3 - L’acumetria

           

 

Quella disciplina che fino a 90 anni fa si chiamava acumetria oggi si chiama audiometria (o audiologia). Ma il progresso è stato tale che si tratta di una scienza del tutto nuova che ha relegato nel dimenticatoio la sua antenata, come si verifica su Google: su 57 uscite di “acumetria” ve ne sono 14.600 di “audiologia”!

L’armamentario tecnico di una volta (orologi campioni, diapason, martelletti, voce afona, pendoli sonori, acumetri, audifoni, dentafoni, ecc.) è stato fagocitato da sorgenti sonore e misuratori (fonometri) elettrici, elettronici e computerizzati. Le “scale acumetriche”, apparentemente troppo soggettive, sono state sostituite da più asettici parametri matematici (audiogrammi, decibel, filtri, trasformate di Fourier, ecc.) apparentemente più obiettivi o scientifici. Col risultato, io credo, di trasformare i medici (otorino e simili) in ingegneri e far qualche volta perder loro di vista certi fenomeni o aspetti, magari elementari, dell’udito.

Libero da obblighi professionali e, soprattutto, “sgombro” dei fardelli di cui sopra io mi sono accostato a questa scienza da fisico, da “esterno”, da curioso, da dilettante e ho divorato, con grande interesse, per esempio, la “Guida pratica di acumetria clinica” di Gradenigo e Stefanini (Como, 1934, da cui sono tratti i disegni di apertura) o diversi vecchi articoli dell’Archivio Italiano di Otologia, Rinologia e Laringologia.

Mi sono così ricordato di quella “prova acumetrica” con l’orologio di mio nonno (accostato all’orecchio o “auscultato” con un manico di scopa a guisa di stetoscopio…) che da ragazzino mi piaceva tanto, oppure delle prove con la voce bisbigliata cui fui sottoposto quando feci l’esame per la patente automobilistica (mi pare, presso l’ufficio psicofisiologico delle ferrovie, a Palermo), o le visite specialistiche di mio padre che soffriva di vertigini ed era un po’ sordo. E poi: la trasmissione molare o molecolare, l’audizione per via ossea, la scala ototipica, le simulazioni di sordità, l’incoordinazione tra i movimenti del torace e quelli del diaframma, il fatto che l’orecchio non sente, ma “indovina” la vocale… e naturalmente molto altro.

Da fisico, in particolare, mi intrigavano i diapason, strumenti mai visti, né studiati né tanto meno adoperati nella mia lunga carriera. In genere nei libri si accenna alla loro stabilità in frequenza, alla purezza e al rinforzo del suono con la cassetta di risonanza. È molto meno noto (almeno nel mio caso), per esempio, che la cassa di risonanza abbrevia anche (smorza) il suono; che il modo di battere i rebbi è essenziale; che lo spettro “acustico” prodotto non è affatto uniforme (vedi disegno a destra); che l’unico sistema di avere suoni relativamente calibrati (e proporzionali a un certo peso P) è tagliare lo spago del disegno (a sinistra); che il modo in cui il piede del diapason è stretto alla morsa influisce anch’esso sui parametri acustici, ecc.

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