84 – Il disdegno di Mario

 

Metto a disposizione dei lettori delle Morse News questo dimenticato e insuperato saggio di Mario Lucidi nel cinquantenario della pubblicazione (Cultura Neolatina, XIV, 1954).

 

 

Ancora sul “disdegno” di Guido

 

1 - I nuovi orientamenti metodologici che presenta il recente libro di A. Pagliaro, Saggi di Critica Semantica[1] meriterebbero, dal punto di vista puramente teorico, specie rispetto al contributo decisivo che sono destinati a portare nel chiarimento dei rapporti tra linguistica e filologia, una trattazione e una considerazione ben più vasta di quella che ha riservato loro la critica, in generale favorevolissima, ma quasi esclusivamente intenta a mettere in risalto la bontà dei risultati raggiunti nell'indagine concreta. Questo atteggiamento appare, peraltro, pienamente giustificato, se si tien conto di come l'opera è stata realizzata: riservati, nella breve premessa, alle questioni teoriche pochi cenni, forse troppo sommari e in ogni modo insufficienti a chiarire[2] l'originalità, l'importanza e la produttività dei punti di vista esposti, l'A. passa immediatamente all'illustrazione dei suoi principi metodologici mediante la ricerca particolare, affrontando, nel modo più diretto, singole questioni ben determinate.

E i risultati cui giunge sono così importanti e, spesso, definitivi, da rappresentare non solo la prova migliore della bontà delle sue premesse, ma anche, indipendentemente da ogni altra considerazione, notevolissimi contributi di critica letteraria e di ermeneutica dei testi. Gli argomenti trattati appartengono ai campi più diversi, dai primordi della letteratura greca a quelli della letteratura italiana, e si passa da questioni di amplissimo respiro a ricerche particolari; ma il metodo è rigorosamente uno: il contesto assunto come insostituibile base di indagine e l'interpretazione fatta scaturire non da intuizioni, sia pure felici, ma da dimostrazioni rigorose, determinando cioè l'esatta individualità dei valori sintattici e semantici delle forme che compaiono nel contesto attraverso il vaglio scrupoloso del loro funzionamento nell'ambito del sistema cui appartengono e del loro particolare realizzarsi, come entità di tale sistema, nel contesto medesimo. Con ciò l'interpretazione fluisce spontanea e convincente e non rimane, in generale, fine a sé stessa, ma getta, nella sua veridicità, una luce nuova e insospettata sul mondo di cui il documento è espressione.

Questo è il caso, ad esempio, per citare uno solo degli argomenti di più largo respiro, del saggio Aedi e Rapsodi, nel quale dall'esame di forme omeriche connesse all'attività poetica si perviene non solo ad una ben più esatta valutazione delle forme medesime, e quindi di molti dei passi in cui compaiono, ma anche ad una visione del tutto nuova, singolarmente confacentesi al mondo greco, dell'ambiente in cui si venne realizzando l'attività rapsodica; e ancora, per toccare pure un'indagine particolare, nel breve saggio dedicato al cantico delle creature l'individuazione del vero valore della proposizione per nelle formule laudative, oltre a rivelarsi estremamente giovevole all'interpretazione di tutto il contesto, getta un bagliore inatteso sul momento stesso della creazione artistica.

Talvolta sembra che l'A. si limiti ad accompagnare sulla buona via sino al primo gradino dell'interpretazione, lasciando intuire più che sviluppando il risultato cui si può giungere: ciò avviene peculiarmente nell'ultimo saggio, Il disdegno di Guido (p. 357), dedicato alle ben note parole con cui Dante nel X Canto dell'Inferno conchiude la sua risposta a Cavalcante: "Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno" (63). Fedele al suo metodo, il Pagliaro dal vaglio dei valori sintattici viene condotto a risultati assolutamente nuovi, i quali, pur rivelando, già al punto in cui l'A. ha condotto l'indagine, pregi notevolissimi, sia nel chiarimento del testo sia per il contributo che possono recare nella valutazione dei rapporti tra Dante e il suo "primo amico", credo possano assumere, attraverso una ricerca più approfondita, uno sviluppo ben più vasto da entrambi i punti di vista: e proprio di questo intendo occuparmi qui.

 

2 - Il Pagliaro aderisce anzitutto all'ipotesi, peraltro abbastanza largamente accreditata, che l'oggetto del disdegno di Guido sia non Virgilio ma Beatrice, convalidandola con la considerazione che l'avverbio forse deve, per la sua posizione[3], appartenere alla proposizione principale ("Colui che attende là per qui mi mena Forse cui...") e nell'ambito di questa non può riferirsi che al relativo cui, nella quale perciò si nasconde non solo un complemento, quale che esso sia, della subordinata, ma anche uno, di necessità direzionale, della reggente, complemento questo ultimo in cui va ovviamente identificata Beatrice, meta personificata del viaggio di Dante sotto la guida di Virgilio[4].

Nell'ambito di questa ipotesi, egli supera la difficoltà costituita dal preterito ebbe (al posto del presente che ci aspetteremmo in vista del fatto che Guido al momento del dialogo era vivo) nel modo più semplice e convincente: L'espressione ebbe a disdegno non vale "disprezzò", ma più puntualisticamente "sdegnò (rifiutò) di", ed è usata perciò in maniera ellittica, sottointendendo un verbo (esser menato, venire), che si può dedurre con tutta facilità dal presente mena e dal quale viene a dipendere cui, complemento direzionale anche nella subordinata. La frase viene dunque a significare: “... mi mena forse da chi Guido vostro sdegnò (rifiutò) di esser menato (venire)".

Offre lo spunto, a questo modo di intendere, la presenza, nella locuzione ebbe a disdegno, della preposizione a anziché di in, normale in Dante, in questo ed analoghi costrutti (avere in disdegno, odio, ira, grado, oblio ecc.) i quali, appunto in correlazione al valore basilare di in, hanno quasi costantemente il valore di un'azione durativa cui si accompagna un complemento oggetto, mentre quelli con avere a, di diversa natura, denotano piuttosto una nozione aoristica e ingressiva. Per l'isolato ebbe e disdegno, in base a queste considerazioni, e sulla scorta del fatto che nell'unico caso con avere in, l'espressione analoga avere in dispregio, in cui è rilevato valore aoristico, questo comporta dopo il verbo un complemento infinitivo, viene postulata, invece del complemento oggetto, l'integrazione puntualistica con un infinito[5].

Tale integrazione peraltro sembra potersi inquadrare meglio, e non come unica alternativa, nell'ambito semantico di una espressione estimativa (esprimente cioè piuttosto il conto in cui si tiene checchessia), a cui, senza pregiudizio per il valore durativo e per quello aoristico, appare destinata ad alludere, col suo valore per così dire apposizionale (per cui v. anche Inf. XXV 30 “ebbe a vicino”) la proposizione a, come mostra chiaramente Rime CVI 62  "Che abbiate a vil ciascuno e a dispetto" (cfr. pure “tien a vile” Conv. I I 3, e “non prendan li mortali il voto a ciancia” Par. V 64).

L'interpretazione, in ogni modo, elimina completamente la difficoltà del perfetto e dà nello stesso tempo un senso perspicuo, pur nella sua compendiosità, ben consona del resto allo stile dantesco. Con ciò però l'episodio rimane chiarito solo a mezzo. Infatti il Pagliaro conclude: Cavalcanti padre, morto anche prima che s'intrecciasse l'amicizia tra i due poeti, "di quelle parole estremamente raccolte e concise non può intendere né il riferimento che Dante vi fa all'impulso che lo muove e alla meta cui tende, né l'allusione al dissidio che, in rapporto a ciò, si era determinato nell'amicizia poetica con Guido" (p. 379); non lo colpisce che ebbe nel suo estrinseco valore di preterito, indizio di un passato contrapposto all'esistere presente, e di qui la sua subita reazione: “Come dicesti? … Egli ebbe?".

Ora, a noi moderni, così proclivi al rilievo delle reazioni psicologiche e abituati a lasciare tanto posto all'intuizione, sembra naturale e ben ammissibile che Dante abbia introdotto nella sua finzione, senza avvertirne esplicitamente il lettore, un Cavalcante che non comprende assolutamente nulla delle sue parole e ne coglie, unico e isolatamente, il valore preteritale di ebbe, fraintendendolo come indizio della morte del figlio: ma in realtà ciò non si confà al grandioso e armonico mondo dantesco. I dialoghi tra i personaggi di questo mondo non hanno battute a vuoto, salvo che ciò non sia espressamente voluto e avvertito[6] e, se chi ascolta non comprende, il suo non intendere, circoscritto ad un complesso ben determinato, è specificamente funzionale, nel senso che egli domanda e riceve la chiarificazione, ritenuta necessaria, di ciò che, appunto per questo, gli è stato fatto non comprendere[7]. Sicché da una retta interpretazione dovrebbe risultare che le parole di Dante non rimangono incomprensibili per Cavalcante, ma che questi dà ad esse un significato diverso da quello inteso dal poeta e tale da far nascere il terribile sospetto.

Peraltro l'oscurità stessa delle parole di Dante non trova un'adeguata giustificazione: perché mai il poeta risponde ad una domanda così precisa e importante con parole tanto oscure? E oscure, si badi, non dal punto di vista estrinseco, cioè per noi lettori, ma intrinsecamente, al punto che Cavalcante intende una cosa non solo fuori dalle intenzioni di Dante, ma anche fuori della realtà. Anzi se si pensa che la meccanica stessa dell'episodio è affidata alla compendiosa oscurità delle ultime parole dell'episodio, appare assolutamente non giustificato ammettere che tale oscurità dipenda da un semplice, da un contingente giro di frase, senza una sua intima necessità già nell'intenzione del poeta.

3 - Per superare queste difficoltà conviene partire dall'osservazione testé fatta che per le ultime parole di Dante si deve presupporre un'ambiguità vera e propria, tale cioè che cavalcante possa ragionevolmente dare ad esse un significato diverso da quello che Dante ha inteso esprimere. Perché possa avvenire che ad una espressione linguistica due interlocutori, l'uno nell'esprimerla, l'altro nell'ascoltarla, attribuiscano senso diverso, bisogna che si verifichino due circostanze: in primo luogo essa deve ovviamente presentare in sè elementi che la rendano, in potenza, adatta ad entrambe le interpretazioni; in secondo luogo è necessario che esista una situazione di fatto, un atteggiamento dell'ascoltatore diverso da quello di chi parla, e da questo non previsto, tale da permettere al primo una valutazione dei dati semantici non rispondente alle effettive intenzioni del parlante. E questo secondo fattore deve essere tanto più presente e chiaramente individuabile quando si tratti di un dialogo non reale, ma creato dalla finzione di un autore, perché si possa ragionevolmente attendere che l'equivoco abbia effettivamente luogo e il suo realizzarsi non appaia dipendere da un ingiustificato arbitrio.

Quanto alla prima circostanza, al nesso ebbe a disdegno, si è visto, il carattere di locuzione prevalentemente estimativa consente di assumere oltre al valore aoristico anche quello durativo; sicché la frase è veramente ambigua prestandosi a due interpretazioni ben distinte ed entrambe soddisfacenti: da una parte quella proposta dal Pagliaro con ellissi di un verbo deducibile da mena e con cui complemento di direzione dipendente da tale verbo; ma accanto ad essa anche quella più semplice e diretta senza ellissi e con cui complemento oggetto in immediata dipendenza da ebbe a disdegno ( = che Guido vostro disprezzò).

Circa il secondo fattore, la cui importanza già rilevata è tanto maggiore nel caso nostro, sia in generale per l'indole dell'opera dantesca, sia perché qui l'equivoco ha una sua necessità intrinseca, ci viene un suggerimento appunto dalla ragion d'essere dell'episodio, destinato, com'esso è, a portare a conoscenza non solo dei lettori, ma anche, nell'ambito della sua finzione, dello stesso poeta, il fatto che ai dannati, che pure possono vedere nel futuro, è preclusa la conoscenza del presente terreno. Dante, ancora al momento del suo dialogo con Cavalcante, ignora questa particolare situazione dei suoi interlocutori: anzi le previsioni sul futuro avute da Ciacco (Inf. VI 64 ss.) gli fanno supporre, al contrario, come cosa ovvia che i dannati, forniti di una dote così al di sopra delle comuni facoltà umane, abbiano a maggior ragione esatta nozione del presente; e infatti, appunto al tono di imbarazzo e di dubbio proprio di chi venga a trovarsi dinanzi ad una realtà imprevista e razionalmente imprevedibile è improntata la domanda di chiarimento che egli rivolge a Farinata, dopo che l'atteggiamento di Cavalcante e ancora le parole del condottiero ghibellino gli hanno rivelato il vero stato delle cose: "Solvetemi quel nodo Che qui ha inviluppato mia sentenza". E quanto l'errata supposizione sia ferma e presente al poeta all'inizio del suo dialogo col padre di Guido è provato chiaramente dal seguito della scena tra i due. All'ansiosa, inequivocabile, reiterata domanda che, dopo le sue parole, si sente di nuovo rivolgere ("non vive egli ancora?") Dante tace (alcuna dimora Ch'io facea dinanzi alla risposta"), e ci spiega poi egli stesso la ragione del suo indugiare nel rispondere:

 

   e s'i' fui dianzi alla risposta muto,

fate i saper che ‘l feci che pensava

già nell'error che m'avete soluto.

 

Cioè la sorpresa dinanzi alla rivelazione, implicita nelle parole di Cavalcante, che questi non conosceva lo stato attuale delle cose terrene, è stata tale da fargli dimenticare, lasciandolo assorto nella riflessione su questa strana, inattesa realtà, il dovere di cancellare subito il terribile, ingiustificato sospetto; ed egli stesso considera ciò alla stregua di una colpa (“come di mia colpa compunto…”).

E' questa la diversità di situazione psicologica fra i due interlocutori nella quale si realizza la rilevata ambiguità: per Dante, che sa che Guido è vivo e crede che altrettanto sappia Cavalcante, la forma ebbe non ha la funzione preteritale (realizzantesi com'è noto nell'opposizione col presente ha) che darebbe un senso assurdo, ma di necessità l'altra - pur essa fondamentale e derivante dall'opposizione con l'imperfetto aveva - di puntualizzare un'azione nel passato e quindi nel nostro caso all'inizio o meglio come precedente di quella predicata nella proposizione principale (mena); sicché appunto in virtù dell'uso del preterito il poeta dà alla frase univocamente il senso ellittico (con ellissi dell'elemento a cui si riferisce la detta puntualizzazione) postulato dal Pagliaro, e che allo stesso modo e con la stessa univocità debba intendere il suo interlocutore ha tutte le ragioni di attendersi. Ma a Cavalcante, che ignora del tutto il presente terreno e per questo ha fatto la sua domanda, viene spontaneo, quando di suo figlio sente predicare ebbe… anziché ha…, attribuire l'uso di quel preterito, da parte del nuovo venuto dal “dolce mondo”, al motivo più ovvio, che coincide poi col sospetto sortogli (“piangendo disse”) quando ha visto Dante solo, al fatto cioè che Guido sia morto e perciò il poeta ne parli, naturalmente, al passato: tanto più che alla sua interpretazione egli non trova ostacoli formali; anzi, non dando ad ebbe il valore puntualizzante, la frase assume un andamento più semplice e naturale, senza elementi ellittici: “Che Guido vostro disprezzò” (quando visse, mentre viveva); e questo appunto intende, e non può che intendere, Cavalcante: a ciò, del resto, confortato anche dal tono delle parole di Dante, il quale nel rispondere sembra parlar d'altro, dedicando a Guido solo un fugace cenno, come a persona ormai fuori causa.

Così la risposta di Dante non rimane incomprensibile per Cavalcante; ed il suo sospetto non nasce da una parola intesa isolatamente, ma da un vero equivoco connaturato con la funzionalità stessa dell'episodio; d'altro canto l'interpretazione del Pagliaro ha trovato quella giustificazione formale che era venuta meno; inoltre l'oscurità delle parole di dante si è rivelata solo presunta: il poeta, dal suo punto di vista, non è e non può attendersi di essere oscuro.

 

4 - Quanto siamo venuti considerando circa la diversa situazione psicologica tra i due interlocutori serve a chiarir meglio anche la prima parte del loro dialogo: e in realtà è innegabile una certa discrepanza di tono tra le parole di dante e quelle di Cavalcante. Come epicureo e miscredente, questi non può indovinare il motivo, per così dire esoterico, del viaggio di Dante: un viaggio così eccezionale non può rappresentare che l'esperienza riservata ad un uomo eccezionalmente dotato della facoltà per cui è degno di essere considerato uomo; il figlio per questa dote spiccava singolarmente e dovrebbe compiere quel viaggio anche lui. Il povero padre, quindi, non vedendolo interpella il nuovo venuto, e le sue parole rappresentano in sostanza un'ansiosa richiesta di notizie (“mio figlio ov'è e perché non è teco?”); il resto (“se per questo Carcere vai per altezza d'ingegno”) non è che una premessa, subordinata anche dal punto di vista grammaticale, il movente occasionale della domanda; e a questa domanda ci si attenderebbe che Dante propriamente rispondesse; egli invece, confutata la premessa (da me stesso non vengo), anziché porre al centro della sua risposta Guido, o meglio il suo atteggiamento nei rispetti del vero stato delle cose, continua con una nuova proposizione interamente dedicata ad un ulteriore chiarimento della realtà, come se proprio questo interessasse il suo interlocutore e solo alla fine, quasi particolare secondario, viene il breve accenno a Guido, compendioso per di più e ambiguo già nelle intenzioni del poeta. Ora questa inadeguatezza della risposta di Dante appare immediatamente giustificata, se si pensa che egli crede che Cavalcante sappia che Guido è vivo e conosca il presente terreno come lui o, se possibile, meglio. E infatti, in questa situazione, l'interrogazione “mio figlio ov’è?” che significato può avere per lui? Non certo quello di una vera domanda, della quale l'interlocutore, almeno nelle grandi linee, dovrebbe già conoscere la risposta[8]. Essa non può che rappresentare un'interrogazione in certo modo retorica, falsa, intesa ad esprimere una generica esigenza di chiarimento dinanzi ad una realtà non conforme a determinate premesse, come ad esempio gli ov’è? Di Par. XIX 77 s.[9] : esigenza esplicitamente espressa nella seconda parte dell'interrogazione la quale assume perciò un valore più vasto di domanda di spiegazione; ma la premessa si trova appunto nella protasi di cui è apodosi la domanda: sicché è questa protasi (nella quale la congiunzione introduttiva viene quasi ad avere il valore pregnante di "se è vero che") che viene in sostanza chiamata in causa, o meglio messa in discussione.

Insomma Dante è portato ad intendere la domanda press'a poco così: "Se è vero che vai per questo cieco carcere per altezza d'ingegno, deve essere qui anche mio figlio e perché invece non è teco? Come si spiega questo?"[10] (quasi dicesse : “Come si concilia questo fatto con la mia premessa, che presupporrebbe il contrario?”). Anche in questa prima parte del dialogo, dunque, si riflette la circostanza che ha reso ambigua la seconda; salvo che questa volta per Dante le parole ascoltate non riescono addirittura equivoche, assumono invece in tono, potremmo dire un verso differente da quello che hanno per chi le ha profferite: anziché una vera e propria domanda di notizie, esse divengono un quesito centrato piuttosto sull'esigenza di chiarimento circa la contraddizione tra una premessa e un fatto constatato, un quesito cioè prevalentemente dottrinale, in cui, capovolgendosi i termini, quello che era in effetti il movente occasionale diviene il nocciolo della questione, mentre a poco più di un movente occasionale si riduce la parte riguardante Guido, la cui non presenza ha provocato la richiesta.

È appunto a questo modo di intendere la domanda che Dante intona la sua risposta dedicandola quasi esclusivamente a chiarire lo stato delle cose e riservando solo alla fine un compendioso cenno al presunto movente occasionale o, più esattamente, ad un particolare atteggiamento di Guido, come precedente della sua non partecipazione a quel viaggio. Ora, la qualifica piena si adatta molto bene al carattere di polemica dottrinale che assumono le parole di Dante, ed anzi la sua presenza appare pienamente giustificata qualora si osservi come la risposta controbatta, rigorosamente punto per punto la domanda. In questa spicca come concetto centrale l'espressione "per altezza d'ingegno", messa nella più chiara evidenza con la positura alla fine della proposizione e del verso: ad essa Dante replica anzitutto, con una locuzione messa in spicco allo stesso modo e contrapposta anche mediante la rima: “da me stesso non vegno”. A illustrare la contrapposizione concettuale si confronti Purg. XI 7 ss.:

 

Vegna ver noi la pace del tuo regno,

ché noi ad essa non potem da noi,

s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

 

Donde appare esplicitamente che l' “ingegno” è l'appannaggio proprio del “venir da noi”, sicché “da me stesso non  vegno” (“non potem da noi”) vale qui: in questo viaggio l'altezza d'ingegno è fuori causa. Per Dante l'opinione che Cavalcante veramente esprime, e per la quale chiede un chiarimento, è appunto questa, che egli sia sceso in quel “cieco carcere” unicamente in virtù dell'“altezza d'ingegno”, e ad essa si affretta a rispondere nel modo più categorico.

Nella domanda di Cavalcante spicca un'altra parola, vai, posta alla fine dell'emistichio, nella quale si torna ad insistere sull'importanza della personalità autonoma nell'intraprendere l'eccezionale viaggio. Ad essa Dante controbatte con una parola messa in risalto in fine di verso e dal punto di vista semantico nettamente contrapposta (mena): come è fuori causa l'altezza d'ingegno, così in quel viaggio non si va, si è menati. Anche al per dell'espressione "per questo cieco carcere" Dante contrappone un per nettamente diverso: il primo esprime il moto in un luogo determinato (per Cavalcante il viaggio non ha una meta al di là dell'Inferno), il secondo è una vera e propria preposizione di moto per luogo: Dante è menato non per l'Inferno, ma piuttosto attraverso l'Inferno alla vera meta, Beatrice. Quanto a forse, esso non si contrappone a nessuna forma particolare della domanda, ma alla sua sostanza, o meglio al suo spirito, all'orgogliosa fiducia nelle forze umane implicita nell'affermazione in essa contenuta; ed è in ciò che trova la vera giustificazione la presenza dell'avverbio e la sua positura in singolare spicco all'inizio del verso: l'uomo da solo ad un simile viaggio non basta, se non intervenga una forza trascendente; perciò la sua sicurezza vera sta nell'umile riconoscimento dell'incapacità delle sue sole forze, dell'impossibilità intrinseca di prevedere con certezza la riuscita dell'impresa.

Dunque, la risposta di Dante ci si rivela davvero nella sua singolare “pienezza”:

 

… da me stesso non vegno.

Colui che attende là, per qui, mi mena,

forse, cui Guido vostro ebbe a disdegno.

 

L'interpunzione scrupolosa è necessaria a mettere in risalto il valore pregnante di riscontri polemici che hanno le singole forme nel dettato espressamente compendioso e avvertito. Dante dice: ciò che ha reso possibile il mio viaggio non è l'altezza d'ingegno, come voi mostrate di credere; io non vado ma sono menato da colui che attende là, e sono menato non per l'Inferno, ma solo attraverso l'Inferno, per raggiungere, se chi ha reso possibile questo viaggio lo permetterà, la meta a cui Guido vostro sdegnò di esser menato.

 

5 - Ora, gli indizi che la nuova interpretazione permette al Pagliaro di trarre dalle parole di Dante circa l'interrompersi, o per lo meno l'affievolirsi, negli ultimi tempi, dell'intesa tra i due poeti[11] non solo rimangono, ma si precisano meglio. Quelle parole non rappresentano più un accenno quasi occasionale (per quanto di occasionale si può parlare nella Commedia) ad un fatto non direttamente evocato nella domanda, e neanche una semplice risposta informativa circa la natura e la meta del singolare viaggio, come quelle date da Virgilio a Maometto (Inf. XXVIII 46 ss.) o da Dante stesso a Forese (Purg. XXVII 118 ss.), ma vogliono essere una vera e propria intenzionale messa a punto polemica circa un'opinione in contrasto con fondamentali vedute del poeta, un dato dunque, non destinato ad aprire uno spiraglio poco più che casuale, ma autentico e volutamente offertoci del quale perciò sarà bene non fare a meno per giudicare non solo l'atteggiamento di Guido nei rispetti dell'evoluzione del pensiero dantesco, ma anche per riflesso, la natura di tale evoluzione: tanto più che ora ci soccorrono, oltre le parole di Dante anche quelle di Cavalcante nel valore, s'intende, che l'ascoltatore ha dato loro.

Con questo significato stanno perfettamente a posto sulla bocca di uno dei seguaci di Epicuro, “che l'anima col corpo morta fanno”. Ma, osserva acutamente il Nardi[12], da questo punto di vista, nelle conseguenze pratiche (specie circa il problema morale, i premi e le punizioni dell'al di là), con l'epicureismo viene a coincidere l'averroismo, ed è anzi per questo che dell'averroista Guido vien detto dal Boccaccio che “egli alquanto tenea della opinione degli epicurei”. Anche per un averroista, il viaggio dantesco non può avere alcun valore esoterico: quindi le parole del padre possono rappresentare anche le opinioni del figlio. E che così Dante volesse intendere ce lo prova non solo il fatto che a lui poco poteva interessare polemizzare con un personaggio morto tanti anni prima, ma soprattutto quanto egli stesso ci dice sull'atteggiamento di Guido: questi reputò indegno affidarsi alla ragione sottomessa alla sapienza teologica, per farsi condurre alla Verità rivelata, altrimenti irraggiungibile, evidentemente perché ciò per lui rappresentava un'inutile umiliazione della propria virtù, unica pietra di paragone della personalità umana. Sicché Dante ha potuto mettere in bocca al padre epicureo le opinioni del figlio averroista, suggellando così, col darle un posto nel poema sacro, la polemica che aveva preso corpo nel contrasto sorto tra i due amici.

Tale contrasto peraltro non sembra si possa riferire al periodo caratterizzato dalla “donna gentile”[13], simbolo della filosofia, il periodo cioè specifico del Convivio; perché in questa fase evolutiva dell'ispirazione dantesca[14] l'amore per Beatrice, anche se non rinnegato, viene lasciato da parte, e in certo modo, superato da uno più forte e più virile (Conv. I i 16), quello appunto per la Donna gentile, la filosofia, come Dante espressamente dice nel Convivio stesso (II ii 1-5; nonché II xii 6,8; II xv), allegando anche (Conv. II i 2) in tal senso una citazione della Vita nuova, citazione che peraltro non collima col testo a noi pervenuto del libretto dantesco. In questo superamento dell'amore come passione giovanile, in questa dedizione completa alla filosofia, come a colei che sola può dare la felicità[15], Dante non poteva essere in sostanziale disaccordo con Guido, e tanto meno poteva aver luogo il suo rilievo di un disdegno, da parte di questo per Beatrice, messa da parte dallo stesso poeta. Dissensi tra i due amici non dovevano certo mancare, e nei singoli problemi e nelle questioni centrali della validità della filosofia; ché a Dante non poteva sfuggire la contraddizione di una sapienza che soddisfa appieno il desiderio insito nell'uomo di conoscere il vero e d'altro canto non è in grado di svelargli tutta la verità, ma si tratta di dissensi secondari, perché nonostante questa esigenza mistica,  egli rilevando che “lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade della cosa desiderante…”[16], continua a tener fermo alla conclusione razionalistica, per cui la sapienza umana basta da sola a saziare la sete dell'uomo.

Ma Dante non è uomo da ancorarsi definitivamente a un simile compromesso (ed è qui che quanto apprendiamo dal nostro episodio s'inserisce singolarmente a proposito delle osservazioni del Nardi: v. partic. P. 71. ss.); egli interrompe il Convivio, simbolo di una posizione superata, abbandona le rime allegoriche della “donna gentile” e siamo nell'era della Commedia. La ragione umana, impersonata ora in Virgilio, savio e poeta sommo, non disdegna la sapienza umana, ma di essa si serve per raggiungere l'unico tramite col vero assoluto, la sapienza teologica rappresentata da Beatrice. Così Dante, all'acme della sua maturità, quasi in una continuità ideale, dopo l'interruzione della donna gentile (di qui il rifacimento del relativo brano della Vita nuova, perché ora l'amore per questa donna appare solo un errore temporaneo[17]) si sente di nuovo chiamato alla creatura dei suoi sogni giovanili, elevata a simbolo eccelso di uno dei valori supremi nella sua nuova visione della vita umana. È evidentemente questo richiamo che , rimanendo incomprensibile all'intransigente razionalismo di Guido, doveva compromettere alla base l'intesa tra i due amici, ed è certo ai primi sintomi del verificarsi di questa situazione - il nuovo atteggiamento di Dante da un lato, le sdegnose reazioni di Guido dall'altro - che nel nostro episodio si accenna. E probabilmente la giustificazione psicologica di quel preterito ebbe è proprio nel ricordo del momento in cui il poeta sentì la prima radice della nuova vocazione e intuì ad un tempo che l'orgoglioso amico non avrebbe potuto mai seguirlo.

A parte queste considerazioni che trascendono l'interpretazione vera e propria del brano, esso ci si rivela dunque l'episodio degli equivoci, i quali si incastonano in uno sostanziale, quello che riguarda l'atteggiamento dei due personaggi: Cavalcante solo ansioso del suo dramma umano, un padre che non vede, come sperava, il figlio, e teme per lui il peggio; l’altro, Dante, in una posizione di difesa e che vede, tanto in Farinata quanto in Cavalcante, due grandi anime che ammira (il voi non è solo per Farinata), con le quali è però in disaccordo. Il primo si rivela subito nelle sue lacrime e poi nella domanda accorata: al che Dante rimane sordo, coglie solo ciò che il suo atteggiamento gli permette di cogliere, un quesito postogli, a cui egli risponde esatto, implacabile; e di nuovo Cavalcante, fermo nella sua posizione, non trae, equivocando che un'esca per il suo sospetto e reagisce improvviso, impetuoso: Dante rimane sorpreso, non intende e i due personaggi si separano ciascuno nella sua posizione e solo più tardi verrà il chiarimento.

Ora qui cade in acconcio una breve osservazione. Quanto siamo venuti accertando si riflette anche sul complesso del Canto in cui l'episodio si trova: quest'ultimo non compare più come una pausa di pietosi sentimenti umani che venga ad interrompere il possente dialogo con Farinata. Anche per il breve intrecciarsi di domande e risposte tra Dante e Cavalcante si rimane nell'atmosfera del X Canto: Dante si trova davanti un grande concittadino della generazione precedente, ascolta con attenzione e risponde con decisione e fierezza, e la sua risposta piena ricorda troppo da vicino l'ammonimento di Virgilio, “le parole tue sien conte”, perché il raffronto risulti casuale. Del resto niente dice che il desiderio che Dante tace a Virgilio, “sol per dicer poco”, riguardi solo Farinata: basta pensare a come Dante - egli stesso lo mette in risalto - riconosce immediatamente Cavalcante.

Ma tornando a quello che era il nostro proposito sostanziale, l'approfondimento dell'interpretazione, ci sembra che l'organicità stessa dei risultati possa in qualche misura testimoniare della loro bontà: in ogni modo, quali che essi siano, e quale che sia il contributo che ci ha permesso di portare il fatto che abbiamo tenuto presente la diversità di situazione dei due interlocutori, intenzionalmente sfruttata da Dante, rimane al Pagliaro il merito precipuo di aver messo l'esame del testo sulla giusta via.

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[1] Messina-Firenze, D’Anna, 1952, pp. XVI-380 (Bibl. di cultura contemporanea, XL). Veramente titolo più adeguato per il vol. potrebbe essere "Saggi di linguistica de la parole". In realtà, dopo che il De Saussure postulò accanto alle due linguistiche della langue quella della parole, nonostante vaghi accenni ad essa, nessuno ha sino ad ora trovato modo di applicarla seriamente. Eppure, se la linguistica della parole ha il compito di studiare il lato individuale della lingua, e con ciò non si vuole intendere gli elementi contingenti che accompagnano il singolo atto linguistico (ché di questo non si può fare una scienza glottologica), è chiaro che essa di altro non può occuparsi se non di come la libertà espressiva di un dato individuo esplicantesi in un dato atto linguistico abbia trovato la sua realizzazione nel sistema linguistico corrispondente; e questo appunto fa, e nel modo più egregio, il Pagliaro.

[2] Singolarmente poco perspicuo mi sembra l'accenno (p. VIII) ad un esame del rapporto tra significante e significato come verifica della legittimità dell'intendere. E in realtà si può parlare di rapporto solo quando si mettano in corrispondenza due entità già di per sé definite (e infatti nell'enunciazione saussuriana dell'arbitrarietà del rapporto tra significante e significato, quest'ultimo, ancora a questo punto del Cours, è identificato col concept), il che non è al caso nostro, perché, se il significante è un dato nel vero senso della parola, il significato, invece, è qualcosa d'irrepetibile che non può essere posto di per sé a confronto col significante, ma inerire in esso come suo attributo: tutt'al più si potrebbe parlare, dato un certo significante, di rapporto tra significato nell'intenzione del parlante, significato nell'intendere dell'ascoltatore e, forse, anche nella normale funzione del sistema. Qualunque intendere, peraltro, presuppone di necessità da parte dell'ascoltatore o del lettore una vera e propria valutazione, anche se per lo più inconscia, dei singoli dati semantici nei confronti, da un lato, del sistema linguistico e, dall'altro, delle rimanenti unità che vengono a costituire la frase: solo che questa valutazione può risultare più o meno sviata da elementi perturbatori o, comunque, contingenti; e oserei dire che il vero compito della critica semantica (v. n. 1) è appunto quello di sgombrare il terreno da questi elementi, ponendosi nelle condizioni dell'ascoltatore ideale di un determinato contesto riferito ad un determinato momento di funzionalità.

[3] Se infatti Dante non avesse inteso così, osserva giustamente il Pagliaro, avrebbe certamente detto cui forse, come appunto pochi versi prima alla qual forse: tanto più che in un caso e nell'altro non esistono ragioni metriche che possano far preferire l'uno o l'altro ordine.

[4] Il che concorda perfettamente con l'impostazione di questa parte del viaggio dantesco, in cui Beatrice è sempre presente come meta alla quale si guarda con trepidazione e speranza: anzi sotto questo aspetto, osserva il Pagliaro, il forse non solo non fa più difficoltà e si giustifica, ma conforta anche l'ipotesi appunto come sintomo di tale trepidazione, che anche altrove analogamente si manifesta: Inf. XV 89-90 "E serbolo a chiosar con altro testo A donna che saprà, se a lei arrivo". E a questo proposito vorrei citare anche Purg. XXIII 118 ss., in cui Dante, dando a Forese notizie sul suo viaggio, dopo aver detto che Virgilio l'ha “menato” per l'Inferno e poi su per il Purgatorio, aggiunge (127-28): "Tanto dice di farmi sua compagna Che io sarò là dove fia Beatrice" - dove nell'indicare Beatrice come meta del suo viaggio, sotto la guida di Virgilio, il poeta, benché ormai così vicino a tale meta, così leggero e fiducioso, si esprime con un prudente dice circa la parte di viaggio non ancora percorsa e che lo separa da Beatrice, e torna a insistervi (130): "Virgilio è questi che così mi dice".

[5] Sia lo spirito sia la lettera di buona parte di questo saggio sono evidentemente sfuggiti a E. Taddeo nella sua rec. al vol. e più esattamente ai saggi riguardanti la letteratura italiana, in La rassegna della letteratura italiana, XVIII, 1954, p. 78 ss. Egli, dopo aver esposto l'interpretazione del Pagliaro (la quale peraltro non mi pare rappresenti solo una piccola variante rispetto a quella che si limita a riconoscere in cui un riferimento a Beatrice, come sembra suggerire il semplice “soltanto anziché cui = ad eam quam…” con cui viene introdotta) come quella mediante la quale si supera la difficoltà del preterito, aggiunge (p. 82): “Infatti, prosegue il P., il nesso avere a in Dante ha un valore più puntuale e aoristico che non durativo” [fin qui d'accordo…] e non può essere seguito da complemento oggetto di persona. Al contrario..." Il P. non prosegue, ma premette (cosa non del tutto irrilevante agli effetti metodologici, specie in vista di quanto osserva a proposito il Taddeo a p. 79) e non afferma minimamente, come si è visto, che il nesso avere a non può essere seguito da complemento oggetto di persona - anzi gli esempi che egli adduce hanno tutti complemento oggetto, il cui non essere di persona non è davvero necessità intrinseca o che interessi: che elli ebbe a vicino di Inf. XXV 30 non ha certo la sua ragion d'essere nel fatto che il relativo si riferisce ad un aggregato di buoi e non di uomini. È perlomeno singolare questo respingere un'ipotesi col controbattere un asserto che nessuno sostiene, e contro il quale non può evidentemente mancare la documentazione, specie quando, rigettando l'ellissi, ma accogliendo, per il preterito, il valore aoristico, si finisce in sostanza, senza parere e senza accorgersene, per riaccettarla (perché l'ellissi è implicita nella correlazione che il valore puntualizzante comporta): esso fa il paio, per vie del tutto diverse, con la piccola deroga che il Taddeo sente il bisogno di fare alla limitazione che si è posto (p. 80) per aggiungere: " non possiamo però tacere che i due [saggi] virgiliani non riescono a persuaderci” (uno dei “due virgiliani”, che invano si sforzano a tale persuasione, è quel modello di acume e chiarezza in cui s’interpreta la frase tacitae per amica silentia lunae).

[6] V. ad es. Purg. XXIV 37-39; Par. XV 39-42; Inf. IX 8.

[7] Cfr. Purg. XIV 87 “Là ‘v’è mestier di consorte divieto?”, e corrispondentemente Purg. XV 44 s. “Che volse dir lo spirto di Romagna, E divieto e consorte menzionando?”; Par. VI 88 s. e VII 20 s.; Par. X 96 “U’ ben s’impingua se non si vaneggia”, 114 “A veder tanto non surse il secondo”, e XI 25 s. “Ove dinanzi dissi ‘U’ ben s’impingua” E là u’ dissi “Non surse il secondo”, e ancora 138 s. “E vedrai il corregger che argomenta “U ben s’impingua, se non si vaneggia” e XIII 46 s. “E però miri a ciò ch’io dissi suso, Quando narrai che non ebbe il secondo”.

[8] Che almeno sulla conoscenza del fatto che il figlio fosse ancora in vita Dante non nutrisse dubbi, lo dimostra irrefutabilmente, come si è già rilevato, la sua sorpresa quando dalle parole dell'altro è costretto a riconoscere il contrario. Sicché, vale la pena osservarlo incidentalmente,  per il poeta, al momento del dialogo, le lacrime del povero padre vanno attribuite solo al dolore di non vedere il figlio e non anche all'angoscia per l'eventualità di una brutta notizia.

[9] “Ov’è questa giustizia che ‘l condanna? Ov’è la colpa sua se ei non crede?”. Un valore intermedio ha ov’è in Purg. IX 86 “ov’è la scorta?”, mentre una vera e propria domanda, come la nostra, nelle intenzioni però di Cavalcante, abbiamo in Par. XXXI 64 “E ov’è Ella?”.

[10] Il tono che viene ad assumere la domanda è in certo modo lo stesso che in Purg. XXIII 79 ss.:

Se prima fu la possa in te finita

Di peccar più. Che sorvenisse l’ora

Del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,

come se’ tu quassù venuto ancora?

O anche Purg. XI 127-132.

 

[11] Pagliaro, cit., p. 370 ss.

[12] B. Nardi, Dante e la cultura medievale. 2° ed., Bari, Laterza, 1949, p. 127 ss.

[13] Pagliaro, cit., p. 370.

[14] Si veda per queste considerazioni Nardi, cit., p. 47 ss.

[15] Conv. III xv 2-4.

[16] Conv. III xv 8-10; v. anche IV xiii 6-9.

[17] È evidente che il rifacimento, se c'è stato, deve riferirsi alla parte che ha inizio dal cap. XXXIX: è di qui, infatti, che s’incomincia a vedere la Donna gentile sotto la nuova luce sfavorevole. Nei capp. prec., XXXV-XXXVIII, siamo in un’atmosfera ben diversa: l’amore di Beatrice non rinnegato, ma messo ormai da parte dinanzi al trionfare della Donna gentile: la stessa atmosfera del secondo libro del Convivio (v. partic. II ii 1-5; II x 4); salvo che, proprio alla fine della parte narrativa del cap. XXXVIII, si aggiunge inaspettatamente e in pieno contrasto con quanto precede, a proposito del pensiero della Donna gentile, “…che peraltro era vilissimo”: espressione che sembra volutamente contraddire all’altra “…che era virtuosissimo”, usata esattamente allo stesso proposito proprio in Convivio II ii 5, luogo singolarmente analogo a Vita nuova XXXVIII. Vien fatto di pensare che si tratti di un'aggiunta intenzionalmente palese per rinnegare la posizione rappresentata dal Convivio e ormai superata quando si procede al rifacimento.