Un inedito di Mario Lucidi

 

(...) (ascoltare l’introduzione dalla voce di Lucidi)

 

Data, ad esempio, la semplice frase

Vera  spera

le realizzazioni estremamente variabili che la sua genericità ci consente di attribuirle sono tutte contrassegnate da una caratteristica costante: la diversa intonazione delle due parole, cioè il diverso atteggiamento prosodico (come di qui in avanti diremo) dei due iposemi. E la diversità è solo in minima parte imputabile al fatto che il secondo elemento è in posizione di pausa. Se infatti eliminiamo in un modo qualunque questa condizione - integrando, poniamo, con ...sempre in qualcosa di nuovo -, le differenze, com'è facile osservare, lungi dall'annullarsi, caso mai si esasperano. L'altro fattore cui potrebbe venir fatto di attribuire il fenomeno, cioè la non coincidenza della porzione consonantica iniziale, non interviene che in maniera del tutto secondaria; per convincersene al di la di ogni dubbio - dato che proprio la sopravvalutazione delle influenze dell'ambiente fonetico costituisce uno dei maggiori ostacoli all'apprezzamento dei fatti prosodici - ci sia lecito un piccolo espediente.

Profittando del fatto che i nomi propri di persona, con il loro corteggio di soprannomi e vezzeggiativi, costituiscono nell'ambito del patrimonio linguistico una classe praticamente aperta, costruiamo per un momento un denominativo femminile Spera (che potremo immaginare o nomignolo o deformazione abnorme di Esperia) e sostituiamolo nella nostra frase a Vera; oppure, più semplicemente, partendo dalla frase Rossi spera, sostituiamo al cognome Rossi l'altro, anch'esso realmente esistente, Spera. Nell'un caso e nell'altro, nonostante la perfetta omofonematicità delle due forme, le loro intonazioni continuano a divergere nettamente.  Si tratta palesemente di una divergenza da porre in connessione diretta col cardine stesso della struttura sematica, il rapporto nome/verbo; essa ne costituisce anzi un indice così congeniale che solo a patto di ridurre la frase ad una sequenza disarticolata di iposemi potremmo eliminarla. 

Come si sarà potuto notare, e com'è del resto ben comprensibile, le differenze di intonazione si colgono sopratutto nella vocale della sillaba accentata; è in realtà su tale sillaba (la chiameremo perciò luogo prosodico) che si concentra l'atteggiamento prosodico dell'iposema; le altre assumono di norma - (...) - atteggiamenti secondari in automatica relazione con quello del luogo prosodico, ciascuno secondo modalità particolari connesse con la posizione della rispettiva sillaba nei confronti di quella accentata; e i rilievi prosodici che di qui in avanti faremo dovranno intendersi riferiti, salvo esplicito avvertimento del contrario, unicamente alla sillaba tonica, particolarmente alla vocale (dei limiti più ristretti entro i quali la porzione consonantica che la precede è cointeressata al fenomeno prosodico, accenneremo tra poco).

Si osservino ora i due diversi atteggiamenti con cui lo stesso iposema torna al principio e alla fine della frase

I fratelli hanno ucciso i fratelli

(per condur bene l'osservazione sarà opportuno ripetere la frase di per sé, liberandola dal tono particolare che le si è venuti dando per averla letta inserita nel periodo che la introduce); sono essi che, in concomitanza con l'ordine delle parole, discriminano la funzione soggettiva da quella oggettiva, e la preminenza funzionale della discriminazione prosodica nei confronti di quella tattica è comprovata incontrovertibilmente dal fatto che la seconda, non la prima è eliminabile; il complemento oggetto può ben essere situato in seconda sede (i fratelli i fratelli hanno ucciso); a garantire la perspicuità del suo ruolo funzionale nei confronti del soggetto rimane intatta (anzi, come si osserverà e, per ragioni che vedremo fra poco, resa ancor più sensibile) la differenza prosodica; la quale non è in nessun modo imputabile a fattori estrinseci, quale ad esempio il rapporto di precedente e seguente che intercorre tra i due elementi, come prova l'atteggiamento perfettamente identico che essi sono suscettibili di assumere se identica è la funzione (se cioè il secondo rappresenta una ripetizione del soggetto e l'oggetto segue normalmente il verbo: i fratelli, i fratelli hanno ucciso i fratelli). Nè si tratta di una differenza comunque realizzata pur di sottolineare, in qualche modo, la diversità di funzione, ma di una relazione precisa che contrappone i due termini assegnando a ciascuno il ruolo specifico che gli compete; e in realtà, se nella seconda (i fratelli i fratelli hanno ucciso), anziché assumere il primo iposema come soggetto e il secondo come oggetto, invertiamo l'attribuzione funzionale, si invertono puntualmente anche i due atteggiamenti prosodici; e se in quella ampliata (i fratelli, i fratelli hanno ucciso i fratelli) il secondo nome è inteso non come ripresa del soggetto, ma come anticipazione dell'oggetto, con quest'ultimo esso concorda prosodicamente, e non più con l'iposema che lo precede.

A guidarci nel corso dei tentativi attraverso i quali vien fatto - tanto è almeno avvenuto a me e a quanti ho interessato all'esperimento; e la cosa è in ovvia connessione con la non familiarità dei costrutti prodotti - di giungere alla realizzazione della struttura sematica voluta, a permetterci cioè di individuare questa tra tutte quelle che la precedono come l'unica che risulti in effettiva aderenza con la nostra particolare intenzione di esprimere, è evidentemente l'identificarsi nella coscienza linguistica di quel determinato atteggiamento semantico come funzione di quella determinata forma, esistenza cioè di una apposita entità del sistema; perché, si sa, appunto questo sono le entità linguistiche: funzioni formalmente individuate in sistema. A questa individuazione la prosodia concorre come ingrediente essenziale e costante; anche quando interviene la discriminazione morfologica più netta ed univoca, quella prosodica le si affianca insopprimibile.

Di ciò ci si può rendere immediato conto considerando una frase qualunque nella quale uno stesso iposema compaia in due diverse integrazioni complementari; poniamo:

Rispondere alla violenza con la violenza è una condotta sconsigliata;

oppure:

Coi furbi bisogna usare le armi dei furbi.

Non è chi non noti la profonda diversità dei due atteggiamenti prosodici sia di violenza, sia di furbi; ed è anche facile constatare l'assoluta impossibilità di dare alle due frasi una realizzazione accettabile nella quale la diversità venga meno. Una analoga interessante esperienza si può fare attraverso due semi uguali e pressoché in un morfema; consideriamo ad esempio le due frasi:

Stavo scrivendo una lettera a Renato;

Stavo scrivendo una lettera con Renato.

Se le si realizza dando in entrambi a lettera la stessa prosodia (onde avere un punto di riferimento che renda possibile il confronto) si osserverà che l'iposema finale assume col mutare della preposizione atteggiamenti prosodici nettamente diversi. Sono peraltro anche attuabili realizzazioni in cui la prosodia di tale iposema coincida; e ciò in una intenzione di esprimere imperniata su di esso, circostanza che si verifica, ad esempio, se il sema vuole essere una spiegazione giustificativa e Renato indica persona nei confronti della quale preme (e l'ascoltatore sa che preme) si faccia ciò che si dice di star facendo. In questo caso a divergere, come l'orecchio avverte viamente, è il profilo prosodico dell'intera porzione sematica che precede.

Questa permutabilità di reazioni ha la sua ovvia ragion d'essere nel fatto che le entità prosodiche, come ogni e altra entità linguistica, non sono assolute ma relazionali, sicché non in un termine di per sé, ma nel reciproco comportamento dei termini se ne coglie il funzionamento. Quando alla discriminazione prosodica si accompagni anche quella morfologica, la preponderante consistenza di questa (nonché la nostra abitudine di considerare il dato grammaticale come l'esclusivo indice effettivamente controllabile delle relazioni che intercorrono tra gli iposemi) fa sì che ci sembri costituire essa da sola l'elemento necessario e sufficiente a discriminare la relativa funzione. Del decisivo contributo, peraltro, che anche in questa circostanza la prosodia arreca all'individuazione nella nostra coscienza linguistica degli atteggiamenti del sistema, possono darci un'idea quei casi particolari in cui la discriminazione morfologica non è insopprimibile.

Così, ad esempio, consideriamo le due frasi:

Molti infelici vivono la loro vita sotto l'incubo della miseria;

Molti infelici vivono per tutta la vita sotto l'incubo della miseria.

Se, dopo aver detta la seconda tal qual'è, la ripetiamo sopprimendo l'indice morfologico costituito dalla preposizione per, noi continuiamo ad avvertire che l'espressione tutta la vita rappresenta un complemento di tempo continuato (e non un complemento oggetto, come si suol dire, interno, quale ci si presenta la locuzione la loro vita) attraverso la superstite discriminazione prosodica. A rendere ancor più vivamente apprezzabile la sua capacità individuativa, soccorre utilmente il confronto diretto nella frase:

Molti infelici vivono tutta la loro vita sotto l'incubo della miseria,

nella quale sono attuabili entrambe le integrazioni complementari. Ad ogni effettiva realizzazione - si prescinde qui dalla lettura, di cui ci occuperemo diffusamente tra poco - noi non possiamo che aderire all'una o all'altra di esse; e ciò appunto perché ciascuna adesione si manifesta in una sua particolare determinata forma; forma prosodica della cui precisa individualità si può avere vivo sentore rilevando attentamente, dal confronto diretto delle due attenzioni, come ciascuna di esse comporti una impostazione tutta sua propria sin dall'inizio della realizzazione della frase. E' attraverso questa individualità che il particolare dato della nostra coscienza linguistica trova la sua estrinsecazione e l'intendere dell'ascoltatore coincide con la nostra intenzione di esprimere.

Ogni entità prosodica ha una sua precisa funzione semantica, la quale, dall'eventuale concomitare di una discriminazione morfologica, non la codificabilità repete, ma semplicemente il diritto di venir codificata in una tradizione grammaticale come la nostra, al tutto disinteressata alla prosodia. Ciò trapela chiaramente se osserviamo quanto influisca sul nostro apprezzamento delle discriminazioni prosodiche (...).

Data, ad esempio, la frase

Si avvicinava saltando

noi la pronunciamo con tono profondamente diverso, secondo che col gerundio vogliamo alludere ad una modalità dell'avvicinarsi esprimente, poniamo, gioia, oppure un particolare tipo di movimento strumentalmente considerato nei confronti di quell'avanzarsi (riferendoci ad esempio al procedere di chi, per una qualche ragione, non vuole o non può toccare il suolo che il minimo necessario).

Altrettanto spiccatamente diverso è il tono con cui si realizza la frase:

È  morto

secondo che essa rappresenta un ragguaglio fatto ad altri sulla sorte di qualcuno, oppure un rilievo, il riconoscimento cioè, attraverso il più attento esame dello stato di fatto, di una realtà che un primo contatto con le circostanze (la vista di un corpo inerte) può sì lasciar supporre, ma non implica necessariamente. Così pure la frase:

Non c'è nessuno

se è data in valore assoluto (il caso ad esempio in cui a mezzo di essa una persona di servizio informa un visitatore dell'assenza dei padroni di casa) ha tutt'altra prosodia da quella che le compete nel caso che la si realizzi per fare la relativa notifica nei confronti di un determinato luogo (poniamo una stanza chiusa nella quale qualcuno esiti ad entrare nel timore di essere indiscreto). E che si tratti di differenze sistematiche prova di nuovo non solo il nostro sentore di parlanti - contro il quale si potrebbe tuttavia far valere la presunzione, non peraltro facilmente giustificabile, di una intenzione di esprimere che sussista nel soggetto senza trovare una manifestazione formale - ma, incontrovertibilmente, la capacità di rilevare funzionalmente tali differenze anche all'ascolto, cioè con soggetti non partecipi della relativa intenzione di esprimere.

Per vedere una riserva al proposito, e questa volta di reale consistenza, si potrebbe rilevare, anche nei confronti di un ascoltatore, (...) nel dire del commercio linguistico; si tratta dei suggerimenti che gli vengono dalla cornice. Con cornice intendiamo tutto quel complesso di circostanze estralinguistiche che integrano il significare del sema; essa in una attività linguistica praticamente impegnata assume una importanza veramente grande quale comoda coadiutrice dell'intendere, come avremo occasione di veder meglio parlando dello scadimento in stile e simili delle entità linguistiche in genere e di quelle prosodiche in particolare; ma non costituisce un elemento linguisticamente necessario (nel documento artistico e in quello scientifico, cioè nelle manifestazioni più eccelse dell'esprimere e dell'intendere, il suo intervento è nullo) e, quel che ci interessa, l'eliminarla non compromette la capacità di rilevare funzionalmente all'ascolto le differenze prosodiche di cui si sta ragionando. E infatti il rilievo rimane univoco anche se la frase viene percepita isolata da ogni contesto e da ogni circostanza reale; il che si può facilmente sperimentare attraverso la registrazione.

A proposito di questo mezzo di controllo in genere è però necessaria una avvertenza: per avere a disposizione materiali di indagine in condizioni ideali, si dovrebbe materialmente poter estrarre le porzioni da esaminare, ed eventualmente da raffrontare, da complessi di atti di parola spontanei - perchè ogni sollecitazione falserebbe il naturale fluire dell'esprimere - e debitamente registrati (in ordine sopratutto all'opportunità che il parlante  non solo non sia a  conoscenza dello  scopo della registrazione, conoscenza che comprometterebbe certamente la sua spontaneità, ma anche possibilmente ignori che ciò che egli dice si registra, o per lo meno sia in condizioni di non tenerne conto, potendo anche il venir meno di questa circostanza influire notevolmente sui normali fattori dell'esprimere). Ma avere a disposizione una simile fonte di materiale è oggi (1961, n.d.c.) praticamente impossibile, non rimane quindi che riprodurre noi stessi il materiale voluto (e nel nostro caso sottoporlo all'ascolto di altri). Ciò, come ben si comprende, non presenta alcuna difficoltà di principio; solo, è assolutamente necessario che nell'eseguire l'operazione si aderisca ad una dizione riflessa di effettiva responsabilità linguistica; e quanto noi si sia dissueti da una simile dizione, non appena l'esprimere esce dalla spontaneità incontrollata, avremo occasione di mettere in luce tra non molto.

Per farcene una prima idea basti qui un solo esempio che mi richiamano alla mente le discriminazioni gerundiali (?) da cui abbiamo preso le mosse: il nostro

Sbagliando si impara,

realizzato con la prosodia che siamo soliti attribuirgli, non traduce il latino Errando discitur. Per convincersene basta far bene attenzione alle forme latine e tradurre in costruzione diretta, facendo cioè seguire il gerundio (Si impara sbagliando); eseguire poi l'inversione e confrontare col tono che soliamo attribuire al nostro adagio.

Tornando alle nostre frasi, solo nella prima (Si avvicinava saltando) (...) alle funzioni semantiche dei due atteggiamenti prosodici siamo in grado di dare una adeguata interpretazione grammaticale (gerundio modale e gerundio strumentale), trascendendo le indicazioni meramente contenutistiche di cui ci dobbiamo accontentare per le altre due; peraltro in tutte e tre la rispondenza tra differenze formali (prosodicamente espresse) e differenze funzionali è obiettivamente rilevabile, esiste cioè la condizione necessaria e sufficiente alla presunzione di discriminazioni linguisticamente sistematiche e quindi funzionalmente codificabili. 

La differenza che indubbiamente intercorre tra discriminazioni morfologiche e discriminazioni prosodiche - è nel diverso distribuirsi delle funzioni (?) fra le due categorie, uno dei caratteri fondamentali che distinguono i vari domini linguistici - è in connessione con la maggiore autonomia formale conferita alle prime dalla loro consistenza di entità fonematicamente individuate, la quale le rende più trasparenti all'apprezzamento estrasematico; differenza estrinseca in un ambito specificamente funzionale come quello dei fattori dell'esprimere linguistico. E le insufficienze che i nostri sistemi grammaticali denunciano non appena si viene a contatto con l'effettiva realtà della lingua, dipendono appunto dalla unilateralità dei rilievi in base ai quali sono stati costruiti. La nostra coscienza linguistica è al corrente di questa situazione: "Ma si capisce dal tono" ci viene spontaneo rispondere quando qualcuno, in base a considerazioni morfologiche, contesta l'individuabilità di un certo atteggiamento semantico; se il tono fosse un fatto puramente individuale, l'osservazione non avrebbe senso (sulla possibile obiezione di una validità derivante da fattori naturali di indole estralinguistica torneremo tra non molto).

Tutti quei casi in cui le discriminazioni morfologiche si presentano così oscillanti da trascendere anche la genericità dei nostri consueti rilievi grammaticali, hanno la loro ragion d'essere nel fatto che tali discriminazioni si riferiscono ad un settore funzionale in cui la relativa lingua ricorre prevalentemente ad individuazioni di esclusiva natura prosodica. E' quel che avviene in italiano, come avremo occasione di vedere in seguito, per l'uso o l'ellissi dei pronomi personali in funzione di soggetti, oppure per la scelta tra le due preposizioni tra e fra. Anche per la discriminazione delle classi nominali, per la quale, come si sa, molte lingue dispongono di complessi schemi morfologici, l'italiano mostra (e si prescinde dal caso, del resto assai particolare, del genere) una sensibilità quasi nulla dal punto di vista grammaticale, ma non da quello prosodico: consideriamo ad esempio i due nomi bambino e cavallo: che il sentore contenutisticamente (...) della loro appartenenza a due diverse classi trovi una eco anche nell'ambito della nostra coscienza linguistica, prova il fatto che nel tornare, nel corso dell'esposizione, a riferirci ad essi noi usiamo due pronomi distinti, egli ed esso, ma la morfologia non presenta altri elementi che ne caratterizzino la presenza nell'ambito sintagmatico più ristretto della sfera preposizionale in cui funzionano; è invece la prosodia a segnalare costantemente la discriminazione. Nelle due frasi

Allora il bambino si impaurì e si mise a correre

Allora il cavallo si impaurì e si mise a correre

invano si proverebbe a conferire al verbo si impaurì una identica intonazione (intonazione che in questo caso va rilevata non solo sull'ultima sillaba tonica ma anche, per ragioni che vedremo in seguito, sulla prima), e ciò appunto perché culmina in esso l'identità di profilo prosodico comportata alle due frasi dalla presenza di soggetti di classe differente. Ed è anche facile convincersi che questa divergenza non dipende da cause estraprosodiche, e cioè dalla diversa consistenza fonematica di bambino e cavallo; e infatti, se nella seconda frase a cavallo sostituiamo, ad esempio, asino nulla impedisce che il verbo continui a mantenere lo stesso atteggiamento prosodico. Tenendo presente che due frasi come quelle addotte dovrebbero, nel reale esprimere, essere precedute da contesti al tutto diversi, potrebbe venir fatto di pensare che le differenze prosodiche non siano intrinseche al loro tessuto lessimorfologico, ma derivino ad esse da condizioni imposte dalla diversa cornice linguistica. Si può però agevolmente provare il contrario. 

Poniamo che nel corso di una narrazione si abbia:

Entrai nel cortile e mi guardai intorno: in un angolo un asino rosicchiava qualcosa;

oppure:

Entrai nel cortile e mi guardai intorno: in un angolo un bambino rosicchiava qualcosa

Nulla qui esiste prima della locuzione in un angolo che ponga condizioni contestuali divergenti, eppure la differenza prosodica (rilevabile anche qui particolarmente nel verbo e non (?) solo, limitatamente alla sillaba tonica) rimane intatta.

Va anche osservato, a proposito delle considerazioni basate sulla relazionabilità iposematica (del tipo il cavallo nitrisce, il bambino balbetta e non viceversa) con le quali sarebbe così allettante contribuire alla individuazione di tali classi, che è di nuovo il venir meno delle valutazioni prosodiche a relegarle entro i confini di uno sterile contenutismo logico incompetente alla selezione di effettivi problemi linguistici. E' infatti incontrovertibilmente fondata l'obiezione che, per qualunque relazione iposematica per quanto abnorme, possono darsi casi in cui circostanze eccezionali ne rendano effettivo il funzionamento, casi che solo una limitazione arbitraria può ovviamente autorizzare a mettere da parte. Ma è altrettanto vero che la prosodia individua univocamente queste manifestazioni abnormi; si osservi il profondo inconciliabile divario tra l'atteggiamento prosodico che caratterizza la frase 

Il passero vola

detta (poniamo a fini didattici oppure in sede riflessiva, allo scopo cioè di esaminare la natura del giudizio che si sta formulando) con intenti predicativi nei confronti del relativo volatile, da quello che dobbiamo postulare verrebbe ad assumere l'altra

L'asino vola

sulla bocca di chi, convinto per un gioco eccezionale delle circostanze - l'opera, ad esempio, di un illusionista di cui egli ignorasse la presenza e l'intervento - di assistere al reale verificarsi del fatto relativo, si affrettasse a notificarlo ad altri che, pur presente, ma intendendo ad altro, non lo avesse rilevato. A determinare il divario interviene solo in parte la diversa impostazione che conferiscono all'esprimere il carattere enunciativo ed impressivo della seconda e il valore semplicemente enunciativo della prima. E infatti, se immaginiamo anche quest'ultima realizzata per far rilevare ad altri l'inatteso verificarsi del relativo fatto (trattandosi, ad esempio, di un uccellino che, lasciato in un angolo con le ali malconce,  si supponeva non sarebbe stato  in grado di volare), si constata con facilità che i due atteggiamenti prosodici, anche se meno dissimili, continuano a divergere nettamente; e, risultando ormai praticamente alla pari le altre condizioni, tale divergenza formale interpreta unicamente il fatto che a rendere inatteso l'evento è da una parte (Il passero vola) una qualunque circostanza contingente, dall'altra invece quel qualcosa appunto in base al quale noi avvertiamo come abnorme un costrutto del tipo L'asino vola (della prosodia che esso viene ad assumere in un uso come quello che or ora ne abbiamo fatto parleremo tra breve).

Anche per quel che concerne le varie accezioni di una medesima parola, il diverso tipo di relazionabilità iposematica che caratterizza ciascuna di esse non è l'unico elemento discriminatorio; la prosodia porta un diretto costante contributo. Ed è estremamente agevole rendersene conto: si consideri una qualunque parola passibile di due accezioni nettamente distinte (poniamo intelligenza nel significato corrente e in quello più particolare che spontaneamente suggerisce il costrutto intelligenza del testo,  oppure la terza persona singolare avanza nel senso di rimane e in quello di precede, ecc.) e la si dica poi, autoascoltandosi attentamente, una prima volta pensando di attribuirle uno dei significati prescelti, una seconda spostando l'attenzione sull'altro. Si avvertirà infallantemente che la prosodia delle due realizzazioni non coincide (esperienze del genere costituiscono un utilissimo esercizio per abituare l'orecchio al rilievo prosodico).

È peraltro possibile una ulteriore osservazione che sembra in contrasto con questa: fissando bene l'attenzione sull'atteggiamento prosodico che la parola ha assunto nei confronti del secondo significato, si riesce in generale a riprodurlo senza difficoltà anche se si torna, in una terza realizzazione, a riferirsi al primo; la parola è cioè suscettibile di assumere, anche nei riguardi di quest'ultimo, proprio quella prosodia in virtù della quale l'altro si era in un primo momento contrapposto ad esso. In realtà ciò non infirma l'univocità della individuazione prosodica; rappresenta semplicemente un sintomo della innaturale sede estrasematica in cui si sta operando, sintomo fatto affiorare dalla irriducibile relazionalità di questo particolare mezzo di discriminazione. Nel primo caso, fissatici sul contrasto paradigmatico fra le due accezioni, noi le rileviamo automaticamente attraverso due atteggiamenti prosodici particolari che rappresentano ciascuno una specie di media probabilistica (si veda ciò che si dirà, quasi subito appresso, sul sema astratto) desunta dall'ambito di variabilità proprio alla relativa sfera sintagmatica; sicché, una volta spezzata l'attenzione sul secondo, assunto ormai nella sua semplice consistenza materiale di significante, noi non facciamo altro che postulare, per la prima accezione, una relazione sintagmatica tale da comportare, per il termine che stiamo considerando, una prosodia coincidente in valore assoluto con quella del modello; relazione che, per poter provocare la coincidenza estrinseca con il valore mediale corrispondente all'altra accezione, dovrà naturalmente costituire un caso tutto particolare, con la sua cioè stato (?) in grado di pesare app(r)ezzabilmente sulla precedente attrazione.

E che ciò avvenga possiamo facilmente sincerarci: considerata una frase qualunque in cui intelligenza funzioni nel significato corrente (poniamo: È questione di intelligenza) proviamo a realizzarla in modo da far assumere all'iposema la prosodia che nel confronto diretto fra le due accezioni ci è risultato caratterizzare la seconda (Intelligenza del testo); la cosa è possibile solo a patto che alla frase - e, se il costrutto è in complesso condizionato e quindi esposto ad una meno vasta gamma di variabilità, spesso non basta neanche questa condizione - si conferisca un tono di non comune spiccatissima espressività, si proceda cioè ad una realizzazione praticamente eccezionale. La sede estrasematica in cui abbiamo operato potrebbe far sospettare che le rilevate divergenze prosodiche rappresentino, nei confronti del reale spontaneo esprimere, un fenomeno di origine secondaria, una specie di mezzo suppletivo con il quale estrinsechiamo la nostra coscienza riflessa della relativa discriminazione; è invece esattamente vero il contrario: la normale incontrollata attività linguistica conferisce ad ogni effettiva discriminazione lessicale la sua individua caratteristica prosodica, indipendentemente dal fatto che la corrispondente discriminazione concettuale sia presente o no alla nostra coscienza riflessa.

Un esempio di singolare evidenza si ebbe a proposito di una questione che ci interessa particolarmente da vicino. Le considerazioni (esposte altrove: Cultura neolatina - X (1950) pag. 185 e seg.) in base alle quali non segni, ma iposemi vengono qui chiamate le parole, riservando il termine segno (e sema, con una distinzione che opereremo in seguito) alla sola frase in sé conchiusa, sono in breve queste: come si è già avvertito sin dal primo momento in cui si è proceduto alla identificazione della singola parola come "segno", tale identificazione compete anche alla frase, essa (?) basta ad infirmarla alla radice; non è infatti chi non veda come parola e frase si situino su due piani essenzialmente diversi, il primo in netta (...) nei confronti del secondo (le espressioni olofrastiche del tipo grazie, si, ecc. repetono la loro eccezionalità appunto dal fatto che, suscettibili della sola analizzabilità fonematica come parole, hanno però un funzionamento che le pone allo stesso rango delle frasi) proprio nei confronti della funzione significativa, della caratteristica cioè specifica alla classe che segno nella sua primordiale intensività determina; e, d'altro canto, siccome non trattandosi di entità già di per sé definite - in questo caso l'equivoco rimarrebbe soltanto estrinseco -, la denominazione assume una portata classificatrice decisiva costituendo un vero orientamento definitorio, è tale orientamento che per una delle due categorie deve rimanere basilarmente falsato; ed è evidente per quale: qualunque segno non linguistico: un gesto, una segnalazione stradale, un segnale di codice, ecc. (i segni matematici, alfabetici e ideografici rappresentano solo sottoprodotti del materiale linguistico) trova il suo equivalente nel dominio della lingua non nella singola parola come tale, ma costantemente nella compiutezza della frase, eventualmente monoverba, ma sempre frase in sé compiuta; sicché come segno (linguistico) può essere legittimamente identificata soltanto la frase, non la parola che ne rappresenta l'intrinseco ingrediente di costituzione.

Lo specifico del segno linguistico è, peraltro, appunto questo; ogni altro segno è, nei confronti del suo significare, una entità globale e inanalizzabile; l'analizzabilità del suo significante può aver sì, spiccatamente in un codice, funzione individuativa nei riguardi dei significanti degli altri segni del sistema, ma essa non trascende l'ambito puramente fenomenico, non si attua cioè in relazione ad una corrispondente analizzabilità della sfera significativa: questa rimane, sotto tale rispetto, un tutto globalmente in sé conchiuso (si prescinde da segnalazioni ideograficamente organizzate, che rappresentano sempre manifestazioni secondarie, dedotte dall'esprimere linguistico). Nel segno linguistico invece l'analizzabilità (...) è significativamente intrinseca; il significato del segno, vale a dire, è ciò che è, e come tale viene inteso, proprio in virtù dell'analizzabilità, in questi elementi cronologicamente ordinati (parole e morfemi) che ne rappresentano gli ingredienti costitutivi; e tali elementi non sono entità significative autonome, che in questa loro qualità esplichino una determinata funzione nel segno, ma semplicemente entità che funzionano sì in una sfera significativa, le quali però repetono tale caratteristica appunto dal fatto di funzionare in essa sfera; si realizzano cioè come entità funzionanti con una determinata funzione, solo quando e in quanto funzionano nel suo ambito, sicché la loro natura, la loro essenza è in questo funzionare in un ambito superiore (il segno linguistico) e d'altra natura (significativa): entità essenzialmente funzionali, emergenti dall'analisi del segno e che si riflettono di realizzazione in realizzazioni con funzioni similari e non identiche; perché, ad ogni singola realizzazione, il contributo funzionale dell'entità alla costituzione del relativo segno è palesemente il risultato del concomitare, da una parte, della carica funzionale, per così dire, derivante ad essa dalle analisi operate all'atto delle precedenti realizzazioni, delle quali quella considerata è di norma il riflesso, e dall'altra, delle contingenze sintagmatiche e paradigmatiche comportate da quel particolare segno e dalla sua eventuale cornice estralinguistica.

Il considerare segni entità del (...) che al segno (linguistico) si contrappongono come termini subordinati, nell'ambito della relazione che la funzionalità ad esso specifica comporta, preclude materialmente ogni possibilità di una definizione sostanziale adeguata e capace di conferire alla linguistica quella autonomia cui pure il suo concreto attuarsi le dà incontrovertibile diritto; e da questa inafferrabilità di un oggetto contenutisticamente individuabile nasce l'esigenza di elevare un carattere, peculiare ma non espletivo, come quello della relazionalità, ad attributo di esistenza delle entità linguistiche; col che, peraltro, la disciplina rimane inquadrata in una acronia (non sincronia!) incompetente dell'effettiva realtà della lingua. Insomma, il contrapporre iposemi e segni (o semi) è condizione imprescindibile se si vuole che le nostre considerazioni sul fenomeno linguistico tengano il debito conto del fatto ad esse essenziale che, nel relativo esprimere, ciò di cui si può univocamente affermare che "significa" è propriamente e solamente la frase nella sua compiutezza, mentre alle parole non un determinato significato compete, ma una determinata funzione nell'ambito significativo.

Ora questa discriminazione concettuale, ancora così poco familiare alla stessa indagine specializzata - per questo ho ritenuto opportuno riprodurre qui le relative argomentazioni -, è naturalmente ben lungi dal presentarsi come patrimonio riflesso (...). Per rendercene conto, consideriamo le due frasi

Non capisco il significato di una frase.

Non capisco il significato di una parola.

e, per eliminare ogni differenziazione eterogenea, immaginiamole realizzate in analoghe condizioni di cornice; possiamo ipotizzare una situazione del genere supponendole, ad esempio, realizzate da qualcuno che stia eseguendo una traduzione in risposta ad un interlocutore, il quale, al corrente del lavoro che egli sta compiendo, e avendo notato in lui segni di irritazione e di impazienza, gliene abbia domandato la ragione. Realizzandole, o facendole realizzare da altri, col tono che una simile circostanza suggerisce - a rendere più minimi i pericoli di una dizione riflessa irresponsabile intervengono familiarità del costrutto e la semplicità della costruzione, e in ogni modo, per garantire una maggiore spontaneità all'esprimere, si potrà far precedere una qualunque espressione di stizza - si avvertirà facilmente che nella prima il rilievo maggiore compete a significato, nella seconda a parola; e ciò appunto ad esprimere che solo nel primo caso si tratta di un vero e proprio significare, al quale si riferisce il precedente non capisco (qualcosa d'analogo, fatte le debite proporzioni, a quel che si verifica se noi diciamo in senso proprio: non ho capito il significato di quel gesto), mentre nel secondo, significato indica semplicemente la funzionalità, un elemento cioè già specificamente insito nella nozione parola; e conformemente infatti, se nella stessa cornice repetiamo le due frasi eliminando significato (non capisco una frase; non capisco una parola), nella prima il rilievo viene ad accentrarsi su capisco, nella seconda permane su parola (per controllare meglio l'atteggiamento prosodico di quest'ultima frase, potrà riuscire utile confrontarlo con quelli che la stessa sequenza iposematica assume se con essa si intende alludere al semplice dato grafico, oppure si vuole esprimere che non si capisce nulla).

Contro la sistematicità delle discriminazioni prosodiche a questo punto del nostro ragionamento si potrebbe rilevare un'obiezione assai grave: noi le abbiamo colte attraverso divergenze di atteggiamenti prosodici, di una rilevanza certo incontrovertibile, delle quali però abbiamo soltanto segnalato la presenza, non aggiungendo alcunché sulla natura e la qualità degli elementi fonici divergenti; né alcunché saremmo stati in grado di aggiungere e, in effetti, riprendendo in esame una qualunque delle coppie di semi sulle quali abbiamo eseguito i nostri rilievi (poniamo le due frasi dedotte dalla sequenza iposematica Si avvicinò saltando attribuendo al gerundio valore una volta modale e un'altra strumentale) è facile osservare, se la si realizza più volte, che ad ogni nuova realizzazione la divergenza rimane inequivocamente avvertibile, ma i due elementi della coppia, di per sé considerati, cioè gli atteggiamenti prosodici dei due gerundi, sono soggetti a continue oscillazioni praticamente incontrollabili. Ciò potrebbe indurre a credere che la prosodia si riduca ad un complesso di segnalazioni vaghe ed approssimate, sommerse nell'inestricabile pània dell'arbitrio individuale. Ma il fatto è, al contrario, la conseguenza dell'assoluta coerente fedeltà dei prosodemi all'effettivo valore del sema.

(...)

Un riflesso fonematico del fenomeno possiamo osservare nella permutabilità di tra e fra riguardante, come s'è detto, un settore di funzionalità al quale l'italiano riserva in prevalenza discriminazioni prosodiche. Presa in considerazione una frase qualunque nella quale compaia, non all'inizio, il morfema, poniamo

Lo spettacolo avrà inizio tra (fra) dieci minuti

realizzandola con naturalezza (sempre in sede di sema astratto, si intende) verrà fatto di inserirvi una qualunque delle due preposizioni senza poter prevedere in nessun modo quale; ma se, non appena pronunciata la preposizione, ci si interrompe riflettendo sulla sua sostituibilità con l'altra, si avverte nettamente che essa in quel caso non può aver luogo, e si ha quasi l'impressione che il sema comporti soltanto l'alternativa cui ci si è attenuti; senonché, fissando l'attenzione sull'altra preposizione, ci si accorge che nulla osta ad una realizzazione in cui essa venga legittimamente assunta. Come tutto ciò si verifichi è facile intendere: la necessità di aderire univocamente all'una o all'altra delle due assunzioni (l'individuazione fonematica delle forme rende impossibile un'entità intermedia) fa sì che l'ambito di variabilità, onde attingere come valore medio l'andamento prosodico per il sema astratto, sia rappresentato indifferentemente, ma esclusivamente, da una delle due classi di reticoli prosodici (reticolo prosodico chiameremo di qui in avanti il complesso degli andamenti prosodici delle forme che costituiscono un sema determinato) connesse alle due preposizioni; data la sede astratta dell'esprimere, è solo l'incontrollabile contingenza del momento a decidere la scelta, ma questa all'atto di realizzare la prima parola è già fatta, ed è per ciò che nell'articolare la preposizione ci si sente praticamente vincolati ad essa, ma nulla impedisce che in una nuova articolazione si aderisca all'altra.

Il grado di attrazione dipende naturalmente dalla maggiore o minore genericità del sema; se questo assume una certa ampiezza, aumentando i condizionamenti reciproci fra gli elementi, si riduce l'ambito di variabilità e con esso il gioco delle oscillazioni; e qui possiamo avvalerci di nuovo del controllo fonematico che abbiamo or ora utilizzato.

Sia il sema: 

Gli orsi che vivono fra (tra) i ghiacci sono bianchi;

Quell'orso vive tra (fra) i ghiacci;

Quell'orso è bianco.

Come è facile osservare, realizzandolo con la cadenza sillogistica che siamo soliti attribuire a sequenze del genere, nella prima frase possiamo introdurre sia fra sia tra, nella seconda - e a ciò allude appunto l'ordine delle inversioni in parentesi - soltanto la preposizione che non è comparsa nella prima; il minor grado di attrazione cioè condiziona la libertà di scelta con l'imporre l'alternanza; che questa non dipenda da ragioni, come si suol dire, eufoniche dimostrano foni quali ad esempio:

Se  X  è compreso tra (fra) A e B

e  A e B sono compresi tra (fra)  C e D

l'X è compreso tra (fra)  C e D;

dove la scelta fatta per la prima proposizione ci si impone anche nella seconda e nella terza. E queste due alternative (alternanza o persistenza) non sono esclusive, ma dipendono dai particolari condizionamenti; ce lo mostra un sema quale:

Ti do una buona notizia: tra (fra) pochi giorni sarai di nuovo tra (fra) noi

il quale, nella sua astrattezza, consente tutte e quattro le realizzazioni derivanti dal combinarsi delle due alternative (tra... fra...; tra... tra...; fra... tra...; fra... fra...). Ognuno di essi individua, naturalmente, un particolare concretarsi della corrispondente attrazione semantica; quale settore significativo questa individuazione investa potremo veder meglio, come s'è detto, in seguito.

Se la sequenza iposematica può essere realizzata come sema concreto solo in condizioni al tutto eccezionali, e quindi imprevedibili all'atto della realizzazione astratta, com'è il caso, ad esempio, della già esaminata sequenza L'asino vola, essa non rappresenta più un sema astratto ma una semplice attrazione morfologica concernente i relativi indici considerati di per sé indipendentemente dalla individualità degli iposemi cui sono annessi (nel nostro caso il mero rapporto soggetto/predicato) e la prosodia si adegua a questa situazione particolare. Per rendersene conto, dati ad esempio i tre semi astratti

Il passero vola

Cinque è un numero primo

I bambini mangiano lo zucchero

e le tre sequenze

L'asino vola

Cesare è un numero primo

I libri mangiano lo zucchero

si realizzi ciascun sema facendolo seguire dalla relativa sequenza; si osserverà che un carattere comune contraddistingue in ciascuna coppia il secondo dal primo termine, e precisamente una realizzazione dalla struttura tenue e minimamente impegnata contrapponentesi a quella del sema che la precede in un rapporto che ricorda vivamente quello suggerito dal confronto semantico tra pronunziare e dire.

 È appunto questa struttura (sintomo formale dell'assurdo logico) il contrassegno della attrazione morfologica; essa ha la sua ragion d'essere nel fatto che l'ambito di variabilità cui attinge la prosodia di attrazione si riduce in questo caso ai soli elementi specifici delle classi al tutto generiche individuate dagli indici morfologici messi in gioco dalla sequenza, ad una parte minima cioè dei fattori prosodici che regolano l'esprimere linguistico. Alla esatta determinazione delle caratteristiche foniche che individuano questo particolare tipo di realizzazioni potrà naturalmente procedere soltanto l'indagine strumentale; delle difficoltà intrinseche, peraltro, che in questa fase esplorativa di ricerca si frapporrebbero ad una simile indagine, avremo modo di renderci debito conto soltanto in seguito.

Considerazioni analoghe valgono agli effetti della distinzione in sede fenomenica tra le entità prosodiche e il complesso degli elementi estrafunzionali - prosodia di realizzazione lo chiameremo di qui in avanti - che, come inizialmente si diceva, confluiscono nel tono con cui il singolo atto linguistico si realizza. Anche dal punto di vista del contenuto la questione dei rapporti fra prosodia vera e propria e prosodia di realizzazione è resa singolarmente delicata dalla particolare natura del relativo mezzo di estrinsecazione. 

Per venire in chiaro sull'argomento, nonché allo scopo di definire nell'ambito del significante le specifiche del settore prosodico nei confronti di quello propriamente fonematico, è necessario prendere le mosse da qualche osservazione su quest'ultimo (...).

Come l'iposema è l'unità funzionale nei confronti del sema, così il fonema è l'unità funzionale nei confronti dell'iposema; l'iposema cioè, in quanto unità fonicamente individuata, non è un tutto inanalizzabile...

(...)