43 – Il telefono di B.***

 

 

 Riporto integralmente un articolo da L’Elettricista 1878, p. 279  tradotto da Annales télégraphiques, mars-avril 1878

 

M. Loir – Un documento per la storia del telefono

 

Ora che l’invenzione del telefono è divenuta una preoccupazione quasi generale, è vivamente interessante il raccogliere i documenti relativi all’istoria di questo meraviglioso strumento. Eccone uno che si raccomanda specialmente alla attenzione per la sua antichità e per il nome e la posizione del suo autore: esso è un articolo pubblicato nel numero del 26 agosto 1854 del giornale L’Illustration, pag. 139.

 

Trasmissione elettrica della parola

Si sa che il principio sul quale è fondata la telegrafia elettrica è il seguente:

Una corrente elettrica, che passa in un filo metallico arriva attorno ad un pezzo di ferro dolce e lo converte in calamita. Quando la corrente cessa, la calamita cessa di esistere.

Questa calamita che prende il nome di elettro-calamita, può dunque a vicenda attrarre, poi abbandonare (lâcher) una lastra mobile, la quale, col suo movimento di va e vieni, produce i segnali di convenzione usati in telegrafia.

Talvolta si utilizza direttamente questo movimento, e gli si fan produrre dei punti e delle linee sopra una striscia di carta che si svolge mercè un movimento di orologeria. I segnali di convenzione sono allora formati da raggruppamenti di queste linee e di questi punti. Tal è il Telegrafo americano, che porta il nome di Morse, suo inventore.

Talvolta si converte questo movimento di va e vieni in un movimento di rotazione. Si hanno allora o i telegrafi a quadrante delle strade ferrate, o i telegrafi dello Stato, i quali per mezzo di due fili e di due aghi indicatori, riproducono tutti i segnali del telegrafo aereo altra volta in uso.

Immaginiamo ora che si dispongano sopra un circolo orizzontale mobile le lettere, i numeri, i segni di punteggiatura ecc. Si capisce che il principio enunciato potrà servire a scegliere a distanza il tale o tal altro carattere, a determinarne il movimento, e per conseguenza ad imprimerlo sopra un foglio disposto a tale scopo. Tale è il telegrafo imprimente.

Si è andati più lungi. Mediante lo stesso principio ed un meccanismo assai complicato, si è giunti a questo risultato, il quale, a primo tratto, parrebbe avere del prodigioso: si riproduce a distanza la scrittura stessa; e non solamente la scrittura, ma una linea, una curva qualunque; di guisa che, stando a Parigi potete disegnare un profilo coi mezzi ordinarii, e lo stesso profilo vien disegnato nel medesimo tempo a Francoforte. Le prove fatte in questo genere sono riuscite bene; gli apparati hanno figurato alle esposizioni di Londra. Vi mancano nullameno alcuni perfezionamenti nei minuti particolari.

Parrebbe impossibile andare più innanzi nelle regioni del meraviglioso. Tuttavia tentiamo di fare alcuni passi di più. Io mi sono domandato, per esempio, se la parola stessa non potrebbe essere trasmessa con l’elettricità; in una parola se non si potrebbe parlare a Vienna e farsi sentire a Parigi. – La cosa è attuabile ed ecco come:

I suoni, lo sappiamo, sono formati da vibrazioni e portati all’orecchio da queste stesse vibrazioni riprodotte nei mezzi intermediarii. Ma l’intensità di queste vibrazioni diminuisce rapidissimamente con la distanza, di maniera che vi sono, anche usando i portavoce, i tubi e i corni acustici, dei limiti assai ristretti che non si possono oltrepassare. Immaginate che si parli presso una piastra mobile assai flessibile perché non si perda alcuna delle vibrazioni prodotte dalla voce; che questa piastra stabilisca e interrompa successivamente la comunicazione con una pila, voi potrete avere a distanza un’altra piastra la quale eseguirà esattamente le medesime vibrazioni.

È vero che l’intensità dei suoni prodotti sarà variabile al punto di partenza, ove la piastra vibra per effetto della voce, e costante al punto di arrivo, ove essa vibra per effetto dell’elettricità, ma egli è dimostrato che ciò non può alterare i suoni.

È evidente prima di tutto che i suoni si riprodurrebbero con la stessa altezza nell’ottava.

Lo stato attuale della scienza dell’acustica non permette di dire a priori se avverrà affatto lo stesso delle sillabe articolate dalla voce umana. Niuno si è ancora sufficientemente occupato della maniera in cui queste sillabe sono prodotte. Si è notato, è vero, che le une si pronunziano fra i denti, altre colle labbra, ecc.; ma questo è tutto.

Checché ne sia, bisogna ben pensare che le sillabe si riproducono esattamente, nient’altro che colle vibrazioni dei mezzi intermediarii; riproducete esattamente queste vibrazioni e voi riprodurrete esattamente anche le sillabe.

In ogni caso, è impossibile, nello stato attuale della scienza, di dimostrare che la trasmissione elettrica dei suoni è impossibile. Tutte le probabilità, al contrario, sono per la possibilità.

Quando si parlò la prima volta di applicare l’elettromagnetismo alla trasmissione dei telegrammi, un uomo alto locato nella scienza trattò questa idea di sublime utopia, e tuttavia oggi si corrisponde direttamente fra Londra e Vienna mediante un semplice filo metallico. Ciò non era possibile, si diceva, e ciò si è fatto.

Non occorre dire che applicazioni innumerevoli e della più alta importanza sorgerebbero immediatamente dalla trasmissione della parola mediante l’elettricità.

A meno di essere sordo-muto, chiunque potrebbe servirsi di questo modo di trasmissione, il quale non esigerebbe alcuna specie di apparati. – Una pila elettrica, due lastre vibranti ed un filo metallico basterebbero.

In una moltitudine di casi, in vasti stabilimenti industriali, per esempio, si potrebbe, con questo mezzo, trasmettere a distanza il tal ordine o il tal avviso, mentre si rinuncerà ad eseguire questa trasmissione con la elettricità, finché bisognerà procedere lettera per lettera e con l’aiuto di telegrafi che esigano tirocinio e abitudine.

Qualunque cosa avvenga, egli è certo che, in un avvenire più o meno lontano, la parola sarà trasmessa a distanza mediante l’elettricità. – Ho cominciato le esperienze; esse sono delicate ed esigono tempo e pazienza; ma le approssimazioni ottenute fanno intravedere un resultato favorevole.

Parigi, 18 agosto 1854.                                                                   Carlo Bourseul.

 

Quando il sig. Bourseul, ora Sotto Ispettore delle linee telegrafiche francesi ad Auch, scriveva queste righe, egli era impiegato, da alcuni mesi soltanto, nell’Amministrazione.

Giovane, inesperto, non seppe o non osò tentare i passi necessari alla realizzazione della sua opera. Scoraggiato dalle pubblicazioni scientifiche nelle quali il suo progetto era trattato da sogno fantastico, e distratto dai suoi doveri d’ufficio, il sig. Bourseul sospese disgraziatamente il corso delle sue esperienze telefoniche. Tuttavia egli raggiunse presto una posizione superiore che gli permise di riprendere gli studi fonografici e fonologici che avean servito di base alla sua invenzione; fece allora pubblicare negli Annales télégraphiques, tomo III, anno 1860, fascicolo marzo-aprile, un articolo rimarchevolissimo, estratto da un manoscritto terminato oggi e che non è stato dato ancora alla stampa.

Nella seduta dell’Accademia delle scienze, del 26 novembre 1877 (Comptes-rendus de l’Académie des sciences, 1877, 2° semestre, tomo LXXXV, n. 22, p. 1025), il sig. Du Moncel, a proposito di una nota del sig. Pollard, “fa notare che l’invenzione del telefono potrebb’essere considerata come rimontante a più di vent’anni; egli ricorda, infatti, che nelle due edizioni del 1854 e 1856 del suo Exposé des applications de l’électricité, descrisse in sistema immaginato dal sig. Ch. B.***; nel quele il telefono è indicato press’a poco quale esiste attualmente; benché la condizione principale che ha risoluto il problema non vi sia menzionata, sembrava che l’inventore fosse sulla buona via.

È probabile – aggiunge il sig. Du Moncel – che i tentativi fatti dal sig. B.*** dovessero essere analoghi a quelli che ha eseguiti ultimamente, con una pila, il sig. Richemond, e che sono riusciti benissimo.

Il sig. B.*** non ha dato segno di vita da vent’anni; ma la sua nota è ben ragionata e mostra che egli era bene al corrente della fisica. Se io non le ho attribuita alcuna (grande) importanza, si è perché non vi era indicata alcuna disposizione precisa.

Checché ne sia, non possiamo dissimularci che l’inventore del telefono è il sig. Bell, perché, fra una prima idea e la sua definitiva realizzazione, vi è tutto un mondo”.

La conclusione del sig. Du Moncel non sembra rigorosamente esatta; ciò dipende, senza alcun dubbio, dall’aver egli riprodotto nella sua opera la seconda parte soltanto della nota del sig. Bourseul; se si fosse riferito al testo primitivo, egli avrebbe certamente affermato che la descrizione del telefono era completa, poiché nulla vi mancava: lastra mobile vibrante, elettro-calamita, filo conduttore, pila e teoria esatta. In simili condizioni, la differenza fra l’idea e la sua realizzazione non è più un mondo; è quistione di tempo e soprattutto di danaro. Nel tempo in cui il sig. Bourseul si occupò di tale questione le società scientifiche, destinate a venire in aiuto agl’inventori, non erano fondate, ed allora quante felici concezioni dovettero essere gettate nell’oblio per mancanza delle risorse necessarie alla loro produzione!

Senza voler diminuire pertanto il merito del sig. G. Bell, è quindi permesso di rivendicare, in favore del sig. Bourseul, una larga parte nell’invenzione del telefono, e si è tanto più in diritto di domandarsi se il sig. Bell non abbia avuto cognizione del rapporto del sig. Bourseul, in quanto che, molti anni avanti, il padre del sig. Bell aveva già messo in applicazione, in Inghilterra, un’idea preconizzata dal padre stesso del signor Bourseul, riguardo al modo di far parlare i sordomuti.

Il sig. Carlo Bourseul rende conto di questo fatto nella maniera seguente:

“Ecco in quali circostanze io fui condotto ad occuparmi dello studio dei suoni del linguaggio, dal punto di vista acustico e fisiologico:

Nel 1851 io abitava Metz con mio padre. Un povero sarto di quella città ci condusse un giorno due suoi fanciullini, tutti e due sordo-muti dalla nascita, e ci spiegò come, a forza di cure e perseveranze, fosse riuscito a farli parlare. Egli aveva pazientemente analizzato i suoni articolati, occupandosi soprattutto della posizione degli organi i quali concorrono alla formazione di ciascun suono. I fanciulli avevano finito per impadronirsi del segreto di questo mirabile meccanismo. Essi ripeterono da principio i suoni semplici, poi le sillabe, poi le parole intere. Il più grande, che poteva avere otto o nove anni, era giunto anche a leggere ad alta voce.

Mio padre pensò che sarebbe stato utile di diffondere questo metodo. Egli aveva delle relazioni nella stampa; pubblicò un articolo che fu riprodotto dai giornali della capitale. Il sarto di Metz fu mandato alla scuola dei sordo-muti di Nancy, poi a Parigi, e insegnò.

I risultati ottenuti da quest’uomo mi avevano vivamente colpito. Compresi l’utilità che doveva offrire per lo studio della filologia e della linguistica un’analisi completa, seria, dei suoni del linguaggio, fatta su questi suoni in loro stessi, astrazion fatta dalle lingue alle quali essi possono appartenere, applicabile, per conseguenza, alla classificazione dei suoni in tutte le lingue. Mi occupai di questo studio con molto ardore, e, un anno più tardi, essendo venuto ad abitare a Parigi, ebbi a mia disposizione tutte le risorse necessarie per lavorare con frutto. Ebbi ben presto la bibliografia completa del mio soggetto. Proseguendo questi lavori constatai, con mia grande sorpresa, che il metodo del sarto di Metz era stato semplicemente perduto di vista, ma che non era nuovo. Fra i libri curiosissimi che mi passarono allora fra le mani, trovai, infatti, un’opera, in testo latino, pubblicata ad Amsterdam, nel 1692, da Conrad Aman, ed intitolato “Surdus loquens”. Questo solo titolo era, come si vede, un’intera rivelazione.

Fu pure durante queste ricerche che rinvenni un’opera delle più rare (Alfonso Costadan, Traité historique et critiques des signes dont nous nous servons pour exprimer nos pensées, Paris, 1717), nella quale appresi che i segnali dei fratelli Chappe non erano altro che numeri caldei, risultato che ebbi occasione di far conoscere negli Annales télégraphiques (tomo III, marzo-aprile 1860).

Ciò che precede ha per iscopo di stabilire che nel 1854, allorché mi assunsi di riprodurre elettricamente i suoni articolati, io aveva maturamente studiato la questione ed aveva a mia disposizione degli elementi serii di buona riuscita”.

 

Da quanto precede si vede che esiste una singolare coincidenza fra i punti di partenza dei signori Bourseul e Bell; che i loro studi sono gli stessi e che fin dal 1854, il sig. Bourseul descrisse l’apparato che il sig. Bell fa costruire vent’anni più tardi perfezionandolo.

Senza alcun dubbio il telefono è opera del sig. Bell, ma non si può ricusare al sig. Bourseul il merito dell’idea e dell’invenzione.

 

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Crediamo dover fare alcune riserve intorno alla nota precedente. Il progetto di telefono indicato dal sig. Bourseul nel 1854 presenta una grande analogia con quello di Reis (1861), con la sola differenza che nel ricevitore di Reis il suono è prodotto dalle magnetizzazioni e smagnetizzazioni rapide dell’anima di un’elettro-calamita, mentre che, nel progetto del sig. Bourseul, il suono sarebbe riprodotto dalle vibrazioni di una lastra messa in azione dall’anima (noyau). Un telefono costruito su tali indicazioni riprodurrebbe, come quello di Reis, il numero di vibrazioni, ma non le variazioni della loro ampiezza. Questo sarebbe un telefono musicale e non un telefono articolante. La soluzione di quest’ultimo problema era subordinata alla condizione di produrre delle correnti elettriche la cui intensità fosse in rapporto con l’ampiezza e la forma delle vibrazioni. Ciò è quanto hanno ottenuto, solo quindici anni dopo (sebbene l’invenzione del Reis fosse ben nota) il sig. Bell, adoperando un’elettro-calamita ad anima magnetizzata, ed il sig. Edison, intercalando un lapis di piombaggine fra la lastra vibrante e la linea.

Nota della redazione

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