Vittore Bonfigli

Note sull’ortografia italiana

e il principio fonetico nel sistema Gabelsberger-Noe

 

Bollettino dell’Accademia italiana di stenografia, 1932

 

 

 

 

1. - Luigi Luciani, fisiologo di grande e meritata fama, 32 anni or sono, dinanzi alla Società Italiana per il progresso delle scienze, tornando su una sua proposta di riforma dell’ortografia italiana, formulava il principio ortografico-fonetico in questi termini:

“Come la notazione musicale è la rappresentazione simbolica perfetta dei singoli suoni che si succedono nelle composizioni musicali, così la notazione grafica di una parlata dovrebbe essere la rappresentazione simbolica praticamente perfetta della pronuncia, più precisamente dei singoli fonemi elementari che si succedono per la formazione delle sillabe, delle parole, degli incisi, dei periodi del discorso. Perché la pronuncia sia ben rappresentata nella scrittura, si esige necessariamente che ciascun fonema elementare abbia sempre nella grafia una determinata lettera o monogramma, vale a dire che mai due o più lettere siano rappresentative di un unico fonema elementare e che mai due o più fonemi siano espressi da una sola lettera”.

Considerate al lume di questo principio, le ortografie dei principali popoli europei ed americani presentano in vario grado notevoli imperfezioni. La più imperfetta è, senza dubbio, quella degli anglo-sassoni, la cui scrittura è quasi più una indicazione mnemonica dei suoni che non una loro simbolica rappresentazione. I tedeschi, dopo le norme adottate poco più di 30 anni fa ed attuate nel Lessico ortografico del Duden, sono, tra i germanici, quelli che hanno l’ortografia meno imperfetta. Di più si avvicinano alla fonetica l’ortografia delle lingue slave e quella italiana; più ancora la spagnola, mentre la scrittura francese persiste a conservare tutti quegli arcaismi che l’Havet chiamava “enormi tare”.

I glottologi francesi, che debbono lamentare le molteplici incongruenze della loro ortografia, sono stati tratti ad ammirare e invidiare quella italiana, che ha seguito il naturale evolversi della lingua, poggiandosi quasi costantemente sulla pronuncia toscana, e non ha seguito coloro che, come il Bindelli, volevano conciliare il principio fonetico con quello etimologico, o, come il Gherardini, pretendevano addirittura di riportarsi all’etimologia, sostenendo che la pronuncia, varia e instabile, non può dare norma sicura per l’ortografia. L’Accademia della Crusca, pur responsabile di tanta parte dei guai che son rimasti nella nostra scrittura, fin dalla prima edizione del suo celebre Vocabolario – 1612 – poneva questo principio: “ognora la scrittura segua la pronuncia e da essa non s’allontani un minimo che”. E lo sforzo per avvicinarsi il più possibile alla perfetta aderenza a questo principio è stato costante. Due secoli più tardi Carlo Cattaneo ammoniva: “pronunciate come si deve, e poi scrivete come pronunciate”.

Ma quando si afferma, come spesso avviene, che l’ortografia italiana è fonetica e che i nostri testi si pronunciano così come sono scritti, si dice cosa non esatta, chè in realtà la nostra ortografia è ben lontana dall’esser completamente basata sul principio stabilito fin dal 1600 dall’Accademia della Crusca.

Causa fondamentale di questa imprecisione: l’insufficienza dell’alfabeto.

Diceva il Buonmattei che la lingua persiana ha 32 fonemi elementari e 32 segni per indicarli; onde la sua ortografia “ viene ad essere più pura, più breve e più certa che non la nostra o alcun altra d’Europa”. Se le sue informazioni fossero completamente esatte non so. Il Rosny dà un alfabeto di scrittura cuneiforme persiana di 37 lettere, formate da varie combinazioni di 3 segni soli. Certo è che noi, per 29 fonemi elementari in cui si può decomporre la nostra lingua[1], non abbiamo che 22 monogrammi. Ma arriviamo a 22 contando l’j che l’Accademia esclude dall’alfabeto, ritenendo che questo suono non sia che una vocale i in funzione di consonante; l’h del tutto superflua, perché non corrisponde ad alcun fonema; la q, altrettanto inutile perché non corrisponde ad un suono proprio (tanto che l’ortografia spagnola ha potuto abolirla): di modo che, per 29 fonemi elementari da rappresentare, in realtà non abbiamo che 19 monogrammi. E i grammatici, anziché introdurre nuovi segni per colmare queste lacune, hanno posto in uso dei digrammi e dei trigrammi, per indicare dei suoni semplici cui mancavano corrispondenti monogrammi, ed hanno assegnato a talune lettere un duplice valore.

Questa imperfezione fu segnalata già da alcuni studiosi del Rinascimento: Claudio Tolomei, Leonardo Salviati – il primo ordinatore dell’Accademia della Crusca -, Benedetto Buonmattei – segretario di questa, e per lungo tempo considerato come il principe dei grammatici italiani -, Gian Giorgio Trissino e tanti altri. Ma le dispute in cui gli eruditi di quell’epoca si accapigliarono furiosamente[2], se condussero ad eliminare certi arcaismi nella scrittura di singole parole, non colmarono le lacune dell’alfabeto; né miglior sorte è toccata ai riformatori moderni, di cui taluni erano dei buoni maestri elementari, continuamente alle prese con quegli errori dei loro piccoli allievi, che ricorrono con insistenza, perché il bambino affidandosi all’orecchio, segue un criterio logico, mentre illogica è incongruente è l’ortografia in vigore[3]. Ed oggi siamo in questa situazione :le norme dell’ortografia comune, nell’assetto dato loro da una tradizione ormai lunga, valgono come vere norme, ancorché per più riguardi siano intrinsecamente abominevoli, e una questione ardente, un dissidio aperto, vivace, loquace non c’è più”… per quanto “bisogna convenire che di certi malanni è piuttosto sopito il sentimento che non trovato il rimedio” (D’Ovidio).

 

2. - La stenografia, per la necessità di raggiungere la maggiore possibile velocità, arrivò facilmente all’ap­plicazione del principio fonetico. Il ri­chiamo del Luciani alla notazione mu­sicale si ritrova più di una volta nell­’Anleitung di Gabelsberger, e talora pur con l’evidente sforzo di stabilire delle analogie non sempre fondate[4].

In Francia la contesa per la riforma ortografica fu più vivace che in Italia: le incongruenze, ben più numerose e più gravi che da noi, han dato più ra­gioni di lotta ai riformisti; la grande quantità di gruppi di lettere che indi­cano un solo suono, distinguendo nella scrittura parole diverse, ha potuto at­tribuire maggior peso all’opposizione dei visivi contro gli uditivi: i tradizio­nalisti, facendo della loro tesi addirit­tura una questione di nobiltà, di blasone della lingua - seguiti, del resto, da taluno anche in Italia - malgrado le modificazioni parziali che si sono imposte nel corso del tempo, hanno avuto, finora almeno, partita vinta. Tuttavia, in Francia stessa, quando si é trattato della stenografia, lotta non si è avuta; ed è stata proprio l’Acca­demia, organo eminentemente tradizionalista e conservatore, che, posta di fronte alle necessità di una stenografia, ha sentenziato: “bisogna che l’orto­grafia sia conforme alla pronuncia. Que­sta sola condizione riduce almeno di un quarto il numero dei caratteri ne­cessari per scrivere un discorso in lingua francese”.

Enrico Noe, quando ha applicato il sistema di Gabelsberger alla nostra lingua, seguendo il principio fonetico, ha attuato, in sostanza, talune delle proposte che, nel nostro paese, risalgono ai grammatici del Rinascimento, per cui il sistema rappresenta senza dubbio un progresso notevole nei confronti dell’ortografia comune.

Ma, se non è esatto dire che la lingua italiana si scrive, nella comune ortografia, così come si pronuncia, non è nemmeno esatto dire che il sistema stenografico Gabelsberger-Noe abbia completamente seguito il principio fonetico. Esso ha portato da 19 a 24 i monogrammi utilizzabili, creando dei segni propri per i fonemi cia, gia, gna, glia, scia[5]: ma gli elementi fonetici rimangono pur sempre 29, per cui taluni difetti, se pure i meno gravi, dell’ortografia comune le rimangono. Gli è che, giustamente osserva il Giulietti, il principio fonetico non si poteva seguire in modo assoluto, perché la stenografia non è pura teoria e trova un limite nella pratica e per quanto vi siano dei principi astratti da cui si parte, ogni sistema deve necessariamente scegliere di quei principi quel tanto che gli conviene.

Si deve però osservare che non tutti gli espositori del sistema hanno dimo­strato di avere, ove si riferivano al principio fonetico, delle idee molto chiare. Qualcuno è stato più accorto ed anche se non sempre è riuscito pre­cisissimo, non è incorso in troppo gravi errori; ma altri sono caduti in certe inesattezze di linguaggio che, pur essendo mende a cui si può facilmente riparare con opportune correzioni, dimostrano che la materia non è stata ben digerita; o, addirittura, hanno fatto affermazioni contrastanti in modo stridentissimo con la fonetica. Troppe volte, poi, per voler trovare ad ogni costo delle spiegazioni scientifiche di taluni particolari del sistema, si è fatta della pura fantasia.

Non cito nomi di autori, perché non faccio polemiche personali: ma i ri­chiami “virgolettati” son testuali e gli interessati vi si riconosceranno perfettamente. Ad essi ricorderò una frase che Graziadio Ascoli premise ad una sua critica degli Studi linguistici del Biondelli: “l’utilità di avvertire le scorrettezze scientifiche cresce in ragione dell’autorità di chi vi incorse”.

3. – Quando, a proposito dei fonemi gna e glia, si dice che “il sistema ha stabilito di indicare con nuovi segni dei suoni speciali” si usa, per lo meno, un linguaggio molto improprio, perché è inesatto dire che si tratti di segni nuovi, inesatto dire che si tratti di segni speciali.

Quei segni sono i nostri simboli gra­fici di due fonèmi, come ogni altro, e non sono più nuovi più vecchi di qualsiasi altro del sistema: quei suoni sono due fonèmi elementari, che appar­tengono a certi gruppi, cui apparten­gono anche altri, che hanno caratteri­stiche comuni a quelle di altri e, natu­ralmente, caratteristiche proprie; per cui sono speciali solo come ognuno dei 29 fonèmi della nostra lingua è spe­ciale in confronto dei rimanenti 28. La sola particolarità loro è che il nostro alfabeto comune non ha due monogrammi destinati a simbolizzarli grafi­camente, mentre la stenografia, secon­do il principio che imporrebbe un mo­nogramma proprio per ogni fonema della lingua, ne ha creati due anche per questi.

Quando si dice che “la combinazione del g dolce con la sillaba li forma un suono speciale”, che “un suono speciale forma anche la combinazione di g con n, come in Agnese”; a parte quello speciale che, ripeto, non significa proprio nulla, si dicono delle eresie, perché, per la suggestione esercitata dall’ortografia comune, si inventa una combinazione che nella fonetica non esiste. E qui, veramente, l’errore non è tanto di imprecisione di linguaggio, quanto di mancata conoscenza della fonetica; e quindi è più grave.

I fonemi che l’ortografia comune indica col digramma gn e col trigramma gli sono due modificazioni dei suoni na e la, del cui meccanismo di formazione i fisiologi possono dirci questo: “che il gna differisce dal na, perché il primo si forma per un’articolazione occlusiva palatale; che il la si forma per un’articolazione alveolare di restringimento, che permette all’aria espiratoria di uscire con sfregamento attraverso due piccole aperture posteriori, corrispondenti alla posizione dell’ultimo dente molare superiore, mentre il glia si forma per un’estesa articolazione palatale, nella quale lo sfregamento dell’aria espiratoria avviene attraverso due angusti canali interposti tra i quattro alveoli molari e i bordi laterali della lingua” (Luciani). Una cosa certa è, e già la disse nel Rinascimento il Tolomei: che in questi due fonemi non esiste il g. Il g non ce lo sentono, ma ce lo vedono coloro che non sanno liberarsi dalla suggestione creata in essi dall’ortografia ordinaria: che, se i grammatici e i lessicografi italiani, anziché escogitare due segni ad hoc per questi due fonemi, hanno fatto ricorso – per adottare il linguaggio quasi chimico di alcuni trattatisti di stenografia – all’espediente del tutto arbitrario del miscuglio gn, gli, nella fonetica non è affatto una combinazione di gia e na, di gia e la che dà luogo a questi suoni.

Ond’è, invece di certe frasi che potrebbero veramente risparmiarsi, si può dire, se mai – come qualcuno dice – una sola cosa più precisa e più interessante; e cioè che il nostro sistema stenografico, sostituendo al gn dell’ortografia comune un segno simile a quello adottato per l’n[6] e al gli un segno simile a quello adottato per l’l, nei quali non si riscontra alcuna traccia del g, è stato aderente al principio fonetico ed ha attuato quello che il Salviati lamentò non si fosse fatto e che il Trissino ci attesta essere stato da taluno ai suoi tempi propugnato: l’introduzione nell’alfabeto di due lettere per eliminare il digramma gn e il trigramma gli.

Ma occorre pure aggiungere , per essere completi, che per quanto riguarda il fonema glia si è in pratica eliminato ogni progresso in confronto dell’ortografia comune, poiché, dopo aver introdotto quel segno nell’alfabeto, si è aggiunto che, però, esso viene sostituito ordinariamente da quello dell’l.

Non solo, ma si è incorsi in un equivoco strano.

Si insegna a scrivere le parole aglio, taglio col segno alfabetico dell’o innalzato al di sopra della base, e quindi unito all’l da un filetto. Si tratta di un ritorno, in questo caso, al segno alfabetico del glia?

Evidentemente no, chè allora non vi sarebbe alcun bisogno di indicare la o finale, che per regola si omette. Né può dirsi che sia necessario indicarla per evitare confusione con agli, tagli: se si tratta di un ritorno al segno alfabetico del glia, deve rimanere immutata la regola secondo cui l’o finale si omette, mentre si deve indicare la finale i, così come per altre parole in i. E tutto, anzi, consiglia a procedere in questo modo, per evitare ogni possibile confusione, senza bisogno di scervellarsi per sapere quando può esservi e quando non può esservi ambiguità (agli-ali; vagli-vali, ecc.). Ma la verità è che in aglio, taglio e simili si vede un dittongo io, e si indica la o appunto perché fa parte di questo preteso dittongo. Ciò è tanto vero che queste parole aglio, taglio si trovano nel paragrafo del Dittongo io; e che ove si tratta del dittongo ia si insegna a scrivere vaglia = valia, cioè col segno dell’l, sostituito a quello detto del gl, seguito dal segno del dittongo ia[7]. Del resto, uno dei trattatisti più autorevoli lo dice a chiare note: “i dittonghi con i prepositiva che seguono gl si indicano o si riducono come se seguissero l (figlia, figlio, figlie, ecc.)”. Ma la Commissione per le riforme del sistema notò che questo, per indicare il fonema gliaintroduce dei dittonghi laddove dittonghi non esistono”.

Ed è così: questi pretesi dittonghi ia, ie , io in glia, glie, glio non esistono: esistono solo delle sonanti a, e, o che si agglutinano con la consonante glia facendo sillaba con essa.

L’equivoco in cui si è incorsi risulta evidente in quei trattati in cui si dice che il segno speciale della stenografia sta ad indicare quel suono speciale che nell’ortografia comune è indicato col gl. Errore, perché il gl nell’ortografia comune indica la composta g ( gutturale ) l, che si trova in glossa, troglodita, ecc. ; mentre per il fonema rattratto o molle glia si usa non il digramma gl ma il trigramma gli. Ed è stato questo i del trigramma usato dall’ortografia comune che ha creato l’equivoco. In omaggio al principio fonetico, come si dice – per quanto col solito linguaggio molto impreciso – che in stenografia è inutile “l’uso della vocale i che serve ad imprimere alle consonanti c e g il suono dolce”, così deve dirsi che , adottato un monogramma apposito per il fonema glia non è più necessario l’uso del g né dell’ l né dell’ i. Come nelle sillabe cio, gio, scio quell’ i deve scomparire nella sillaba glio. Aveva perfettamente ragione il Luciani quando, avendo adottato, nella sua proposta di riforma ortografica, per il fonema glia un monogramma costituito da un segno di l tagliato da una piccola secante ( che, per non mettere in imbarazzo il proto, sostituisco qui con una | nera ), non metteva più la i in maglia, puglie, soglio , pagliucola, e scriveva ma|a , Pu|e, so|o, pa|ucola.

 

 

 



[1] Il Trabalza, nella sua Storia della Grammatica Italiana, dice che quando si iniziarono gli studi per la compilazione della Grammatica, l’idioma toscano contava 34 fonemi, mentre l’alfabeto non disponeva che di 20 segni. Non mi rendo conto esatto di questo numero dei fonemi indicato dal Trabalza: ma per quanto qui si vuol dire, è inutile entrare in questi dettagli.

[2] La disputa per la riforma dell’ortografia “sorse, o meglio risorse, con lo svegliarsi del sentimento artistico e del culto della forma del Rinascimento, e fu una mischia che mise il campo in gran rumore” (Trabalza), nel corso della quale furono fatte osservazioni ed avanzate proposte, che dovevano riprodursi poi nell’800 e nel 900, anche da parte di chi non sapeva di aver avuto così lontani predecessori.

Il Trissino, per dare solo un esempio, compose un alfabeto di 33 segni, di cui 28 significativi (cioè rappresentativi di fonemi elementari) e 5 oziosi (x, y, ph, th, h); e, se ebbe delle stranezze, delle incoerenze, delle imprecisioni, fece però anche proposte molto giudiziose.

[3] Il Luciani ricorda il Frisoni, maestro a Sora, la Romedi-Besta di Sondrio, il Moscariello di Napoli, il Fornari, benemerito istruttore di sordomuti a Milano. Ma tutti urtarono contro il tradizionalismo dei professori, e furono considerati più o meno come degli ignoranti che pretendevano di insegnare ai loro allievi a scrivere scorrettamente.

[4] Dove, per esempio, richiama il modo di indicare gli accordi non è molto felice, perché il problema così risolto dalla notazione musicale non esiste per la scrittura della parola (sia pur cantata) dell’uomo, ove accordi, cioè fusioni di suoni diversi contemporaneamente emessi, non esistono (nemmeno la sillaba, checchè ne dica il Gabelsberger, è un accordo).

[5] Graziadio Ascoli portò dall’uso del sanscrito nella glottologia l’indicazione dei fonemi fatta col comune denominatore a (cia, gia, fa, pa, ecc.) e quest’uso fu accettato da gran parte dei glottologi e dei fisiologi, che lo hanno trovato più vantaggioso di ogni altro. In queste Note verrà seguito egualmente.

[6] L’ortografia spagnola, che per certi rispetti è assai più esatta della nostra, indica il fonema gna con la tilde, che pone sul segno dell’n (España), ed è in ciò del tutto ossequiente alla fonetica.

[7] Di qui la necessità di studiare parola per parola tutte quelle in cui ricorrono questi gruppi di lettere, per vedere quando è che può aversi equivoco, nel qual caso occorre tornare al segno alfabetico glia, per non confondere taglia con Talia, maglia con malìa, ecc.