GA 36 – L’informazione tonale (2.3.2006)

Riporto in extenso, per gentile concessione dell’autore (vedi foto), lo scritto da cui 22 anni fa partirono le mie fruttuose ricerche su Mario Lucidi.

 

 

L'INFORMAZIONE TONALE di Roberto Vacca – da ESEMPI DI AVVENIRE, Rizzoli, 1965

 

Il mio amico Mario Lucidi era quasi cieco per un difetto congenito e poteva leggere soltanto con l'aiuto di una lente, con grandissimo sforzo ed a una velocità esasperatamente bassa. Quasi tutte le moltissime cose che sapeva le aveva imparate facendosele leggere da parenti, amici o studenti. Aveva enormi poteri di concentrazione e di attenzione ed era dotato di una memoria non comune.

Una volta, quando studiavo il tedesco, gli chiesi qualche delucidazione su certe regole relative ai verbi deboli ed a quelli forti e mi accorsi con stupore che sapeva a memoria liste di centinaia di verbi irregolari. Aveva un udito estremamente fine.

Non riferisco queste circostanze per fare un pezzo di colore sull'amico scomparso, straordinario per quanto egli fosse, ma perché sono sicuro che la sua teoria della trasmissione tonale delle informazioni avrebbe potuto essere pensata soltanto da un uomo con la sua storia, con la sua costituzione, con la sua intelligenza e con le sue limitazioni fisiche, compensate dall'azione vicariante dell'udito sulla vista e dalla aumentata prontezza d'accesso alla memoria interna, che ovviava alla sua impossibilità di riferimento rapido a libri, appunti ed a mezzi di registrazione esterna in genere.

Lucidi era partito, credo, dalla considerazione che nella lingua cinese parlata il tono con il quale un monosillabo viene pronunciato è altrettanto importante per definirne il significato, quanto i fonemi che lo compongono. Come scriveva Maspero, nel suo articolo del 1937 sull'Encyclopédie Française, "(In cinese) il tono fa parte integrante della struttura della parola come le sue vocali e le sue consonanti...". Lucidi conosceva abbastanza bene la struttura della lingua cinese, sulla quale veniva spesso, tanti anni fa, a farsi dare spiegazioni da mio padre che era professore di cinese all'Università di Roma.

Tutti sanno che anche in italiano e nelle altre lingue indoeuropee per mezzo del tono, cioè dell'altezza e dell'inflessione con le quali pronunciano le varie sillabe di una parola o di una frase, si può caricare una frase con implicazioni di significato, che ne specializzano, ne modificano o perfino ne invertono il senso grammaticale.

Un "siiii" prolungato in un certo modo può indicare un'adesione entusiastica ad una proposta, mentre un "si-hi" lento e modulato può denotare un accordo incompleto, condizionato o dubbioso ed un “sì” corto ed ironico implica un disaccordo completo e può sostituire la frase:

"Dalla sicurezza con la quale ti esprimi sembri essere certo che io la pensi come te: disilluditi, perché niente potrebbe essere più assurdo".

È noto che in certe lingue, ad esempio in inglese, le frasi interrogative hanno una particolare struttura grammaticale, mentre in italiano, ad esempio, la stessa frase assume significato affermativo o interrogativo a seconda del tono con il quale è pronunciata. “L’hai detto tu." oppure" L'hai detto tu? ") Lucidi cominciò a sospettare, dunque, che anche nelle lingue indoeuropee il tono venga impiegato per trasmettere informazioni in misura molto maggiore di quanto non si creda comunemente. La ragione per la quale la trasmissione tonale delle informazioni non è stata ancora riconosciuta come un fatto è che gli indoeuropei nella maggioranza dei casi trasmettono con il tono informazioni che non sono consci di trasmettere o, addirittura, che non desidererebbero affatto trasmettere. Il mio amico riteneva di aver individuato con il suo orecchio finissimo molti casi tipici di trasmissione tonale inconscia di informazioni e sosteneva la possibilità di costruire una vera macchina della verità, basata sul fatto che ciascuno di noi, quando parla usa senza rendersene conto toni diversi a seconda che dica la verità o che dica menzogne. Su questo, a dire il vero, ero in completo disaccordo con lui e ragionavo che per costruire una simile macchina sarebbe stato necessario specificare le caratteristiche dei toni, corrispondenti ai diversi contenuti di informazione, in modo quantitativo e tale da permettere la esecuzione automatica ed inequivocabile del riconoscimento di certe frequenze o di codici, rappresentati da successioni di certi rapporti di frequenze. E questo sarebbe stato possibile soltanto dopo aver determinato con precisione che cosa esattamente si intendeva misurare. Gli facevo osservare che è del tutto normale trovare degli uomini che sappiano leggere e che, ovviamente, riconoscano le lettere dell'alfabeto l'una dall'altra e sappiano, quindi, descrivere con notevole precisione le differenze fra una lettera e l'altra; malgrado questo, però, il problema del riconoscimento automatico da parte di una macchina di lettere scritte a mano è ancora molto lontano dall'essere risolto. Perciò anche quando le informazioni tonali saranno riconosciute prontamente da chiunque, e non soltanto da pochi individui particolarmente dotati di orecchio e di intuito, non sarà risolto il problema della macchina della verità.

Lucidi apprezzava perfettamente queste mie obiezioni, ma citava delle osservazioni che aveva fatto e che certo apparivano molto curiose. Sosteneva, ad esempio, che ciascuno di noi che abbia fatto in vita sua una buona quantità di operazioni aritmetiche e specialmente moltiplicazioni, quando pronuncia un numero intero usa un tono del tutto particolare se il numero è primo, mentre se il numero ha un divisore maggiore di l lo pronuncia con tono diverso.

Quella sera a casa mia designava con strani termini che non ricordo i toni ascendenti, quelli discendenti, quelli ascendenti-discendenti, ma non riusciva a convincermi che io stesso dicevo i numeri primi con un tono speciale. Mi disse:

"Oggi, quando ti ho telefonato in ufficio, hai risposto dicendo il numero del tuo telefono interno. Ripetilo".

Dissi:

" Duecentosessantasette" .

Mi rispose:

" Ecco! Dicendo duecentosessantasette con quel tono, tu inconsciamente volevi esprimere il fatto che il numero 367 è primo. Infatti è ovvio che 267 non è primo. È uguale a 89 per 3. Ma tu l'hai pronunciato come se fosse primo, perché sei di quelli che senza rendersene conto ragionano in base 12 invece che in base 10 e perciò interpreti 267 come: due grosse più sei dozzine più sette, cioè come 367 che, in effetti, è primo".

Sebbene quei conti fossero chiaramente corretti, rimasi un po' stupito e dubbioso. Proprio non mi sembrava di dire duecentosessantasette in tono diverso da duecentosessantotto. Lucidi passeggiava su e giù per la stanza, passandosi la mano fra i capelli lunghi e strofinandosi gli occhi, e intanto continuava con foga crescente:

"Ma come fai a non renderti conto? Poi dici che hai un buon orecchio per le lingue straniere... una buona pronuncia. Ma va' a mori' ammazzato. Senti! Forse con le rime riesci a capirla prima. Prova a dire: sette fette".

"Sette fette."

"Adesso di': diciassette fette."

Io ripetevo obbediente:

"Diciassette fette".

“Adesso di': ventisette fette."

"Ventisette fette."

Be’; ti sei accorto adesso? Sette fette e diciassette fette, che sono primi, l'hai detto con un tono e ventisette fette, che è divisibile per tre, l'hai detto con un altro. L'hai sentito?"

Io non sentivo la differenza e, quando tornò a casa mia moglie, ci trovò che stavamo dicendo: "tre re", "ventitré re", "trentatré re".

Poco dopo ripetevamo tutti e tre scioccamente:

“L’hanno visitato tredici medici. L'hanno visitato sedici medici"-

Ma non c'era niente da fare: queste sfumature di toni le sentiva soltanto Lucidi, che era sempre più irritato della nostra insensibilità a queste differenze così ovvie per lui. Ci disse:

«Io conosco una ragazzetta, che ha una cultura molto scarsa e non sa neanche bene che cosa sono i numeri primi, eppure l'ho addestrata a riconoscere queste differenze di tono in modo tale che per lei i numeri primi sono quelli che si pronunciano con quel certo tono particolare. La sua abilità e la sua buona fede, anzi, sono dimostrate dal fatto che l'altro giorno mi ha detto che la mia teoria è tutta sballata perché il numero 33, che, dice lei, è primo, tutti lo pronunciano come se non fosse primo!"  (1)

Qualche tempo dopo presentai Lucidi a un professore che conoscevo all'Istituto di Ultracustica (2), che lo stette a sentire con molta pazienza e comprensione e disse molto ragionevolmente che è molto difficile apprezzare il tono sugli oscillogrammi, ma che si sarebbero potuti fare degli esperimenti. Ci fu qualche momento imbarazzante quando Lucidi chiese al professore di ultracustica di cantare , “Amòoor" allo scopo di dimostrare non so che punto di uno dei suoi ragionamenti. Quello era piuttosto timido e stonato ed in principio era riluttante. Poi si lasciò convincere e, arrossendo, cantò:

"Amòòr" .

Comunque non parlavano lo stesso linguaggio e l'incontro ebbe un successo abbastanza scarso. Infatti degli esperimenti non se ne fece niente e circa un anno dopo Lucidi morì improvvisamente di infarto.

Non credo che la sua idea sia stata ancora raccolta da nessuno. Io la racconto spesso, ma finora ho destato un certo interesse soltanto in uno della scuola di neurologia di Ross Ashby e non credo che sia la persona più adatta ad occuparsi della questione. Prima o poi il problema sarà chiarito. Per ora non resta che domandarsi. con meraviglia come mai accada che sia così difficile per noi esprimere certe cose che vogliamo esprimere, mentre forse ci è incredibilmente facile trasmettere informazioni, che non sono raccolte da alcuno, che non intendiamo comunicare ad alcuno e che eventualmente si riferiscono a nozioni ancora non affiorate alla nostra coscienza.

 

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(1)  In effetti il numero 33 non è primo: è uguale a 11 per 3.

(2)  Il compianto Italo Barducci (nota apposta da Andrea Gaeta)

 

Mario Lucidi nacque a Reggio Calabria il 7 novembre 1913. Autodidatta conseguì la maturità classica e nel 1936 si laureò in lettere all'Università di Roma discutendo una tesi "Il testo pahlavico Vicarisn I Catrang", che meritò la lode.

Era libero docente in Glottologia e fu assistente alla cattedra di Glottologia dell'Università di Roma dal 1938 in poi. Morì improvvisamente in Roma il 23 luglio 1961.

I suoi scritti molto profondi e, purtroppo, poco numerosi (fra cui: "La lingua è..."; "L'origine del trisillabismo in greco"; "L’equivoco de l'arbitraire du signe - L'iposema"; "L'accento nel persiano moderno") sono pubblicati su "Cultura neolatina" e su "Ricerche Linguistiche " . .. .

Una prima formulazione delle sue teorie, alle quali accenno nell'Informazione Tonale, è stata pubblicata postuma con il titolo “Prosodemi, tensività e tensione" su "Ricerche Linguistiche", fasc. V del 1962, ove è pubblicato anche un breve necrologio scritto dal Prof.  A. Pagliaro.

 

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