82 – Documento 2.49 della bibliografia buccoliana

20 settembre 1906

 

In memoria di Gabriele Buccola

Scrivo in memoria di un giovane, e oserei anche dire, per i giovani.

Intendiamoci, però; non certo per i giovani-vecchi, per quelli che tu faresti meglio a definire: rampolli di vecchiaia nuova. Io non so, infatti, vecchiaia più affliggente e più malefica di questa giovinezza che viene, anc’oggi e così scempiamente, ostentando la folla innumerevole de’ nati della generazione nuova. Ma, non vi sono anche delle piante degeneri, delle foglie appassite, dei fiori secchi, dei frutti imbozzacchiti, nella primavera? Così nella giovinezza.

Se la generazione nuova ha i suoi vecchi, ha pure i suoi giovani.

Essa porta, direi, ne’ suoi strati superficiali la scorie sonora di tutti gl’incoscienti e di tutti i pervertiti che il Vecchio lascia sempre dietro a sé nel cammino della storia, e che sempre – con adattamenti interessati, quasi per una nota legge di mimetismo, di protezione – assume forme e pose sempre nuove, modernistiche, quotabili sul mercato.

Ma, ha pure tutta una fioritura di anime alte e diritte, tutta una falange serrata, compatta, di intelletti vivi e pensosi, carichi di energie, di ideali, di altezze e di promesse; tutta una famiglia numerosa e generosa di spiriti anelanti che continuano in sé la stirpe dell’eterno progressivo.

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Nel 1885 moriva a Torino un giovine siciliano che fu tutta una superba affermazione e, insieme, tutta una superba speranza per la scienza. E fu anche un materialista di vasta e ferma fede.

Moltissimi giovani ne ignorano il nome, pochi sono i coetanei suoi che ne ricordino l’opera breve ma insigne. Gabriele Buccola spariva dalla vita troppo presto, e più di vent’anni son pure trascorsi dal dì della sua morte. Ce n’è d’avanzo per giustificare l’oblio di qualsiasi uomo, e di qualsiasi opera, che la folla non può far suoi. E più che l’avanzo poi, ove si sappia quanto modesto fosse anche vent’anni fa, il saluto degli uomini dinnanzi alla cara salma che pendeva nell’oscura dimora della notte eterna.

Angelo Mosso, il chiaro biologo di Torino, ha voluto toccar di recente a quella ben trista sera di marzo:

Uno dei più tristi ricordi della mia vita - egli scrive - fu una sera che, tornando a casa, incontrai un funerale modesto. Visto che alcuni miei conoscenti lo seguivano, mi avvicinai e chiesi di chi fosse quel feretro. Mi dissero che era… Buccola! Lo seguii fino all’estrema dimora, afflitto della perdita, umiliato che scendeva senza onori e quasi ignorato nella tomba un giovane che lasciò un’orma così profonda nella scienza”.

Epperò, non v’ha – io penso – giovane gentile, non v’ha studioso italiano, che non possa e non debba consentire all’opera di una eletta di concittadini e di professori dell’Ateneo palermitano, i quali attendono, oggi, di rivendicare la memoria di colui che Cesare Lombroso chiamava, or è poco, “sommo psicofisico” di questa bella e geniale figura di scienziato la cui giovane fronte potè esser baciata dalla pura e durevole gloria.

Codesto Comitato, del quale è presidente il rettore prof. Manfredi, viene ora adoperandosi presso il Governo per ottenere la traslazione delle ceneri del Buccola da Torino a Palermo, e per rendere, in tale occasione, condegne onoranze alla cara memoria sulla quale troppo pesò l’indegnità dell’oblio. Al medesimo Comitato fanno già spontaneo, esultante atto di adesione molti che per altezza di pensiero e di fede son lume, decoro, speranza della cultura italiana; e unanime e solenne consenso daranno, indubbiamente, tutti i maestri e cultori di quella scienza che il Buccola pur tanto accrebbe colla sua opera sventuratamente breve, tuttavia a tal segno originale e possente da far cospicua e gloriosa una lunga carriera di scienziato, da onorare il paese nostro.

So che molte e nobilissime adesioni son già pervenute al Comitato, tra le quali amo notar quelle di Lombroso, Ardigò, Tamburini, Ferri, Bianchi, Tanzi e, in special modo, quella di Enrico Morselli che fu, dopo il Tamburini, maestro del Buccola e che, nonpertanto, se ne dichiara oggi discepolo. Questo superbo giudizio dell’eminente psichiatra di Genova è tale da onorare ben più che la memoria del giovine scienziato; poichè esso innalza il maestro insieme al discepolo, e pure innalza questa povera creta che è l’uomo.

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Quello che a Gabriele Buccola debbono le scienze psichiatriche e psicologiche, e quello che ancora da lui esse si attendevano non è qui luogo di dire. Lo dissero già con giubilo di ammirazione e di stupore i maestri più insigni di quelle discipline, in quei pochi anni di produttività scientifica, in cui il Buccola, come in un’ansia di eroe che si senta chiamato ad attingere le più alte cime, con in faticata, mirabile opera di osservazione e di esperimento, di analisi e di tesi, di critica e di ricostruzione, potè dar prova del suo altissimo ingegno; e dovevano ben presto ripeterlo con alto, unanime cordoglio, alla inattesa, immatura fine di tanta e sì prodigiosa giovinezza.

Egli lasciò orme incancellabili nella scienza al cui progresso rimane indissolubilmente legato al suo nome. La Psichiatria lo ebbe indagatore di razza, ardito e geniale, originale e profondo; la Psicologia sperimentale lo annovera fra’ suoi più insigni pionieri, e l’Italia come il primo investigatore italiano dei problemi psicometrici; la Filosofia scientifica, infine, può anche vantarlo fra le menti più penetranti e poderose e, del pari, equilibrate di pensatore ch’ella abbia visto fiorire – sebbene per poco e con rara modestia di opera e di atti – tra le giovani promesse dell’ultimo quarto del secolo scorso.

Nel 1879, appena laureato, tenuto già in bella stima dal Carducci e caro al Trezza, pubblicava nel Pensiero ed Arte di Palermo e poi in edizione a parte La Dottrina dell’eredità e i fenomeni psicologici – una breve ma bella e lucida sintesi su quell’ordine di ricerche, di sistemazioni, di studi, in quel tempo, si può dire, quasi ancor nuovi. Quel breve studio rivelava già nel giovane venticinquenne oltre a una cultura vasta e piena di freschezza, oltre a un ingegno solido e alato, anche un criterio maturo e profondo di pensatore e di osservatore, un indirizzo francamente positivo di mentalità, e altresì – fenomeno, invero, non ordinario fra gli uomini di scienza – uno scrittore dalla forma sobria, ma pur colorita, agile, perspicua, elegante e ricca di suggestione.

Il successo (non certamente librario; ahimè, in Italia questo genere di successi è destinato alle farse), il successo di questo suo primo lavoro scientifico valse ad aprirgli subito, con unanime consenso di ammirazione da parte di psicologi, alienisti, pensatori – fra’ quali il Ribot, il Tamburini, l’Ardigò, il Lombroso, il Morselli, il Trezza e molti altri – quella via alta e gloriosa della Scienza sul cui compatto granito egli si sarebbe ben presto tagliato un monumento pari a quello dei più grandi maestri, se la morte non avesse spezzato, a trent’anni, quella grande e vittoriosa speranza, quella giovinezza insigne, nel pieno fervore, oserei quasi dire, della scoperta.

Nel 1881, in un concorso di perfezionamento all’interno, vince uno dei due posti riserbati alle scienze mediche. Deve perfezionarsi negli studiai di Psicologia patologica e di Clinica psichiatrica in una università del Regno, e sceglie Torino, dov’egli già si trovava, aiuto di Morselli e anima, insieme a questi, della magnifica Rivista di filosofia scientifica della quale fu anche autorevolissimo redattore. L’anno appresso egli ottiene per titoli la libera docenza all’università torinese.

Dal 1879 al 1885 – ecco l’angusta cerchia che il destino cieco volle assegnare alla fase produttiva nella breve esistenza di Gabriele Buccola. Pure, è in quei soli sei anni pel geniale psicologo un tale e sì prodigioso ardore di indagine sempre originale e profonda e, qua e là, anche di animosa ricostruzione, nel campo della Psicologia e della Psichiatria, che stupisce tuttora gli studiosi. Inutile mi sembra accennare qui alla produzione scientifica del Buccola, nel tempo in cui egli fu col Tamburini al Frenocomio di Reggio-Emilia, col Morselli all’istituto psichiatrico di Torino, e col Gudden a Monaco di Baviera; alle sue memorie magistrali, alla sua collaborazione alle maggiori riviste di scienza e di cultura di quel tempo, fra le quali mi basta notare per l’Italia la bella Rassegna di Sonnino e la già ricordata Rivista di filosofia scientifica di Morselli. Un libro, un libro solo egli potè pubblicare, due anni prima della morte: La legge del tempo nei fenomeni del pensiero. E questo volume della “Biblioteca scientifica internazionale” rimane anche oggi il monumento insigne che il geniale scienziato – gareggiando coi grandi sperimentatori tedeschi: gli Helmholtz, i Wundt, i Fechner – lasciava al suo paese, a onor di sé e della scienza italiana.

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Io debbo qui limitarmi a dare, frugando fra i miei ricordi, alcune fra le innumerevoli espressioni di quella stima che scrittori, scienziati, pensatori eminenti ebbero del valore di Gabriele Buccola. Lontano dalla Sicilia e privo di tutta quella ricca documentazione che la famiglia del rimpianto e diletto amico possiede, oso quasi interamente affidarmi alla memoria.

Per un lavoraccio di critica, scritto quando il Buccola aveva appena diciassett’anni, così gli scriveva Giosuè Carducci, non facile lodatore al certo, e che pure volle con bella dedica donare al giovinetto licente taluna delle sue opere:

“Parmi di poter notare nelle sue osservazioni un’abilità a giovarsi di certi particolari per rilevarne fuora la immagine dello scrittore, abilità che rivela il critico; e questo mi piace”.

Uno o due anni dopo la pubblicazione della Dottrina dell’Eredità, così gli scriveva il Mantegazza:

“Caro collega, Io sono innamorato di voi, delle vostre mirabili ricerche, e gli innamorati esigono il ritratto della persona amata. Siate dunque tanto buono da mandarmi la vostra fotografia, fatta ad immagine di uno degli ingegni più acuti e profondi che abbia oggi la scienza italiana”.

Di due comunicazioni che egli lesse (aveva allora ventisei anni) al Congresso freniatrico del 1880 a Reggio Emilia, diceva il Tamburini che “furono forse i due lavori più importanti che vi vennero comunicati e che basterebbero da soli a rendere memorabile quel congresso”. – “Non vi è – diceva il Tanzi – capitolo della psicometria che egli non abbia creato o accresciuto o discusso o, per lo meno, accennato”. – “A lui più che ad altri – scrisse il Kraepelin – mi legavano in pari tempo e affetto e comunanza di idee: Gabriele Buccola, la cui memoria valicherà i confini della terra natale e il cui nome andrà congiunto alla storia della Scienza”…

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Ebbe a dire una volta, Enrico Morselli: “Io vorrei consacrare alla memoria del mio povero e grande amico una pagina degna di lui e del suo altissimo ingegno”. Or questa pagina si può dir già scritta e dallo stesso Morselli e da molti altri, in quel consenso di ammirazione e di cordoglio col quale la scienza accompagnò e sigillò la vita scientifica del giovane studioso; ma, il libro che dovea dire all’Italia qual tempra di pensatore ella ebbe e perdette in Gabriele Buccola non fu più composto. Molti manoscritti rimangono di lui inediti ancora, che il Morselli ci aveva pur promesso una volta di pubblicare; e rimangono anche manoscritti di critica letteraria e filosofica che, pubblicati, varrebbero forse a illuminare più addentro, a maggiormente integrare la figura del nobile pensatore.

Questo libro che dica ai giovani l’intima ed estesa vita mentale di un giovine pieno di tutte le grandi e battagliere idealità del secolo scorso (che son pure, nella loro essenza, quelle della vera modernità di oggi e di domani); il libro che dica agli italiani l’anima e il pensiero di un giovane, la cui breve vita potè realizzare il sogno di molte lunghe vite – se pure spezzata nel pieno fiorire di più grandi e sicure promesse – lo scriverà mai qualcuno?

Il Guyau, se ricordate, moriva a trentatrè anni. Ma, il giovine e dolce filosofo idealista, l’estetica amabile, ricco di comunicativa simpatia, e tuttavia egualmente ricco di inopportuno e, non di rado, inconsistente lirismo; il sociologo romantico se pure, in talune pagine, acuto e geniale; lo scrittore generoso pur nella fatuità di molta parte della sua opera filosofico-lirico-letteraria: potè trovare un vecchio – Alfredo Fouillèe – illustre per abbondante opera filosofica e sociologica, il quale, curando la pubblicazione postuma degli ultimi scritti di lui, ne riassumeva e patrocinava in bello elogio l’opera compiuta e ormai anche sorpassata!

È forse propizia l’ora per un qualche rimemoratore vecchio o giovane, il quale sia capace di intendere e divinare tutto lo spirito dell’opera non compiuta, ma tuttavia organica e monolitica, di Gabriele Buccola; tutto il pensiero dello scienziato francamente antispiritualista, del franco dispregiatore di ciò che egli diceva “negromanzia filosofica”; del franco nemico della psicologia astratta e metempirica “vuota, infeconda che si è smarrita nelle ricerche fantastiche di problemi inutili non solo, ma insolubili, senza fondar nulla di concreto e di effettivo”; del caustico irrisore (pochi amici ricordano i suoi scritti su L’Atomo battagliero periodico materialista da lui e da altri giovani pubblicato nel 1877 o ’78) del caustico irrisore, dicevo, di ogni concezione assurda e reazionaria, di ogni morbosità, di ogni trascendenza speculativa della vecchia metafisica?

Ahimè! la figura di pensatore del Buccola avrebbe oggi contro di sé il disprezzo, il disgusto, l’orripilazione di tutte le semoventi e sevolanti anime tanto gradite in curia; di tutte le giovani vecchiaie.

Mai, come oggi, o Gabriele, fu tanto viva dinanzi a me la definizione del buon canonico, tuo e mio professore di filosofia: Il pensiero è un che tra il pensante e la cosa pensata. Come chi dicesse, ad esempio, che il vino è un che tra il fiasco e l’acqua tinta. In troppi cervelli è assente e il pensiero e la …cosa pensata; e, tuttavia, non manca il …pensatore! Ciò mi fa anche ricordare il curioso paragone di Schopenhauer, delle cose di questo mondo e delle nocciole vuote. Tu hai la nocciola, ma raro avviene che tu vi trovi dentro il frutto saporito. Questo bisognerà cercarlo altrove; e ti potrai dir fortunato se, per caso, ti riesce di incontrarlo in qualche luogo!

                                                             Francesco Paresce

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