J. M. GuyauLa memoria e il fonografo

Revue Philosophique de la France et de l’étranger, IX, 1880, p. 319

Versione (letterale) in italiano di Andrea Gaeta – In rete è disponibile anche una versione in inglese

 

Nella scienza il ragionamento per analogia ha un’importanza considerevole; e se l’analogia è il principio dell’induzione esso può anche essere la base di tutte le scienze fisiche e psicofisiche. Molto spesso una scoperta ha avuto inizio da una metafora. Difficilmente la luce del pensiero potrebbe proiettarsi in una direzione nuova e rischiarare gli angoli oscuri dove non è riflessa da spazi già illuminati. Ci colpisce solo quello che ci ricorda qualcosa, anche se per contrasto. Comprendere è, almeno in parte, ricordarsi.

Per cercare di comprendere le facoltà o meglio le funzioni psichiche si è fatto ricorso a similitudini o a metafore. Qui, in effetti, allo stato ancora imperfetto della scienza, la metafora è una assoluta necessità: prima di “sapere” bisogna cominciare a “figurarci”. E così il cervello umano è stato paragonato ad ogni sorta di oggetti. Secondo Spencer esso ha delle analogie con le pianole meccaniche che possono riprodurre un infinito numero di motivi musicali. Taine ne fa una sorta di tipografia che produce continuamente infiniti clichè e poi li conserva. Ma questi paragoni ci appaiono ancora un po’ grossolani. In generale si considera il cervello allo stato di riposo, le immagini si considerano fisse, come clichè, e questo è inesatto. Nel cervello non c’è niente di compiuto, non ci sono immagini reali, ma solo virtuali, potenziali, che aspettano un segno per tradursi in atto. Bisogna però sapere come si produce questo passaggio alla realtà. La cosa più misteriosa nel meccanismo cerebrale è la sua dinamica, non la statica. Occorre allora un termine di comparazione dove non solo si veda ricevere un oggetto e conservare una traccia, ma che questa stessa traccia riviva a un dato momento e riproduca nell’oggetto una vibrazione nuova. Forse, riflettendoci, lo strumento più delicato, sia ricevente che motore, a cui si potrebbe paragonare il cervello umano potrebbe essere il fonografo recentemente inventato del Edison. Questa comparazione già da qualche tempo la riteniamo possibile, da quando abbiamo letto nell’ultimo articolo di Delboeuf sulla memoria questa frase detta en passant che avvalora il nostro paragone: “L'anima è un quaderno di fogli fonografici”.

Quando si parla davanti al fonografo le vibrazioni della voce si trasmettono ad uno stilo che scava su una lamina di metallo delle linee corrispondenti al suono emesso, dei solchi ineguali, più o meno profondi secondo la natura dei suoni. Probabilmente in maniera analoga nelle cellule del cervello sono tracciate in continuazione delle linee invisibili, che formano i sentieri delle correnti nervose. Successivamente, quando la corrente viene ad incontrare uno di questi sentieri bell’e fatti, dove è già passata, essa vi si caccia di nuovo. Le cellule allora vibrano come avevano vibrato una prima volta, e a questa vibrazione psicologicamente simile corrisponde una sensazione o un pensiero analogo alla sensazione o al pensiero dimenticato.

Questo sarebbe allora l’identico fenomeno che si ha nel fonografo quando, sotto l’azione dello stilo che ripercorre le tracce scavate precedentemente da esso stesso, la piccola lamina di rame si mette a riprodurre le vibrazioni che essa ha già eseguito: queste vibrazioni ridiventano per noi una voce, delle parole, delle arie, delle melodie.

Se la lamina fonografica avesse coscienza di se stessa, quando le si fa riprodurre un suono essa potrebbe dire quello che essa si ricorda di questo suono; e quello che a noi sembrerebbe l’effetto di un meccanismo assai semplice, ad essa potrebbe sembrare una facoltà meravigliosa, la memoria.

Aggiungiamo che essa potrebbe distinguere il nuovo suono da ciò che ha già detto, le sensazioni fresche dai semplici ricordi. Infatti le prime impressioni si scavano con sforzo un sentiero nel metallo o nel cervello; esse incontrano più resistenza e devono quindi impiegare più forza: quando esse passano fanno vibrare tutto più profondamente. Al contrario, se lo stilo, invece di aprirsi sulla lamina una via nuova, segue delle vie già tracciate, esso lo farà con più facilità: scivolerà senza premere (appuyer). Si è detto: la china del ricordo, la china del sogno; seguire un ricordo, in effetti, è lasciarsi andare dolcemente come lungo un pendio, aspettare un certo numero di immagini bell’e fatte che si presentano l’una dopo l’altra, in fila, senza scossa. Tra la sensazione propriamente detta e il ricordo c’è quindi una profonda differenza. Tutte le nostre impressioni a causa dell’abitudine si dispongono in due classi: o hanno una intensità più grande, una nettezza di contorno, una fermezza delle linee che è loro propria; oppure sono più sbiadite, più indistinte, più deboli, eppure si trovano disposte in un certo ordine che ci si impone (imputa). Riconoscere un’immagine significa sistemarla nella seconda di queste due classi. Si sente allora in un modo più debole, e si ha coscienza di sentire così. Il ricordo consiste in questa coscienza: primo, dell’intensità minore di una sensazione; secondo, della sua maggiore facilità; e terzo, del legame che lo riallaccia in anticipo ad altre sensazioni. Come un occhio esercitato distingue una copia da una tela d’autore, così noi impariamo a distinguere un ricordo da una sensazione, e sappiamo discernere il ricordo anche prima che esso venga localizzato in un tempo o in un luogo preciso. Proiettiamo questa o quella impressione nel passato ancor prima di sapere a quale periodo del passato essa appartiene. Il fatto è che il ricordo conserva sempre un carattere proprio e distintivo, così come una sensazione proveniente dallo stomaco differisce da una sensazione visiva o uditiva. Analogamente il fonografo è incapace di rendere la voce umana con tutta la sua potenza e il suo calore: la voce dello strumento resta sempre fievole e fredda, ha qualche cosa d’incompleto, di astratto, che la fa distinguere. Se il fonografo sentisse se stesso, imparerebbe a riconoscere la differenza fra la voce che viene da fuori e che gli si imprime con forza e la voce che emette lui stesso, semplice eco della prima, che trova una via già aperta.

C’è anche quest’altra analogia tra il fonografo ed il nostro cervello, che la rapidità delle vibrazioni impresse allo strumento può notevolmente modificare il carattere dei suoni riprodotti o delle immagini evocate. Nel fonografo voi fate passare una melodia da un’ottava ad un’altra secondo che si comunichino alla lamina delle vibrazioni più o meno rapide: girando più velocemente la manovella uno stesso suono passa dalle note più gravi e indistinte alle note più acute e penetranti. Non si potrebbe dire che un effetto analogo si produce nel cervello allorché, fissando la nostra attenzione su un ricordo all’inizio confuso, lo rendiamo a poco a poco più netto e lo facciamo per così dire salire di uno o più toni? Questo fenomeno non potrebbe anch’esso spiegarsi per la rapidità e la forza più o meno grande delle vibrazioni delle nostre cellule? E non ha potuto questo fenomeno essere spiegato dalla velocità e dalla resistenza aumentate o diminuite delle vibrazioni delle nostre cellule? In noi c’è una sorta di gamma dei ricordi; lungo questa scala le immagini salgono e scendono senza sosta, evocate o scacciate da noi, ora vibrando nelle profondità del nostro essere e formando come una confusa “sordina”, ora squillando con sonorità sopra tutte le altre. A seconda che dominino o recedano esse sembrano avvicinarsi o allontanarsi da noi, e a volte vediamo allungarsi o accorciarsi la durata che le separa dall’istante presente. Un’impressione simile è quella che ho provato a 10 anni e che, rinascendo in me con una nuova forza sotto l’influenza di un’associazione di idee o semplicemente dell’attenzione e dell’emozione, mi sembra come se fosse di ieri: è così che i cantanti producono effetti di lontananza abbassando la voce, mentre per dare l’impressione di vicinanza non fanno che alzarla.

Queste analogie si potrebbero moltiplicare all’infinito. La differenza essenziale fra il cervello ed il fonografo è che nella macchina ancora grossolana di Edison la lamina di metallo resta sorda a se stessa, non c’è passaggio del movimento alla coscienza: questo passaggio è la cosa meravigliosa che si compie senza sosta nel cervello. Questo è sì un mistero, ma meno stupefacente di quanto possa apparire. Se il fonografo si autoascoltasse, questo sarebbe in definitiva meno strano che il pensare che noi l’intendiamo (?); e invero noi l’intendiamo, perché le sue vibrazioni diventano delle sensazioni e dei pensieri. Bisogna dunque ammettere una trasformazione sempre possibile del movimento in pensiero, trasformazione ben più verosimile quando si tratti di un movimento interno allo stesso cervello che di un movimento proveniente dall’esterno. Da questo punto di vista non sarebbe né troppo inesatto né troppo strano definire il cervello un fonografo infinitamente perfezionato, un fonografo cosciente.