77 – Documento 2.53 della bibliografia buccoliana

Credo di far cosa utile trascrivendo questo necrologio di Buccola apparso nella dimenticata e dispersa rivista (vedi G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, p. 160 e sgg.) di cui riproduco il frontespizio.

 

Poiché siamo ridotti a tale che per dire le lodi di un forte intelletto bisogna aspettare che la morte lo spezzi, consentano a me i lettori del “Momento” che profferisca brevemente l’elogio del più elegante ingegno di scienziato fiorito in questi ultimi anni.

Io non ebbi consuetudine col Buccola – un po’ più attempato di età; altre cure, altri ideali proseguiva Gabriele. Però, dalla simpatia delle idee scientifiche, s’era determinata fra noi una corrente calda di affetto. Che vuoto ci si fece intorno, alla tua dipartita, dolcissimo collega! Quando si perde un giovine amico, un compagno di studi, di aspirazioni, una parte di noi ci pare che vada sotterra con lui… la giovinezza nostra appassisce, la bontà e la modestia scompaiono… Tu eri buono e mite, Gabriele! Non io mi scorderò mai della nube perenne di mestizia che ti velava il volto, né del sorriso melanconico, come un raggio della tua anima gentile, così aliena dal chiasso della folla, e dalle trombe e dai tamburi delle cricche. O ridirle alla folla le lotte intime durate al rivelarsi affannoso del determinismo scientifico, o ridirglieli gli strazi sofferti quando, lembo a lembo, le illusioni della fatata adolescenza andavano via, o ridirgliele le angosce supreme onde si perviene all’ardua fede del non credere nulla! Ma voi non potete giudicare, o folla di gaudenti e d’indifferenti delle lotte di un’anima che sente, che ama, che spera! Ma voi, cui l’ala del dubio non turbò mai i pacifici sogni, voi cui non agitò mai il desiderio inquieto di appurare l’ananke delle cose, paghi di sapere soltanto che in cielo c’è il buon Dio premiatore de’ buoni, castigatore dei perversi, e che in terra l’hanno risolto i babbi vostri il grave problema dello stomaco – non voi riuscirete a comprendere quanto costi il romperla decisamente coi pregiudizi, colle tradizioni, quando la verità, o ciò che crediamo la verità, ci urge d’intorno, tormentatrice del pensiero! Non basta adagiarsi nella fede dei padri per aver diritto a profferirsi credenti; non così credeva Agostino, non Gerolamo, non Alessandro Manzoni. L’uomo moderno, nella distruzione che ha compiuta, dagl’ideali che ha fatto dissolvere, deriva quella vaga nube di melanconia che a te velava il viso, Gabriele. Perocchè tu eri buono e gentile, era in te l’anima di una fanciulla schiva e modesta. E mancate le credenze infantili, crebbe viva nel tuo seno la fede nella scienza. – A lei ti dedicasti con tutto il fervido, entusiastico abbandono dei tuoi vent’anni.

A contemplarti così pienamente assorbito da lei, spontaneo surgeva lo strano sospetto non forse tu fossi uno di quegli antichi asceti rapiti e incesi dell’amore divino, trasvolato come per castigo, nel secolo della vaporiera e dell’elettrico. Se non che a Maria tu sostituivi la Scienza, che infinitamente amavi, la Scienza che t’ebbe sacerdote purissimo e casto, la Scienza che sì di buon ora iniziavati nei più astrusi misteri suoi, quasi a compensarti del sagrificio intero della bella giovinezza che avevi voluto farlo – quasi a farti pregustare nell’accaneggiar basso e vigliacco dell’invidia maligna i frutti del sapere coscienzioso e profondo. Onde non parola nei tuoi discorsi – ed erano brevi e poco frequenti – che accennasse di lontano alla donna – eterno tema dei giovini – non frizzi e motti sboccati o almen faceti come si usa nelle conversazioni, a quell’età. Giuseppe Mazzini, triste per la servitù della patria, fisso in un pensiero magnanimo, trascorreva solitario e mesto le aule gioconde dell’archiginnasio genovese; ed il Buccola – ancor lui posseduto da un pensiero ch’era gioia ed affanno dell’età sua verde – passava muto e triste tra le allegre compagnie: entrambi asceti, un altissimo ideale entrambi possedeva.

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Non altrimenti si spiega come il Buccola, fresco ancor d’anni, docente all’Università di Torino, redattore dell’ottima Rivista di Filosofia Scientifica, diretta dal Morselli, autore di circa trenta memorie originali, avesse potuto compiere, oltre ad un pregevole lavoro sulla Dottrina dell’eredità, l’opera magistrale, edita dal Dumolard per la “Biblioteca Scientifica Internazionale”, La legge del tempo nei fenomeni del pensiero. – Ad altro tempo e per ben altro ingegno l’analisi accurata dei meriti scientifici di Gabriele Buccola non lo consente adesso l’emozione grande e l’imperizia di chi scrive; basti questo, intanto, che nessuno prima di lui, a soli trent’anni s’era visto concordemente acclamato dalle illustrazioni dell’Italia e d’Europa, speranza grandissima della psichiatria. Da Morselli – che l’ebbe più che discepolo compagno di studi, anzi figlio nel gabinetto di Torino – a Lombroso, a Tamassia, a Tamburini, a Barzellotti, a Ferri, ad Ardigò; e da Tyndall a Spencer allo Haeckel, unanime il coro di lodi al valoroso conterraneo nostro. Nei cui libri non sapresti se più ammirare la facile e chiara eleganza del dettato – onde più che raro apparve unico esempio tra gli scienziati contemporanei – o la copia abbondante e scelta della dottrina.

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Addio, Gabriele, a nome degli amici che ti vollero bene e non poterono accompagnarti al luogo del riposo senza fine! Addio a nome dei colleghi del “Momento” de’ compagni che ti amavano, stimandoti, de’ concittadini, della famiglia ond’eri orgoglioso.

Di te serberemo eterno il ricordo. – Tu non morrai nel cuore di tutti noi, come non morrai nella storia della scienza. Nello svanire di tanti ideali, nello squallore che avanza ogni giorno, sconfortante, o non ci manchi almeno la religione gentile delle memorie.

Verremo a primavera sul tumulo recente e parleranno i semprevivi per noi – diranno del nostro chiuso dolore, del nostro immenso sconforto.

Per la Direzione

G. Pipitone-Federico

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