporata dal contesto e dalle circostanze in cui è prodotta (cioè quando è isolata nel senso chimico del termine) per essere sottoposta ad una qualsiasi analisi, ebbene essa muore ed è illusorio cercarne il significato. Tuttavia ritengo ugualmente necessaria l'Indagine, perchè la Scienza ha sempre proceduto provando e riprovando, ed ha potuto ottenere grandi risultati anche dalle dissezioni di cadaveri. In questo caso potrebbe insegnare (e non sarebbe poco) che la parola, come l'elettrone, è indecidibile. Si insegue un corpuscolo e si intravede un'onda, si cerca il fonema e si inciampa nel sintagma. La morale quindi di questo "enigma" è che non si può disambiguare l'ambiguità, e che lingua e materia hanno entrambe una struttura assente.

Del resto, già dai tempi di “Opera aperta”, Eco mi ha insegnato (anche con le sue ripetute autocritiche) che per far centro nella ricerca semiotica, e quindi per cogliere nel Segno, bisogna continuamente correggere il tiro, non nel senso di restringere, ma, paradossalmente, in quello di "aprire" la rosa del nome. Non a caso infatti "rosa" è parola caricabile di molti significati: si pensi al centinaio di referenti che i casalinghi italiani le hanno attribuito nel malizioso quiz di Raffaella Carrà "Perchè ti rispondo rosa?". Per tacere dei topoi più classici (o mnemonici, per restare in tema) della Rosa Mistica, di quella Fresca Aulentissima o di quella Candida che il mio illustre eponimo fa sbocciare perfino nell'Empireo.

 Ser Dante